EDUCARSI ALL’INTERCULTURALITÀ

 

Il sito internet Vidimus Dominum, nato in seguito al congresso internazionale dei giovani religiosi che si è tenuto a Roma nel 1997, ha rivolto a don Pasquale Chavez, Rettore maggiore dei salesiani, alcune domande sull’attuale momento storico e i problemi che si sono aperti in seguito alla cosiddetta guerra preventiva in Iraq. Ecco alcune sue risposte apparse sul sito il 17 aprile scorso.

“Guardando l’attuale situazione mondiale con gli occhi della gente del terzo mondo, nella politica dell’attuale amministrazione degli Stati Uniti si vede l’affermarsi di una superpotenza ma soprattutto di una prepotenza. Si ha la sgradevole impressione che il governo degli Stati Uniti, anche a dispetto di tantissimi cittadini di sentimenti democratici, si senta custode di un ordine mondiale a proprio uso e consumo. Come persona originaria del Messico – ma penso che un analogo interrogativo attraversi la mente di milioni di persone al mondo – mi chiedo chi abbia nominato o affidato agli Stati Uniti questo ruolo di moderatore universale dal momento che esistono già le Nazioni Unite che meglio possono garantire soluzioni democratiche e attente al pluralismo culturale che fortunatamente prospera nel mondo. È indubbio che manchi un contrappeso all’unica superpotenza americana e ciò rende reale il pericolo di una gestione unilaterale dei rapporti internazionali quando non ci sia un’autodisciplina del limite e del giusto che gli Stati Uniti dovrebbero avere nella stessa misura della loro potenza. A differenza di quando esisteva il contrappeso dell’URSS, ora ci troviamo a vivere i guasti di una egemonia che vorrebbe gestire tutto. Per questo penso che un’Europa sempre più unita sia un vantaggio per un sano equilibrio nel mondo. Vedo e sento in giro la reazione mossa da sentimenti antiamericani. Non si possono negare le atrocità commesse da governi e personaggi come Saddam Hussein, ma neppure si possono ignorare le responsabilità americane nella corsa al riarmo, nel possesso e uso di armi di distruzioni di massa, nel persistere al suo interno della pena capitale, nell’uso privilegiato delle leggi commerciali. Ci sono convenzioni e istituzioni internazionali pienamente legittime che debbono valere per tutti. E i necessari aggiornamenti di queste istituzioni dovrebbero essere migliorativi per la rappresentanza e la dignità di tutti i popoli e non punitivi ed emarginanti di culture e interessi diversi dalle potenze maggiori”.

Il conflitto in Iraq e specialmente la teoria del nuovo ordine portata avanti dal governo americano, fuori contesto ONU, ha cambiato profondamente lo scenario mondiale rispetto a un anno fa. Gli è stato chiesto se si è sentito spiazzato da questo cambiamento.

“Non e’ stata una sorpresa completa questo nuovo scenario. Mi ero già dichiarato contrario al canto di Fukuyama sulla fine della storia e al suo inno in favore del liberismo economico e la fine del terzomondismo. Egli parlava di ricostruire la torta delle risorse prima di ridistribuirle. Mi pareva già allora un linguaggio cinico. Se così fosse senza voler considerare che attualmente una torta distribuita c’è già – sebbene all’80% della popolazione mondiale tocchi solo il 20% delle risorse mentre una ristretta minoranza consuma l’80% dell’intera torta ed è preoccupata del futuro dove una così alta percentuale non appare garantita – dovremmo accettare che milioni di persone muoiano prima che la nuova torta sia pronta e senza garanzia alcuna sul come e tra chi e da chi verrà distribuita. La storia fatta solo dai vincitori mi disturba.

L’11 settembre 2001 è stato senza dubbio l’inizio di un nuovo capitolo di storia, ma la grande storia continua. Alla vigilia del 2000 mi pareva che fosse fuori luogo brindare a champagne sulle rosee sorti del mondo. Era da ingenui pensare che con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’URSS, un mondo migliore fosse spuntato come per incanto”.

Compito dei religiosi in questo momento, secondo don Chavez, è di formarsi e educarsi alla interculturalità, per poter diventare così strumenti di dialogo, di riconciliazione e di pace.

“La consapevolezza di vivere in un mondo che se da una parte è più globalizzato, dall’altra appare più diviso dalla diversità culturale, sociale, economica, politica, religiosa e presenta nuove sfide alla formazione, la principale delle quali è l’educazione all’interculturalità. Questa è, a mio avviso, la chiave di soluzione al difficile problema di riuscire ad armonizzare l’unità della umanità nella diversità dei popoli che la compongono. Implica una pedagogia per l’accoglienza delle differenze, per la cultura del dialogo e della reciprocità, della solidarietà, della pace. Questo è possibile nella misura che scopriamo che ci sono valori transculturali, validi ovunque, e che dovrebbero aiutare i religiosi a diventare uomini e donne di comunione. Come ci ricordava il papa in Vita consecrata (n.51), le comunità multiculturali e internazionali si rivelano in molte parti testimonianze significative e ambiti di addestramento al senso della comunione tra i popoli, le razze e le culture.

Le sfide per la formazione dei religiosi provengono dal nuovo ordine mondiale in gestazione, dal contesto culturale imperante, dalle tendenze che ci sono anche dentro la Chiesa. La mobilità delle nostre comunità, la pluralità della loro composizione, ci obbligano a rinnovare e rafforzare la forma concreta di vivere e organizzare la vita fraterna. In essa appare come centrale l’educazione al dialogo, la capacità di assumere positivamente i conflitti, la condivisione di valori fondamentali nella diversità di realizzazioni e responsabilità. Naturalmente la cultura della comunione deve tradursi anche nel dialogo ecumenico e interreligioso. Oggi l’evangelizzazione non la si può fare senza rispetto delle culture, la cui anima è la religione. La Chiesa, alla quale si chiede anzitutto la testimonianza cristiana, non si può impiantare senza dialogo con le altre confessioni cristiane e le altre religioni. Ma non per tattica, bensì per convinzione dei valori che sono in gioco. Questo non implica però che la missio ad gentes, anche nelle grandi città del primo mondo, non si debba più fare. Semplicemente si afferma che la missione deve essere inculturata”.

“In via di principio – ha aggiunto don Chavez – non basta essere per la pace e non contro la guerra. I valori del vangelo che i religiosi e le religiose professano pubblicamente hanno come fondamento, significato e traguardo, l’amore agli altri come Gesù ci ha amati a vivere e privilegiare. Diventa quindi incompatibile professare una cosa e al contempo approvare la contraria. La guerra è sempre un’aberrazione, che attenta contro l’umanità, non soltanto per la perdita della vita di innumerevoli persone, ma perché ritarda lo sviluppo e la democrazia, rende disumani quanti la fanno e spoglia della dignità umana le tante vittime che la subiscono. Penso che essere per la pace ma non sempre contro la guerra si può vedere come una tappa intermedia del cammino di conversione all’amore cristiano che ha nella nonviolenza una componente naturale. È un cammino difficile ma necessario se non vogliamo ritrovarci in altri e malaugurati conflitti futuri a discutere se si tratti di una guerra giusta o ingiusta, legittima oppure illegale. La guerra è una regressione sempre. A volte dolorosa come quando ci si deve difendere da un ingiusta aggressione. Ma anche in questo caso, almeno a livello individuale, resta valido l’esempio di Gesù, vittima dell’ingiustizia e mai uccisore. Si tratta di una dura lezione quella di vincere il male con il bene”.

A un’altra domanda, sul perché i religiosi/e rimangono nei cosiddetti “stati canaglia”, il padre ha risposto: “Parlare di “stati canaglia” non rientra nell’orizzonte della Chiesa che è stata mandata ad annunciare a tutte le genti il vangelo di liberazione e salvezza. I religiosi e le religiose non fanno niente di straordinario, che non sia evangelico, a vivere e camminare in solidarietà con la gente di ogni paese, specialmente povero o in difficoltà”.