DAL CONCILIO AD OGGI

DONNE E CHIESA

 

A circa un quarantennio dal concilio Vaticano II, merita attenzione l’insieme dei cambiamenti che hanno caratterizzato lo statuto della donna nella società civile e nel cammino ecclesiale. Il contributo decisivo alla riflessione nel magistero di Giovanni Paolo II e il compito di attuarne le potenzialità per l’oggi e per il futuro.

 

Dal messaggio del concilio Vaticano II alle donne oggetto di cura e di preoccupazione della Chiesa, alle donne sorelle e collaboratrici, geniali costruttrici di pace nella società, c’è un cammino sociale ed ecclesiale che è tuttora in fermento.

Molte questioni sono ancora aperte, come lo è il concilio stesso. È una sfida quella di mutare effettivamente la mentalità e la prassi delle comunità (singoli fedeli, associazioni, istituti religiosi, parrocchie), dato il permanere di contrastanti posizioni in seno alla Chiesa tra spinte in avanti e chiusure pregiudiziali, norme restrittive e comportamenti contraddittori.

Vi sono implicati problemi di carattere antropo-teologico: è possibile stabilire rapporti di giustizia tra i generi? Possono l’uomo e la donna – e in che modo – ricostruire quell’unità originaria abbozzata nel versetto biblico: “Maschio e femmina li creò. A immagine di Dio li creò” (Gen 1,27)?

Nonostante la scoperta della mappa del genoma umano, la donna e l’uomo sanno ancora meno di un tempo chi sono. Anche Adamo in fondo dormiva quando Eva è stata creata.

Lui e lei sanno solo che non può essere più una metà del cielo a definire l’altra, perché il mondo va letto “a due voci”, quelle che costituiscono l’umanità come uomo e come donna, nella reciprocità delle prospettive. Sanno inoltre che rivoluzionando la percezione dell’identità femminile le donne hanno dato inevitabilmente uno scossone anche a quella maschile, e dunque che solo rimettendo in discussione anche l’uomo la domanda sulla donna ha senso.

In generale, i movimenti delle donne hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo critico innovativo rispetto al concetto monocorde di Uomo, enfatizzato come universale astratto, di fatto coincidente con l’uomo maschio, adulto, civilizzato. La pressione che essi fanno per una migliore qualità della vita, specie in occasione delle conferenze internazionali dell’ONU, è una testimonianza della loro vivacità non priva di insidie.

Di fronte alla mole dei problemi che emergono non è il caso di presentare soluzioni “chiare e distinte”, come se si potesse avere uno sguardo alto sulla storia per poter offrire risposte definitive.

L’importante è contribuire a risvegliare l’attenzione e suscitare il gusto del pensare, facendo spaziare l’intelligenza senza frontiere. “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12,57) ci suggerisce il Vangelo.

Dopo il periodo dell’aggressività femminista contro la prepotenza maschilista, è già un ottimo risultato riuscire a dialogare senza preconcetti, guidati dalla promessa del Regno, proiettati verso il futuro ma senza sdegnare di valorizzare il passato, col suo peso ingombrante, è vero, ma anche con le sue risorse preziose, troppo spesso inesplorate.

 

ALCUNE TRASFORMAZIONI

SOCIOCULTURALI

 

La diffusione della cultura femminista

In Italia, dal punto di vista della base, la cultura femminista1 si è andata diffondendo a partire dagli anni Sessanta del Novecento, ridelineando il volto della società. Sono gli anni del post-concilio, che hanno visto trasformarsi un movimento di élite in cultura di base. Abbiamo assistito a una delle rivoluzioni più significative della nostra epoca, che ha cambiato la famiglia, il lavoro, la politica, seguendo un iter storico che corre parallelamente ad alcune importanti conquiste della scienza medica e della tecnica. Dopo il diritto di voto (1945), l’uso effettivo di quel diritto in maniera autonoma e cosciente (le donne del primo dopoguerra andavano alle urne con le indicazioni scritte dal parroco, dal marito, da uomini di prestigio); il nuovo diritto di famiglia (1975), istruzione allargata, accesso a tutte le professioni, tutela della maternità, controllo della natalità, assistenza dello stato, incoraggiamento al lavoro extradomestico, politiche delle pari opportunità...

È ancora evidente tuttavia la difficoltà di tradurre nella realtà i principi proclamati e i diritti conquistati; e i contraccolpi sulla vita delle donne e delle famiglie sono ancora pesanti.

Il motore principale del mutamento è stata la diffusione dell’istruzione, finalmente equiparata tra ragazzi e ragazze: non più ragazze a casa e al lavoro per far studiare i fratelli, non più scuole separate con l’apprendimento delle materie domestiche per le donne, ma classi miste e facoltà universitarie per gli uni e per le altre.

L’alleggerimento dei lavori domestici, grazie ai nuovi mezzi tecnici entrati nelle case (lavatrice, frigorifero, lavastoviglie...) è stato decisivo per ridurre il carico di lavoro delle donne e consentire loro una diversa e migliore qualità della vita e un guadagno di tempo per la partecipazione, la cultura e lo svago.

Le ambivalenze del mondo cattolico

Il rapporto tra donne e religione è stato a lungo l’asse che ha sorretto la vitalità di base della Chiesa. È un riconoscimento unanime che l’opera di promozione umana svolta dal cristianesimo ha influito positivamente sulla condizione femminile, specie riguardo alla libertà di scelta nel matrimonio, alla scolarizzazione, alla scelta della verginità e in generale al rispetto della dignità della donna come persona. E tuttavia la Chiesa è stata fatta oggetto di accuse di ritardo storico.

La femminilizzazione della religione ha corrisposto a una grande quantità di richieste: alle suore perché testimoniassero l’integrità delle “virtù cristiane” nella vita della Chiesa (obbedienza, nascondimento, servizio) e alle spose perché sostenessero la moralità e l’unità della famiglia.

L’azione rivoluzionaria intrapresa dal concilio si comprende chiaramente se si tiene conto di quale fosse la concezione della donna nella cultura popolar-cattolica ancora negli anni 1950-60: una concezione che intreccia elementi di spiritualità con reminiscenze fasciste dell’esaltazione del marito capo o anche l’ideale romantico-altruistico della donna con l’ermeneutica paolina della dedizione-obbedienza della moglie al marito come al Cristo stesso.

La storia ha camminato con i suoi passi e il mondo laico è risultato più attivo nel conquistare diritti per le donne nel corso del Novecento. Per contro troppo spesso nel mondo cattolico la presa di coscienza del mutamento è venuta in ritardo, dietro l’urgenza della necessità e all’insegna dell’attaccamento alla tradizione, quasi che il ritorno al patriarcalismo fosse il rimedio alla instabilità della famiglia, il cui ordine sarebbe garantito dall’attività domestica della donna e dall’autorità del capofamiglia.

Il magistero e la cultura cattolica hanno accentuato più i limiti che le conquiste della modernità, temendo che il modello dominante dell’uguaglianza finisse con l’occultare o stravolgere i tratti della femminilità, nonché l’assetto stesso della Chiesa.

Le donne più avvedute avvertono ora il bisogno di non agire solo in difesa, avvertendo che è tempo di essere creative, elaborando nuove mediazioni tra cultura contemporanea e Rivelazione. Un tale lavoro incontra notevoli difficoltà: l’insofferenza impaziente di quanti vorrebbero tutto e subito, l’opposizione dei dogmatici e dei conservatori, la sorprendente povertà di studi teologici non ripetitivi nel settore, l’indifferenza di quelle donne stesse che mal sopportano la messa in questione del mondo simbolico su cui hanno regolato la loro esistenza.

Rimangono fratture che tardano a ricomporsi. Il mondo cattolico ha stentato a tenere dietro a un femminismo che cavalcava la pista del binomio marxista tra liberazione e lavoro extradomestico. L’identificazione tra emancipazione femminile e ideologia dell’individuo produttore ha costituito ragione di diffidenza da parte della Chiesa preoccupata anche della sottolineatura antifamiglia.2 Si è di fatto realizzata nel postconcilio una profonda spaccatura tra il femminismo laico e l’ideale cattolico della donna, giacché la tradizione cattolica e il magistero si sono schierati decisamente a difesa della famiglia come fondamento della società, sia dal punto di vista delle relazioni private sia come presidio antistatalista.

Attualmente i movimenti delle donne appaiono più variegati, forse meno appariscenti, ma comunque vivi. E vi è un femminismo più moderato che va oltre le pure rivendicazioni di uguaglianza e oltre un certo fondamentalismo della differenza, che può incontrare quella parte del mondo cattolico che è più sensibile e attenta, dai passi forse ancora incerti, ma anche più ponderati.

Tra conquiste e cadute

Per coniugare sapientemente identità e dialogo, occorrerà un’opera non facile di discernimento, una sapienza accogliente e insieme selettiva. Uno dei suoi compiti è quello di evitare le trappole della contrapposizione tra due filosofie, due civiltà: tradizione tomista e modernità, sacralizzazione e secolarizzazione, fede a ateismo, patriarcalismo e femminismo.

È più opportuno fare il possibile perché le famiglie riescano davvero a bilanciare i diversi mondi di appartenenza, senza che la donna perda il suo ruolo centrale come cuore pulsante dell’unità del piccolo nucleo familiare.

In mezzo alle difficoltà della famiglia nel mondo occidentale, riuscirà la donna a custodire le risorse più tipiche e preziose della femminilità (formare l’essere umano, generare reciprocità, spingere in avanti la qualità della vita, intuire i tempi e i modi del comunicare, privilegiare le persone sulle istituzioni)? Molto dipenderà dalla capacità di ottimizzare le relazioni interpersonali tra uomini e donne, solidarmente responsabili degli obblighi di cura.

Dal concilio in poi è stato sempre più chiaro che la soluzione del problema posto dalla soggettualità della donna non poteva essere risolto con un ritorno all’indietro. Del resto le donne, pur pagando un prezzo, non hanno dato segni di nostalgia per il passato. Nonostante lo stress cui devono far fronte nella complessità sociale, esse non sono affatto disposte a perdere i diritti che hanno conquistato. Preferiscono la debolezza del postmoderno alla forza di un mondo tradizionale nel quale valori come espressività, accoglienza, condivisione erano riservati alla retorica e alla predica.

Le valutazioni pessimistiche evidenziano il boom dei divorzi, degli aborti, delle separazioni, della violenza, ma tendono a sottovalutare il guadagno in termini di qualità dei rapporti in famiglia e nel lavoro, dato che vengono immesse, nei diversi mondi, quelle domande di espressività e intimità una volta affidate al mondo privato.

Si può dire che la partecipazione sociale e lavorativa delle donne contribuisce a far esplodere le incongruenze dei sistemi e a riorientarli in senso umano, perché le donne in prima linea reclamano l’ottimizzazione della vita, provocando il ripensamento della qualità totale, in famiglia come nell’azienda. Non a caso oggi gli imprenditori vanno nella stessa direzione: una più equilibrata distribuzione tra tempo libero, famiglia e lavoro, la costituzione di équipes ben assortite, l’attenzione a sorridere e diffondere serenità nei rapporti interpersonali, con i clienti, i dipendenti, i membri tutti dell’azienda. Le donne dunque non sono solo oggetto della crisi della modernità, ma anche protagoniste della sua messa in crisi.

La cultura contemporanea può essere considerata un periodo di incubazione di nuovi rapporti tra i generi non privo di rischi. Una più approfondita comprensione del maschile e del femminile costituisce uno snodo indispensabile per affrontare con discernimento la complessità della cultura postmoderna e gettare le premesse di una nuova cultura dei rapporti tra i generi.

 

LA VOCE DELLA CHIESA

POSTCONCILIARE

 

Il magistero di Giovanni Paolo IInella Mulieris dignitatem

Non molto poteva cambiare, in radice, se non mutava l’esegesi della sacra Scrittura e non interveniva il magistero di Giovanni Paolo II a reinterpretare le dinamiche della relazione tra i generi, sviluppando in modo decisamente innovativo temi che nel concilio erano stati appena sfiorati.

La Mulieris dignitatem (MD) con la data del 15 agosto 1988 segna la presa d’atto ufficiale dell’esistenza di una questione femminile, che esce così dal sommerso e diventa oggetto specifico di riflessione della Chiesa e quindi tema dei dibattiti organizzati dalle diocesi e dai movimenti cattolici.

Giovanni Paolo II chiarisce che il dominio dell’uomo sulla donna è frutto del peccato, riprendendo alcuni termini tipici della lotta femminista, come «La donna non può diventare “oggetto” di “dominio” e di “possesso” maschile» (MD 10). Esso «indica il turbamento e la perdita della stabilità di quella fondamentale eguaglianza che nell’unità dei due possiedono l’uomo e la donna: e ciò è soprattutto a sfavore della donna, mentre soltanto l’eguaglianza, risultante dalla dignità di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il carattere di un’autentica communio personarum» (ib).

Il testo ribadisce che uomo e donna sono immagine di Dio, come singoli e insieme, nell’uguaglianza e nella differenza; che ad entrambi è stato chiesto di essere fecondi e di soggiogare la terra; che la seconda descrizione della creazione nel libro della Genesi, con il racconto della donna tratta dall’uomo è meno preciso, «più descrittivo e metaforico: più vicino al linguaggio dei miti allora conosciuti»; che il peccato originale è “peccato dell’uomo” indipendentemente dalla “distribuzione delle parti” cui fa riferimento Paolo nella prima lettera a Timoteo (2,13-14: “Prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo a essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole”); che la violazione dell’eguaglianza, col predominio dell’uomo maschio, non corrisponde al progetto originario, ma è maschilismo frutto del peccato (“Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”/ Gen 3,16b).

Solo un’antropologia della reciprocità poteva consentire il superamento dell’interpretazione letterale e maschilista di Ef 5, che ancora dopo il concilio faceva da freno a una interpretazione paritaria del rapporto tra i coniugi. La MD infatti chiarisce che la sottomissione, lungi dall’essere unilaterale, è «sottomissione reciproca nel timore di Cristo» (MD 24).3 Tale principio innesca un germe di mutamento che dovrà estendersi, oltre il matrimonio, a tutte le dimensioni della vita di relazione, anche nella Chiesa, a cominciare dalla riformulazione dell’interpretazione simbolica del mondo, perché non si crei una scissione tra la famiglia e gli altri mondi, quasi che solo nel matrimonio sia possibile vivere concretamente l’uguaglianza uomo-donna.

Nell’orizzonte del reciproco dono di sé – dunque non a partire da elementi sociologici, ma di antropologia biblica e teologica – si sviluppano le condizioni perché l’un genere possa apprezzare sempre più il dono dell’altro e farne tesoro in tutte le relazioni e in tutti i luoghi istituiti, ivi compresa la stessa vita della Chiesa (ad extra e ad intra); non per rispondere con acquiescenza alle mode o per prurito rivendicativo, ma per dare concretezza a quella “civiltà dell’amore” nella quale ciascun genere veda riconosciuta la sua dignità e sveli specularmente anche la vera dignità dell’altro.

Questa è la sfida del futuro: chiedersi che cosa significa concretamente realizzare la reciprocità in famiglia, nel lavoro, nella cultura, nella Chiesa, dovunque sia possibile modellare la vita umana sul principio originario del “maschio e femmina li creò” e quindi sulla unidualità antropologica dell’essere umano.

Se ad extra il lavoro è relativamente più facile, ad intra la riflessione si incarta nelle questioni dei ministeri, essendo il tema della donna affrontato nella Chiesa sempre e solo con riferimento ai laici.

Il “genio delle donne”

Vi è un’affermazione particolarmente incisiva nella MD: «... questo progresso unilaterale può comportare anche una graduale scomparsa della sensibilità per l’uomo, per ciò che è essenzialmente umano. In questo senso, soprattutto i nostri giorni attendono la manifestazione di quel “genio” della donna che assicura la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza, per il fatto che è uomo» (MD 30).

Quando Giovanni Paolo II ha utilizzato questa espressione, con grande sorpresa dei benpensanti,4 non pochi hanno pensato che essa dovesse essere intesa come un puro omaggio alle donne, quasi a compenso della tradizionale misoginia.

Per cercare di comprendere il senso dell’espressione, occorre non fermarsi all’ evocazione retorica per cogliere la differenza tra genio e talento: il talento esclude una gran parte dell’umanità dal circuito privilegiato degli intellettuali e degli accademici della storia, si identifica con istruzione e intellettualismo, mentre la genialità implica ampiezza di vedute oltre l’umano, progettualità alta e profezia radicandosi nella migliore rivelazione dei doni dello Spirito. Nel genio la misura è proporzionale e qualitativa: ciascuno, che abbia 2 o 99 di quoziente intellettuale, realizza la vera genialità se riesce – o per lo meno vi si sforza – di arrivare fino in fondo alla propria intelligenza e oltrepassarla per opera della Grazia.

È facile che gli intellettuali siano sprovvisti di una tale genialità evangelica, di cui invece risultano dotati i bambini e le donne, giacché l’espressione della genialità ha il suo punto forte nell’amore “folle”. Le donne sanno a fiuto che la verità oltrepassa la ragione e che per raggiungerla occorre ben più che stare ore e ore sui libri. Amore è soprattutto sapienza dell’ineffabile, contemplazione di segrete comunicazioni non espresse a parole (“donne ch’avete intelletto d’amore”, recita il celebre verso di Dante).

Può la genialità femminile rappresentare questa iniezione di genuina e non strumentale carica di amore e di cura? Va da sé che sarebbe un ottimismo ingenuo credere che si tratti di un binomio automatico.

E tuttavia Giovanni Paolo II orienta la bussola verso l’ideale, contando sul portato biblico, antropologico e storico per sperare nell’immissione di questo flusso positivo di valori in tutte le strutture della società e della Chiesa.

Dal punto di vista dell’attuazione pratica di questi squarci di profezia aperti dal pontefice, è indiscutibile che la centralità del ruolo materno e la femminilità costitutiva e integrale di ogni dimensione dell’essere donna sono punti considerati irrinunciabili, in coerente continuità col concilio. Di conseguenza il papa sembra aver evitato il più possibile di affrontare questioni giuridiche e pastorali riguardanti il ruolo della donna nella Chiesa, benché sia poi intervenuto a troncare le rivendicazioni dei movimenti femministi cattolici sul tema del sacerdozio femminile con la Ordinatio sacerdotalis (22 maggio 1994), cui ha fatto seguito, anche per la presenza di un’area considerevole di contestazione patente o latente, la Risposta della Congregazione per la dottrina delle fede (28 ottobre 1995).

Di fatto, mentre vengono ripresi gli studi sul diaconato, da una parte si punta maggiormente a una interpretazione del sacerdozio che ne riduca la componente di “potere” per assimilarla allo spirito di servizio di tutti i cristiani, e dall’altra si tenta di accelerare nella base (piuttosto che per decreto dall’alto) il processo di mutamento culturale e di effettiva partecipazione delle donne ai momenti ecclesiali collegiali.

Il protagonismo sociale delle donne

Dal punto di vista della partecipazione politica, il mondo cattolico ha preso coscienza dell’urgenza dell’impegno delle donne nella prima metà del secolo XX, quando il marxismo conquistava il mondo operaio e una discreta fetta di popolazione femminile. Pio XII, nel 1945, così si rivolgeva alle donne dell’Azione Cattolica: «La vostra ora è suonata, giovani e donne cattoliche; la vita pubblica ha bisogno di voi».5

Dopo secoli di lontananza dall’agorà, occorreva risvegliare il gusto della partecipazione, sollecitare al voto, frenare l’astensionismo, educare a passare dal voto pilotato all’adesione convinta e ad assumere all’occorrenza la responsabilità politica, sapendo rischiare senza trincerarsi nelle retrovie dello spiritualismo, pur di tentar di dare concretezza agli ideali, alle prese con i meccanismi della forza, i numeri, e i vari condizionamenti del potere.

Si doveva imparare anche a reclamare il rispetto della dignità della donna e i giusti riconoscimenti, non per pura rivendicazione di potere ma perché la migliore qualità della vita passa anche per la presenza di donne nei luoghi delle decisioni.

L’associazionismo cattolico femminile di base si è perciò impegnato nella seconda metà del secolo scorso, a ricomporre l’alienazione tra donna e cittadina, nella convinzione che senza far crescere la partecipazione la democrazia è solo formale. Ancora oggi c’è da recuperare un ritardo culturale e sociale che è un limite ma è anche un vantaggio legato a una risorsa non ancora sfruttata e perciò più capace di prendere quota evitando gli eccessi e le cadute della cultura laico-femminista.

Giovanni Paolo II prende esplicitamente atto del protagonismo sociale delle donne fin dal Messaggio per la giornata della pace (MP) del 1995 e con particolare incisività nella Lettera alle donne (LD) del 29 giugno dello stesso anno.

Nel Messaggio per la Giornata della pace 1995

Di fronte ai notevoli mutamenti verificatisi dappertutto nel mondo, sia pure con ritmi e modalità diversi, l’attuale pontefice offre una valutazione positiva: «È stato un cammino difficile e complesso e, qualche volta, non privo di errori, ma sostanzialmente positivo, anche se ancora incompiuto per i tanti ostacoli che, in varie parti del mondo, si frappongono a che la donna sia riconosciuta, rispettata, valorizzata nella sua peculiare dignità» (MP 4).

Dare compimento a questo processo “benefico” appare pertanto un dovere, oltre che una necessità, dal momento che la società tutta è rimasta troppo a lungo privata della ricchezza del contributo delle donne e non è stata in grado di rappresentare «la sostanziale unità della famiglia umana» (MP 9). Appare anche come un diritto da affermare: «Le donne hanno pieno diritto di inserirsi attivamente in tutti gli ambiti pubblici e il loro diritto va affermato e protetto anche attraverso strumenti legali laddove si rivelino necessari» (ib.).

Ancor oggi per la donna l’inserimento a pieno titolo nella società è reso difficile dalla sua stessa maternità, più ostacolo che risorsa. Se una madre dedica il suo tempo giornalmente alla cura dei figli, finisce ben presto col prendere atto che il suo “valore sociale” è dimezzato; che pagherà cara la “colpa” di aver messo al mondo i figli; che è solo parzialmente titolare dei diritti legati alla cittadinanza.

L’accentuarsi del peso del doppio lavoro, la sottovalutazione e la strumentalizzazione del suo lavoro (basse retribuzioni e qualifiche, impedimenti alla carriera, molestie sessuali), la quantità di domande rivolte a lei perché vi sia in famiglia una migliore qualità di vita, i tagli della spesa per i servizi e la mancanza di adeguate politiche familiari continuano a mettere la donna di fronte all’aut-aut tra famiglia e lavoro.

Non è facile immaginare un futuro in cui a questo cumulo di problemi si potrà rispondere col rinviare le donne a casa e negare loro l’istruzione superiore. Bisognerà al contrario mantenere ferma, e anzi potenziare, l’importanza della donna nella famiglia, favorendo nel contempo il suo impegno nella società, la quale ha molto da guadagnare dalla sua presenza, se si tiene conto che il mondo del lavoro, come è attualmente organizzato, segue leggi proprie che spesso si ritorcono contro la persona, con tutti i fenomeni dell’alienazione connessi.

Vengono in luce i limiti dell’antica scissione tra uomo-lavoratore e donna-madre, che continua a pesare sull’interpretazione di un mondo familiare chiuso e un mondo del lavoro asfissiato dalle sue stesse logiche autoreferenziali. Le cattive conseguenze del peccato si riflettono in questa scissione che impone all’uomo di “sudare” e alla donna di soffrire il travaglio del parto, “condanne” che contraddicono la chiamata di entrambi a “dominare” la terra e “assoggettarla” o, in altri termini, a cooperare con Dio creatore, l’uno e l’altra secondo i propri talenti.6

La Lettera alle donne

Giovanni Paolo II riconosce che è stato troppo lento il cammino per ottenere il riconoscimento dei diritti delle donne e ancora molto c’è da fare per creare concretamente e dovunque condizioni di vita conformi da un lato alla Dichiarazione universale dei diritti della persona e dall’altro alla specifica dignità della donna, tuttora in condizioni di svantaggio (LD 1-3). La lettera è così anche un contributo prezioso a che non venga dimenticata l’opera delle tante donne che hanno lottato per ottenere «una effettiva uguaglianza dei diritti della persona e dunque parità di salario rispetto a parità di lavoro, tutela della lavoratrice madre, giuste progressioni nella carriera, uguaglianza fra coniugi nel diritto di famiglia, riconoscimento di tutto quanto è legato ai diritti e ai doveri del cittadino in regime democratico» (LD 4). Tali lotte non possono essere rivendicate unilateralmente da questa o quella appartenenza ideologica o partitica, giacché tutte le donne, anche le più dimenticate e misconosciute, hanno aggiunto il loro piccolo/grande tassello per la conquista dei diritti di cittadinanza, spesso senza raccoglierne i frutti «in tempi in cui questo loro impegno veniva considerato un atto di trasgressione, un segno di mancanza di femminilità, una manifestazione di esibizionismo, e magari un peccato!» (LD 6).

Era necessario che qualcuno esprimesse pubblicamente il debito che l’umanità ha verso le donne che in punta di piedi hanno costruito la storia, ma che sono assenti dai libri di testo che raccontano alle nuove generazioni le tappe dello sviluppo umano. Era necessario riconoscere che molte grandi opere della cultura, dell’intelletto e della creatività artistica sono state possibili all’umanità grazie al contributo sommerso delle donne di tutte le culture e di tutte le religioni (cf. LD 3).

La difesa dalle ingiustizie

La Lettera alle donne manifesta anche una particolare sollecitudine verso le situazioni di violenza contro le donne che rimandano alle guerre (stupri e altre violenze), ma anche a quelle sottili ingiustizie quotidiane di una pace costruita senza rimuovere le condizioni dell’emarginazione, dell’edonismo, del maschilismo, delle tante violenze nascoste in famiglia e nei luoghi di lavoro. Scaturisce l’invito a non arrestarsi alla denuncia delle discriminazioni e delle ingiustizie, ma impegnarsi «per un fattivo quanto illuminato progetto di promozione che riguardi tutti gli ambiti della vita femminile» (LD 6).

Con la LD la Chiesa, sentendo l’urgenza dei problemi legati a uno sviluppo che necessariamente passa per la centralità della donna, riconosce anche le responsabilità oggettive di «non pochi (suoi) figli» nei confronti delle situazioni di ingiustizia.

Sarebbe difficile distribuire tali responsabilità in proporzioni eque tra i diversi soggetti sociali, senza tenere conto delle circostanze e dei contesti storici. Per certi versi, si può dire che persino le donne, imbevute della cultura dominante, hanno contribuito a tramandare una mentalità misogina nell’educazione delle nuove generazioni. Proprio per questo, il gesto di chi ha avuto il «coraggio della memoria» e il «franco riconoscimento delle responsabilità» si presenta come un modello da riproporre a tutte le relazioni tra i generi, tra i popoli, tra le Chiese e i gruppi sociali, giacché i tempi nuovi impongono atti di conversione e gesti di giustizia evidenti.

Verso una concreta reciprocità

Nella LD viene ribadito il principio antropologico dell’aiuto reciproco non solo per quel che riguarda la famiglia, ma anche per tutta l’opera umana della cultura e della costruzione della società. I presupposti biblici e antropologici circa la unidualità consentono di gettare luce sulla cultura che le donne hanno sviluppato in questi ultimi decenni in ordine ai temi dell’uguaglianza e della differenza. Nella loro reciprocità sponsale e feconda, nel loro comune compito di dominare e assoggettare la terra, la donna e l’uomo non riflettono una uguaglianza statica e omologante, ma nemmeno una differenza abissale e inevitabilmente conflittuale: il loro rapporto più naturale, rispondente al disegno di Dio, è l’«“unità dei due” ossia una “unidualità” relazionale, che consente a ciascuno di sentire il rapporto interpersonale e reciproco come un dono arricchente e responsabilizzante. A questa “unità dei due” è affidata da Dio non soltanto l’opera della procreazione e la vita della famiglia, ma la costruzione stessa della storia» (LD 8).

La sottolineatura, molto opportuna, presente anche nella Centesimus annus, ricorda che l’impegno di tutti a rimuovere discriminazioni e ingiustizie è «un atto di giustizia, ma anche una necessità. I gravi problemi sul tappeto vedranno, nella politica del futuro, sempre maggiormente coinvolta la donna: tempo libero, qualità della vita, migrazioni, servizi sociali, eutanasia, droga, sanità e assistenza, ecologia, ecc. Per tutti questi campi, una maggiore presenza sociale della donna si rivelerà preziosa, perché contribuirà a far esplodere le contraddizioni di una società organizzata su puri criteri di efficienza e produttività e costringerà a riformulare i sistemi a tutto vantaggio dei processi di umanizzazione che delineano la “civiltà dell’amore”» (LD 4).

 

IL CAPOVOLGIMENTO

ANTROPOLOGICO

 

La novità dei tempi presenti sta nel fatto che quei valori femminili, che prima erano considerati “deboli” in senso spregiativo e che ancora spesso sono di fatto perdenti dal punto di vista produttivo, divengono spesso i soli possibili e dunque sempre più indispensabili nei diversi ambienti di vita. Essi si affermano sull’autosufficienza della ragione, tipica della modernità: l’affettività repressa, l’economia ridotta al guadagno, l’azione valutata con criteri di efficienza, la politica distaccata dalla morale e dalla religione, la morale livellata sulla statistica.

Di qui l’importanza di una rivoluzione etico-antropologica che, con gli occhi di Giovanni Paolo II, vede al centro l’interpretazione simbolica della femminilità. Entro un orizzonte escatologico e grazie al segno profetico rappresentato dalla donna, si rende comprensibile il compimento del sacerdozio regale degli uomini e delle donne in Dio e il compimento della verità come carità: «“più grande è la carità”» (MD 30, citando 1Cor 13,13).

Il femminile simbolico esprime infatti l’ideale completezza della natura umana (bellezza, bontà, maternità, verginità, purezza...) ed è dunque riferimento ideale per uomini e donne. In questo senso il papa parla di “archetipo di tutto il genere umano”: «La Bibbia ci convince che non si può avere una ermeneutica dell’uomo, ossia di ciò che è umano, senza un adeguato ricorso a ciò che è femminile» (MD 22).

Forse le donne trovano eccessivo l’investimento fatto su di esse. Il rischio è di non distinguere l’idealtipo dalle donne concrete, esposte alle cadute nel male come tutti gli esseri umani. L’essere individuale della persona non può essere identificato con la femminilità tout court, senza con ciò intaccare il principio di libertà e impoverire la ricchezza della pluralità. Tenere distinto l’ambito simbolico-ideale da quello della vita reale significa evitare di contrapporre il modello di donna angelicata alla realtà delle infinite variazioni che vanno dalla Beatrice di Dante alle schiave del sesso, alle sanguinarie della storia.

Il lavoro della storia e della Chiesa non è affatto concluso. Le soluzioni migliori emergeranno se si favorirà il discernimento, poiché non è più possibile distribuire certezze uguali per tutti. Basta condividere il compito di far crescere la sensibilità e l’attenzione verso il bene, quasi ripulendo gli spazi perché si possa udire la voce dello Spirito, il quale oggi non meno di ieri è all’opera. E la creazione è buona (cf. Gen 1-2).

 

Giulia Paola Di Nicola

 

1 Per meglio comprendere le diverse accezioni della parola femminismo, cf. DI NICOLA G.P., Femminismo, in CAMPANINI G.-BERTI E., Dizionario delle idee politiche, Roma 1993, 324-337.

2 Si può comprendere la distanza rispetto alle convinzioni espresse nella Rerum novarum di Leone XIII: «Certe specie di lavori non si addicono alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del sesso deboile, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa» (RN II B 3).

3 Per capire la novità di questa impostazione, rileggiamo quanto diceva Pio XII nella Allocuzione agli sposi novelli del 10.9.1941: «Sì, l’autorità di capofamiglia viene da Dio come venne da Dio ad Adamo la dignità e l’autorità di primo capo del genere umano, fornito di tutti i doni da trasmettersi alla sua progenie: onde egli fu per primo formato e poi Eva; e Adamo, dice s.Paolo, non fu ingannato, ma la donna si lasciò sedurre... O spose e madri cristiane, mai non vi sorprenda la sete di usurpare lo scettro della famiglia. Il vostro scettro sia quello che vi pone in mano l’apostolo delle genti: il salvarsi per la procreazione dei figli...».

4 Circa il pensiero di Giovanni Paolo II si rinvia a DI NICOLA G.P.-DANESE A. (a cura), Il papa scrive le donne rispondono, EDB, Bologna 1996.

5 Questo e altri passaggi importanti si trovano riportati in MICELI A., Tra storia e memoria, CIF, Roma 1994.

6 Commenta opportunamente Piersandro Vanzan: «Dopo il peccato, l’uomo e la donna non li vediamo più “insieme” a lavorare e a procreare, ma con una innaturale – rispetto al piano di Dio (ma naturalissima per il maschilismo successivo) divisione dei ruoli, solo Adamo diventa il lavoratore, e solo Eva la madre: ed entrambi non per vocazione e amore, ma per castigo e come condanna» (VANZAN P.,La donna nella Chiesa: problemi e prospettive, in AA.vv., La donna nella Chiesa e nella società, AVE, Roma 1986, 111-182,123).