INTERVISTA A RINO COZZA

CARISMA E ISTITUZIONE

 

La vita religiosa oggi ha bisogno di nuove mappe concettuali piuttosto che di repertori di definizioni; il motivo è che la vita religiosa, ora insabbiata in una specie di guado culturale, non ha altra possibilità per affrontare le “nuove sfide” che approdare_a un’“altra riva”.

 

 “La vita religiosa, è un evento di grazia, interiore e spirituale e in quanto tale prescinde da considerazioni che non siano teologiche; ma è anche struttura e in quanto tale gode e soffre di tutte le dinamiche antropologiche e sociologiche proprie delle organizzazioni sociali”: è un po’ la sintesi di quanto ci dice p. Rino Cozza, giuseppino, vicario episcopale per la vita consacrata nella diocesi di Trento; in una stagione di capitoli provinciali e generali, in questa intervista gli abbiamo chiesto di sviluppare il problematico tema della istituzionalizzazione.

 

La istituzionalizzazione della vita religiosa è una opportunità o un rischio?

 

“Intanto precisiamo una cosa: “istituzione” non si nasce ma si diventa. All’origine di ogni carisma c’è un progetto di fraternità, di naturalità, di familiarità; poi, passano gli anni, e con l’intento di consegnare l’idea al futuro, si consolidano i comportamenti, si formano le consuetudini fino a fissarsi in “regole”, sempre più universali e tendenti a evolversi, in linea generale, all’interno delle convinzioni e tradizioni acquisite. Ora, che cosa avviene? Avviene che i carismi nati “fuori”, (vedi, ad esempio, i movimenti) in controtendenza, cioè, all’ambiente sociale o ecclesiale, finiscono poi con l’essere “normalizzati”. Questo processo naturale si chiama “istituzionalizzazione”, trasformando un “mezzo” in un “fine” e dimenticando che “il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato”.

Va subito detto però che non possiamo permetterci di prescindere dalla dimensione istituzionale della vita sociale. Le istituzioni sono uno straordinario patrimonio di intelligenza collettiva, in cui siamo comunque inseriti, e da cui non possiamo fare a meno, se vogliamo pensare al cambiamento. L’istituzione è lo scheletro di un corpo vivente. Mi esprimevo in questi termini parlando in una comunità, quando un religioso infermiere annuendo e alludendo aggiunse: “ed è proprio lo scheletro il punto sempre più fragile dopo una certa età…; la malattia si chiama “osteoporosi”: è quel male genetico per cui lo scheletro anziché essere di aiuto alla vita della persona, assorbe la vita in funzione di sé stesso”.

 

L’istituzione religiosa è in grado, in qualche modo, di prendere le distanze da se stessa e di guardarsi “dal di fuori”?

 

 “Ne ha certamente la voglia; a questo fine vengono fatti capitoli, assemblee, consulte, consigli generali, provinciali, locali …Però “un capitolo non si misura dalle dichiarazioni ma dai processi che riesce a mettere in atto”.1 E questo vale anche per tutto il resto. Il deficit non è nel guardarsi ma nel non sapersi, appunto, “guardare dal di fuori”, con la conseguenza di essere condizionati dalle proprie precomprensioni delle cose e delle soluzioni. Oggi l’autoreferenzialità “mette fuori” velocemente. Da qui l’istanza forte delle nuove forme di vita evangelica di essere altro rispetto alla vita religiosa. Si ha autoreferenzialità quando un istituto si sviluppa a partire prevalentemente dai propri modelli di pensiero e di comportamento.

Il cambiamento avviene attraverso organismi o persone che riescono a guardare il mondo dal di fuori del paradigma inteso come principio acquisito, dominante. Molte grandi scoperte sono state fatte da giovani, come Einstein, Marconi che non avevano gli ostacoli mentali dei loro maestri. Solo condizioni di spiazzamento possono innescare uno spostamento cognitivo, ossia uno spostamento che consenta loro di osservarsi per poi ridefinire e riformulare la propria collocazione.2 Detto altrimenti: se non si è disposti a patire una condizione di spiazzamento, difficilmente si riesce a modificare, a migliorare la propria posizione. In caso contrario “i molteplici modi messi in atto per garantirci una sopravvivenza, comunque essa sia, rischiano di essere un gioco degli specchi, rimandano sempre la stessa figura””.3

 

La via d’uscita potrebbe essere quella di “negare”, in tutto o in parte, l’istituzione?

 

“È un fatto che la vita religiosa ha incominciato a interessare meno quando ha iniziato a perdere dinamiche “movimentiste”, connaturali nel momento di “stato nascente”, per assumere logiche istituzionali. Di tutto ciò non ci si è accorti fino a quando l’istituzione appagava; infatti, fino a qualche decennio fa idealità e istituzione in qualche modo coincidevano o comunque quest’ultima era considerata lo strumento irrinunciabile per raggiungere una data idealità spirituale e apostolica. Era il tempo in cui l’istituzione più era grande e visibile, più forte era il suo appello. L’identità del singolo era data dal configurarsi all’istituto.

Oggi invece si tende più facilmente a lasciarsi configurare da un ideale. Nel caso in cui l’istituzione non sia più significativa sul piano della idealità, la prima a non interessare più è proprio l’istituzione; per cui eventuali scelte di “appartenenza con riserva” non sono necessariamente scelte di pigrizia o di individualismo, ma potrebbero essere conseguenza dello scarto (soggettivamente letto) tra idealità e istituzionalità. Lo si constata più facilmente nei movimenti: hanno molte nuove vocazioni ma non sono pochi gli abbandoni, diversamente da quanto avviene nella vita religiosa, dove gli abbandoni sono molto inferiori a quelli dei movimenti. Si potrebbe allora dedurne che la vita religiosa sia più idealmente ispirata che non i movimenti? Oppure, che per tutta una serie di motivi, fra cui anche l’indolenza di una vita assicurata e senza rischi, sia più difficile congedarsi dall’istitutuzione? Non lo so; sta di fatto che nei movimenti ci sono molto meno “adattati” che non nella vita religiosa”.

 

Individuo e società: è un problema irrisolto e irrisolvibile anche nelle nostre comunità, nei nostri istituti religiosi?

 

“Per rispondere a questa domanda sarebbe importante capire le ragioni del progressivo “disamoramento” dei religiosi, delle “appartenenze con riserva”, della poca incidenza degli organismi di governo. Siamo nella società detta del “progetto di vita personalizzato” ; oggi assistiamo a un deciso superamento della identificazione tra ruolo e persona; oggi l’individuo vuol essere protagonista di se stesso; conseguentemente i rapporti tra individuo e società, e quindi anche tra individuo e istituto religioso, sono più astratti di un tempo; non creano di per sé reciprocità se non attraverso il coinvolgimento, la partecipazione e connessione emotiva; tutte queste cose non vengono assicurate da regole, circolari, lettere, decreti capitolari, visite…

In altre parole, si tratta di rimettere l’accento sul primato delle relazioni tra i soggetti, di intraprendere percorsi innovativi con le soggettività disperse, di ricercare forme di socialità nuova, in luoghi e forme che siano “comunità di senso”, luoghi dove sia possibile dare voce alle differenti forme di bisogno e domande di significato, per sperimentare nuove forme di lavoro, di azione sociale e stili di vita altri da quelli dati.4

Affinché si consolidino l’impegno e la partecipazione da parte dei soggetti è necessaria la percezione di un adeguato livello di “proprietà”. Non esiste senso di responsabilità senza senso di proprietà. Ma un elevato senso di responsabilità non può durare a lungo senza la prospettiva di poter incidere nel cambiamento di una determinata situazione”.

 

Anche se lasciando la via vecchia per la nuova, si sa quello che si lascia ma non quello che si trova…, secondo la sua esperienza, qual è oggi la via più giusta lungo la quale dovrebbe incamminarsi la vita religiosa?

 

“Ricordo l’espressione è di un trentenne che aveva maturato una scelta di vita evangelica consacrata: “In che modo e in che mondo vogliamo vivere?”. Era l’ultima domanda, in attesa di risposta prima della decisione. Si era avvicinato a una congregazione costituita prevalentemente da insegnanti (tale era anche la sua professione) che gestiva un grande, stimato istituto scolastico. Dopo alcuni mesi se ne ritrasse con rimpianto per l’amicizia di religiosi stimabili. A detta dello stesso, gli ambienti di vita, i sentimenti e gli stati d’animo percepiti in quella sua breve esperienza sono stati espressi in maniera significativa da C. Toninello: “Il tempo degli eroi e degli applausi sembra svanito rendendoci simili a tristi clown incapaci di divertire il proprio pubblico. Le nostre case diventano cimeli antichi, sorretti unicamente dal sentimento di chi vi ha trascorso la propria esistenza e non si rassegna al mutare delle situazioni. E come nobili decaduti ci aggiriamo tra le polverose dimore di un passato sempre più assediato dall’oblìo”.5

La vita religiosa oggi ha bisogno di nuove mappe concettuali piuttosto che di repertori di definizioni; il motivo è dato dal fatto che la vita religiosa, ora insabbiata in una specie di guado culturale, non ha altra possibilità per affrontare le “nuove sfide” che approdare ad un’“altra riva”. Qui si pone, però, la domanda: è possibile tutto ciò senza mettere in gioco anche il sistema in cui e di cui viviamo, un sistema, cioè, in cui la preoccupazione prevalente è quella di mantenere gli equilibri interni, piuttosto che recepire e liberare istanze di cambiamento? Fino a che punto, ancora, tutto ciò è possibile in un sistema in cui l’istituzione è portata ad individuare le cause di crisi nell’individuale piuttosto che nell’istituzionale e a spendere tutte le sue forze nella gestione strumentale delle risorse?

Sì, una possibilità c’è, ed è quella – riprendendo l’analogia di cui sopra – di non accontentarsi di assumere “integratori”, ma pensare piuttosto ad impiantare cellule vive, nuove, staminali; è l’unico modo per uscire dalla condanna dell’osteoporosi; il resto è cura palliativa.

Ma ci sono anche altre domande che attendono una risposta. Stante la situazione attuale, il futuro possibile è riposto nel “tutti insieme” o in minoranze creative, esploratrici di nuove modalità e nuovi significati, minoranze quindi esposte necessariamente a tentativi, a sperimentazioni in vista di una rivitalizzazione dei propri carismi? Fino a che punto, in questa seconda alternativa, si è in grado di assumere il rischio come “luogo di ricerca”, ben sapendo che il rischio può andare incontro agli imprevisti e anche agli insuccessi?

Oggi si parla del nostro tempo come di un’epoca con “navigazione a vista”, non priva comunque di orizzonti prefigurati o almeno sognati; e questo vale anche per la vita religiosa. “Le nuove comunità, scrive Toninello, sono il riflesso di qualche cosa che è mutato nei rapporti Chiesa-mondo, e, all’interno della Chiesa, nel modo di considerare le strutture della vita consacrata, il matrimonio, i laici. Anche se non si può prevedere il futuro, si può però affermare che nella Chiesa è in corso l’elaborazione di un nuovo equilibrio, che ridà slancio alla vita consacrata in forme nuove maggiormente unite ai laici e agli sposati””.6

 

a cura di Angelo Arrighini

 

1_Rettor Maggiore dei Salesiani al Cap. Gen. (Testimoni n. 2, 2003)

2_Ota de leonardis in Animazione Sociale n. 1

3_B.Secondin in Dialogo n. 135

4_P. Branco-F.Colombo in Animazione Sociale n. 1/2003

5_C.Toninello in Testimoni n. 10-10.05.01 pag. 29

6_G. Rocca in Vita Consacrata