LA GIOIA NEI RAPPORTI COMUNITARI

AFFETTIVITÀ ED EMOZIONI

 

Nei rapporti con gli altri siamo fatti per essere felici e ricercare la felicità, non per rattristarci con il nostro modo di vedere e di sentire. Siamo perciò interpellati a sperimentare la gioia della presenza del Regno, attraverso la concreta e quotidiana convivenza comunitaria.

 

Parlare delle emozioni nella vita consacrata vuol dire considerare il mondo emotivo come importante nelle relazioni interpersonali, in particolare nelle comunità dove i religiosi e le religiose sperimentano i loro stati emotivi come parte del comportamento interpersonale.

Ogni persona vive una propria vita emotiva e la comunica nei rapporti con gli altri, non soltanto quando esprime verbalmente i propri sentimenti, ma anche con tanti micro-comportamenti non verbali, con cui invia messaggi emotivi all’altro, pur senza esserne pienamente consapevole. Aggrottare le ciglia, tirar su le spalle, distogliere lo sguardo o fissare in maniera intensa, serrare le mascelle, sono solo alcuni dei modi con cui regoliamo le interazioni interpersonali, fornendo informazioni sul nostro stato emozionale e sulle disposizioni che abbiamo ad agire.

Generalmente nei rapporti con gli altri siamo fatti per essere felici e per ricercare la felicità, non tanto per vivere nella tristezza e per rattristarci con il nostro modo di vedere e di sentire. Anche nelle comunità religiose siamo coinvolti in un cammino di comunione che impegna ogni persona in questa “progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo”.1 Per questo siamo interpellati a sperimentare la gioia della presenza del Regno, attraverso la concreta e quotidiana convivenza comunitaria. “Una fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne. Ben presto i membri saranno tentati di cercare altrove ciò che non possono trovar a casa loro. Una fraternità ricca di gioia è un vero dono dell’Alto ai fratelli che sanno chiederlo e che sanno accettarsi impegnandosi nella vita fraterna con fiducia nell’azione dello Spirito”.2

La vita senza emozioni sarebbe grigia; se non vi fossero né gioie né dolori, né speranze né illusioni, né successi né fallimenti, l’esperienza umana nella vita fraterna sarebbe fredda e priva di colore. invece una vita fraterna vissuta nell’autenticità ci spinge a desiderare che le condizioni piacevoli possano persistere e ripetersi nei vissuti interpersonali, e che le condizioni dolorose o spiacevoli possano avere fine o essere evitate.

Quando poniamo l’accento sul carattere piacevole o spiacevole delle varie esperienze comunitarie, facciamo riferimento alla loro tonalità affettiva e alla valenza motivazionale che esse hanno nel comportamento interpersonale, per riconoscere ciò che c’è di positivo nelle nostre relazioni, e per accogliere e valorizzare i reciproci sentimenti come dono di Dio.3

 

COMUNITÀ, LABORATORIO

DI AFFETTI AUTENTICI

 

La vita comune necessita e si nutre del continuo e concreto contatto con le persone che vivono accanto. Pensare che la comunità si realizzerà nel futuro, quando le persone saranno diverse da come lo sono attualmente, quando i superiori saranno più comprensivi, quando le strutture risponderanno meglio alle attese carismatiche dell’istituto, vuol dire rimandare a chissà quando il contatto reale con un mondo relazionale ed emozionale che invece si rivela nell’oggi concreto delle persone che vivono accanto. È qui che si può imparare a sentire con gli altri. Contattare l’ambiente comunitario con questo senso di attenzione e di gratitudine per i doni dell’altro4 ci previene dal rischio di fuggire dalle relazioni e dai contatti quotidiani, e amplifica in noi la capacità di differenziare gli stati emotivi che viviamo, quando ci sentiamo a nostro agio con gli altri oppure quando siamo a disagio per eventuali situazioni di difficoltà.

La consapevolezza di questa continuità tra noi e il mondo esterno, tra la nostra realtà caratteriale e la realtà relazionale, ci porta a vedere le emozioni non come una cosa dannosa ma come una continua espressione del nostro essere-in-relazione. “Le emozioni emergono nella consapevolezza una volta che la persona ha prestato attenzione alle sensazioni corporee e simbolizza queste informazioni. Il materiale simbolizzato consapevolmente in relazione ai vari livelli coinvolti è quindi oggetto di riflessione al fine di creare nuovi significati, di trovare soluzioni adatte ai problemi del vivere quotidiano e di trasformare queste in decisioni operative”.5

Possiamo quindi affermare che le emozioni che percepiamo in comunità sono parte di un processo permanente, nel senso che ciascuno di noi vive continuamente dei momenti di piacere o di dispiacere perché tali sentimenti fanno parte dell’esperienza reale. Diversamente, quando ci poniamo dinanzi alle emozioni con un senso di diffidenza emotiva (influenzati anche dalla formazione ricevuta), si rischia di dissociare i momenti in cui sentiamo emozioni ideali, che sono comunitariamente accettabili, dai momenti reali in cui l’antipatia o la simpatia nei confronti del confratello sono percepiti ma non riconosciuti, come se non facessero parte del proprio vissuto emotivo. In questo caso, l’emozione incontrollata viene vissuta e sentita come una sorta di turbamento periodico ed episodico che intralcia il nostro bisogno di “esercitare un controllo” sulla situazione che ci circonda.

Nel timore che queste emozioni “irrazionali” si manifestino, ecco che ci costringiamo a stare in guardia, evitando così di differenziare i nostri diversi stati emotivi e di percepire la loro funzionalità nelle relazioni con gli altri e nella regolazione del proprio comportamento e delle proprie azioni. L’esperienza comunitaria non solo contribuisce a questa conoscenza reciproca profonda, ma è il luogo privilegiato dove la comunicazione dei propri vissuti emotivi spinge le persone a ricercare una continua congruenza tra parole e atteggiamenti emotivi. “Nella mia comunità, raccontava una suora, a parole diciamo che ci vogliamo bene come sorelle, ma poi alle spalle ci critichiamo continuamente”. Questi doppi messaggi generano disagio! Ma quando le persone sono coscienti di questo malessere emotivo e relazionale, se non vogliono continuare a star male possono attivarsi nella ricerca di nuovi itinerari per costruire insieme una fraternità fondata sull’autentico sentimento dell’amore di Cristo.

Pertanto, le emozioni caricano di energia l’azione, stimolando le persone a realizzare comportamenti che siano motivanti per il bene comune. Essendo parte della nostra esperienza quotidiana esse aiutano a regolare lo scambio tra individuo e ambiente, poiché sono il mezzo con cui possiamo diventare consapevoli degli interessi, motivazioni, aspirazioni, nostre e delle persone che ci vivono accanto.

 

SENTIMENTI

INAUTENTICI

 

Pensare invece che le emozioni sono un ostacolo all’azione e al pensiero vorrebbe dire limitare la nostra esperienza relazionale di una parte importante. In particolare ciò succede quando si è abituati a pensare e a credere che l’espressione delle emozioni sia qualcosa di disdicevole, perché sorgono solo nei momenti in cui si è in crisi, oppure nel momento in cui la persona ha perso il controllo di se stessa. Dinanzi a questo rischio ecco che ci si rifugia in comportamenti manipolativi che sono sostenuti da emozioni distorte e inadatte alla situazione reale.6

Anche nelle comunità religiose si è portati a pensare che alcune modalità emotive e comportamentali corrispondono meglio di altre alla logica della vita comune. Prendete per esempio la calma. Un frate calmo è uno che sembra essere in pace con se stesso. Può anche essere vero.

La calma viene stimata perché sembra l’esatto contrario dell’emotività incontrollata, soprattutto quando con la calma ci mostriamo distaccati, tranquilli, padroni di noi stessi. Tuttavia non si può dire che la calma sia priva di tono emotivo; possiamo agire sentendoci calmi quando, attraverso l’esperienza valutativa diretta, riconosciamo che una particolare situazione che stiamo vivendo è suscettibile di essere trattata in modo efficace con le energie che abbiamo a disposizione, oppure lì dove ci accorgiamo che non è possibile fare assolutamente nulla.

Se invece ci mostriamo calmi quando abbiamo molteplici iniziative per influenzare l’equilibrio esistente nell’ambiente, tale calma costituirebbe una “facciata” ottenuta a costo di soffocare delle manifestazioni di interesse. A volte, un volto sorridente ventiquattro ore su ventiquattro può nascondere un vissuto emozionale ansiogeno inaccettabile agli occhi degli altri, mascherato da una calma controllata e apparente. Questo avrebbe senso se gli altri fossero nostri “nemici”; ma comportarsi facendosi vedere calmi significa considerarsi “nemici di se stessi” e negarsi la consapevolezza di quanto sta avvenendo realmente.

In questo modo, le cose non dette o non sentite a livello emotivo si accumulano nel nostro inconscio fino a quando siamo capaci di contenerle e controllarle. Talvolta, però, questo controllo attiva in noi uno stile di vita relazionale parallelo, quando i nostri rapporti comunitari sono impostati su modalità relazionali superficiali, con maschere relazionali che falsificano i rapporti e accumulano malessere relazionale.

Quanto detto a proposito della calma può essere valido anche per altri stati emozionali considerati come sentimenti negativi e comunque a volte presenti nel contesto comunitario. Per esempio l’indifferenza e la noia, lungi dal rappresentare un’assenza di sentimento, sono in realtà sentimenti molto intensi. L’intorpidimento emozionale, cioè l’assenza di sentimento in un ambiente così ricco di stimoli emotivi, com’è appunto la comunità religiosa, è indice di un sentimento ancora più intenso, tanto intenso che senza volerlo abbiamo bisogno di escluderlo dalla nostra consapevolezza. Così si esprime Giordani, parlando delle comunità femminili: “L’ambiente comunitario risulta spesso frustrante del bisogno affettivo della religiosa, in quanto vi manca uno scambio fraterno di condivisione, le relazioni interpersonali sono talvolta formali, non vi si trova un interesse sincero e reciproco per le situazioni personali. […] Un clima fatto di formalismi, di disinteresse e di egoismo, non può che congelare il bisogno di intimità e avviare verso l’indifferenza e la freddezza, verso la disumanizzazione e l’indurimento del cuore”.7 Tali osservazioni estese alla vita fraterna nelle comunità religiose emergono soprattutto quando ci si limita nel considerare le informazioni propositive che derivano da un sano contatto con i propri stati emotivi.

 

RI-CONOSCERE

GLI STATI EMOTIVI UTILI

 

Non possiamo negare l’importanza che le emozioni hanno come sistema di orientamento nell’ambiente, in quando esse hanno un ruolo funzionale per coordinare il comportamento delle persone in maniera propositiva. “Per esempio la paura stabilisce la meta nella fuga e ci prepara all’azione coerente, la rabbia ci permette di definire come obiettivo il superamento degli ostacoli e ci prepara all’attacco. Gli obiettivi stabiliti dalle emozioni sono largamente in relazione con la regolazione dei legami sociali. Infatti la gioia e l’amore sostengono la cooperazione; la tristezza implica una ricerca di aiuto e la rabbia comporta una revisione dei confini”.8

Conoscendo le nostre emozioni possiamo essere consapevoli di come muoverci nell’ambiente relazionale della comunità e allo stesso tempo possiamo cogliere le tante opportunità che ci vengono offerte dagli altri. Ascoltando le nostre emozioni entriamo in contatto con noi stessi, con il nostro mondo interiore, ma anche con i nostri bisogni e le nostre attese, per arrivare infine ad esprimere e a realizzare le potenzialità che sono presenti in tutta la persona.

Allo stesso tempo diamo all’altro la possibilità di conoscere il nostro mondo emotivo e di comunicare il proprio. In altri termini, con le emozioni vissute autenticamente le persone possono entrare in una relazione che è più vera, più corrispondente alle loro situazioni reali e cogliere quelle informazioni necessarie per regolare empaticamente il reciproco comportamento in modo più rispondente ai bisogni di ciascuno.

In questo modo, attraverso la consapevolezza dei propri stati emotivi le persone ne ri-conoscono la loro utilità e facilitano un reciproco atteggiamento costruttivo e funzionale per la vita relazionale nel contesto comunitario, dove “l’empatia permette di rendere i rapporti interpersonali più funzionali e le persone più recettive perché si sentiranno ascoltate e comprese”.9

Ciò diventa anche un’occasione per contenere o per gestire in modo propositivo le emozioni che riconosciamo come dannose e distruttive, oppure quelle che vengono “ingoiate” invece che comunicate, soprattutto quando ci si abitua a mandare giù tante cose che sembrano non essere accettabili nell’ambiente di comunità.

Quando il riconoscimento emotivo è autentico, esso è un ponte verso l’altro, che si traduce in comportamenti sani ed espressivi di gratificazioni emotive positive. È in questa reciprocità quotidiana e paziente, realizzata in un luogo specifico qual è appunto la comunità religiosa, che si impara ad amare con gli occhi e con il cuore di Dio, senza spaventarsi delle proprie ed altrui emozioni, consapevoli che la testimonianza del Regno, obiettivo ultimo di ogni comunità religiosa, passa attraverso la storia emotiva di ciascuno di noi.

Crea Giuseppe

 

1_Vita Consecrata 65.

2_La vita fraterna in comunità 28.

3_Ripartire da Cristo 29.

4_La vita fraterna in comunità 24.

5_S. Bianchini, Emozioni e giochi psicologici, in “Psicologia, Psicoterapia e Salute”, 5(1999)3 262-263.

6_G. Gillini – Zattoni M., Ben-essere per la missione, Queriniana, Brescia, 2003 70.

7_B. Giordani, La donna nella vita religiosa, Áncora, Milano, 1993 391.

8_S. Bianchini, Emozioni e giochi psicologici, in “Psicologia, Psicoterapia e Salute”, 5(1999)3 263.

9_G. Brondino – M. Marasca, La vita affettiva dei consacrati, Editrice Esperienze, Fossano (CN), 2002 49.