IL CRISTIANO E L’ATTUALE MOMENTO STORICO

QUALE ATTEGGIAMENTO_ASSUMERE?

 

Ci siamo tutti interrogati sul significato di ciò che sta succedendo, sulla giusta posizione da prendere. Siamo chiamati a un discernimento che ci permetta di vivere anche questo tragico momento illuminati dalla fede e sostenuti dalla speranza del vangelo.

 

Il presidente americano George W. Bush ha annunciato ufficialmente che la guerra in Iraq è finita. In realtà, come abbiamo avuto modo di osservare nel numero precedente di Testimoni, la guerra nelle sue conseguenze non è affatto finita: le ferite e i guasti prodotti, con tutti gli interrogativi che ha lasciato aperti, sono destinati a durare a lungo nel tempo. È per questo che ora – quando le folle che si erano riversate sulle piazze hanno ormai riposto le loro bandiere – che noi non possiamo cessare di riflettere, ma vogliamo continuare a fare discernimento alla luce della fede su ciò che è avvenuto e potrà ancora avvenire, per formarci una coscienza cristiana vera e autentica, aliena da qualsiasi strumentalizzazione.

Dopo le considerazioni che abbiamo già proposto nei numeri precedenti, ci pare illuminante riportare qui, nelle grandi linee, quanto lucidamente ha scritto su questo argomento il vescovo di Piacenza-Bobbio, mons. Luciano Monari, il 5 aprile scorso, mentre la guerra era ancora in atto.

“Le vicende della guerra in Iraq, ha affermato il vescovo, hanno comprensibilmente provocato emozioni e reazioni, discussioni e confronti. Ci siamo tutti interrogati sul significato di ciò che sta succedendo, sulla giusta posizione da prendere… Siamo chiamati a un discernimento che ci permetta di vivere anche questo tragico momento della nostra storia illuminati dalla fede e sostenuti dalla speranza del vangelo… Ho pensato perciò di proporre una riflessione che non ha nessuna pretesa di essere insegnamento magisteriale ma solo un aiuto a valutare correttamente la questione e le sue implicazioni, uno stimolo al discernimento del tempo”.

 

UNA VISIONE

CRISTIANA

 

La posizione cristiana, sottolinea il vescovo è chiara. Per quali ragioni?

La prima, sottolinea mons. Monari, è, naturalmente, che la guerra in sé è male, che produce lutti e sofferenze inimmaginabili, che coinvolge inevitabilmente anche innocenti. Anche le bombe più “intelligenti” non sanno distinguere il bambino dal soldato, il giusto dall’ingiusto. Davanti alla guerra c’è quindi una prima fondamentale reazione che si esprime in quelle parole forti che il papa ha ripetuto più volte: “Mai più la guerra!” In questo Giovanni Paolo II si è collocato sulla scia di tutti i papi del nostro secolo a partire da Benedetto XV che, alle soglie del primo conflitto mondiale, condannava la guerra come una “inutile strage” fino a Pio XII quando avvertiva che “niente è perduto con la pace; tutto può esserlo con la guerra.” Dietro a questo grido c’è la convinzione che la guerra è una modalità barbara di risolvere i conflitti perché concede l’ultima parola non al più giusto, ma al più forte. C’è un’illogicità di fondo nella guerra perché, mentre desidera ristabilire il diritto, usa uno strumento che non è sotto il controllo del diritto e col diritto non ha nulla a che fare…

Ma ci sono altre motivazioni legate più da vicino a questa guerra specifica. Il Medio Oriente è una zona calda da decenni. La ricchezza proveniente dal petrolio, le trasformazioni tumultuose dei modi di vita, la presenza di quella spina al fianco che è lo stato di Israele ne fanno una zona particolarmente esposta a turbamenti politici. Un’irruzione così traumatica come l’invasione di uno stato, non rischia di mettere in moto una catena inarrestabile di reazioni e controreazioni? È capitato già nel 1914: quella che sembrava essere una piccola guerra locale contro la Serbia ha innescato un conflitto mondiale; chi garantisce che questo non possa avvenire anche oggi? È vero che oggi, nel mondo, c’è un’unica potenza davvero mondiale e questo sembra escludere un duello planetario tra superpotenze, ma nemmeno gli Stati Uniti, con tutta la loro forza, sono in grado di controllare e fermare i possibili e sanguinosi e molteplici conflitti regionali.

Ma forse la motivazione più preoccupante è quella che riguarda un possibile scontro di civiltà. Secondo questa visione della storia – che qualcuno ha cercato di teorizzare – occidente e Islam sarebbero destinati a scontrarsi in quanto portatori di civiltà diverse e incompatibili tra loro. Il rischio che la guerra in Iraq venga sentita e interpretata non come la guerra di alcuni stati contro lo stato (o meglio, il regime) iracheno, ma guerra dell’Occidente contro la civiltà islamica è grande e preoccupante. L’Islam, erede di una straordinaria fioritura culturale nel medioevo, esce in questi anni da una lunga stagione di stasi (quella che B. Lewis ha definito efficacemente “il suicidio dell’Islam”). Solo per richiamare un dato significativo, la prima tipografia a Istanbul, capitale dell’immenso impero turco, risale all’800. L’Islam è costretto a vivere in pochi anni un cammino tormentato di trasformazione durato secoli; deve assimilare un ricco patrimonio di scienza, tecnica, cultura politica, economia, educazione rendendolo compatibile con la sua visione del mondo e, in particolare, col Corano e le sue leggi. Da qui le tante tensioni che emergono nel variegato mondo musulmano. Ora, sarebbe davvero un disastro di proporzioni inimmaginabili se passasse l’idea che l’occidente come tale è nemico dell’Islam; che l’unica prospettiva davanti a noi è lo scontro tra due civiltà che si contendono il futuro del pianeta. Questa è, naturalmente, l’interpretazione che è stata data ideologicamente da Bin Laden, ma che la guerra all’Iraq rischia tragicamente di accreditare.

 

LA QUESTIONE DELL’ONU

E DEGLI USA

 

Per completare il quadro sono forse utili altre due riflessioni. La prima riguarda la funzione dell’ONU. Gli Stati Uniti avevano cercato di ottenere una risoluzione del Consiglio di sicurezza che approvasse l’uso della forza contro l’Iraq. Saputo, però, dell’intenzione della Francia di opporre un veto alla risoluzione, hanno preferito ritirare la risoluzione stessa e fare appello a una risoluzione approvata in precedenza dicendo che questa bastava a giustificare l’intervento militare. In questo modo gli USA si sono trovati “scoperti” nella loro azione militare e l’ONU è apparso imbelle. E imbelle l’ONU lo è per natura perché può approvare risoluzioni ma non ha, da sé, la forza di farle rispettare. Quando c’è da far rispettare una risoluzione, sono gli Stati membri che vengono invitati a intervenire coi loro eserciti sotto l’egida dell’ONU. Ma, naturalmente, gli stati accettano di “servire” l’ONU quando sono in gioco i loro propri interessi. È difficile che uno stato mandi suoi soldati in un paese straniero per far rispettare una risoluzione delle Nazioni Unite che non lo riguarda. Questa è la prima e grande debolezza dell’ONU. In secondo luogo l’ONU riunisce tutti i paesi del mondo: paesi democratici e dittature; paesi dove il diritto funziona e paesi dove il diritto è pervertito. Ci sono, rappresentati all’ONU, paesi che praticano la schiavitù, paesi che praticano il commercio internazionale di droga e così via. Diventa difficile pensare che un organismo così costituito possa avere l’autorevolezza necessaria per legittimare l’uso della forza. D’altra parte l’ONU è l’unica organizzazione che raccoglie davvero tutti gli stati del mondo; l’unica, quindi, che possa avvicinarsi un po’ a quell’istanza legittimante l’uso della forza di cui sentiamo tutti la necessità. Per questo il papa insiste così tanto a valorizzare il ruolo delle Nazioni Unite: non sono la soluzione perfetta del problema ma rimangono, per ora, l’unica istanza internazionale dalla quale la gestione del potere può essere controllata.

L’ultima questione cui mi sembra necessario accennare è quella del cosiddetto “impero” americano. È evidente che, sgretolatosi il potere dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti sono rimasti l’unica potenza dominante sulla scena del mondo. Il motivo per cui il potere si trova concentrato negli Stati Uniti non va cercato in una particolare, maligna volontà di dominio degli yankee, ma piuttosto nel primato economico e militare che gli Stati Uniti detengono senza paragone. Ma l’impero americano, come tutti gli imperi, non è eterno: decadrà, anche perché il mantenerlo costa un prezzo elevatissimo e a lungo andare proprio questo prezzo è destinato a produrre una decadenza. Sorgeranno altri centri di potere, probabilmente – per quanto è dato prevedere – in Asia: in India? In Cina? È impossibile dirlo con sicurezza. In ogni modo il vero problema non è, come ritengono alcuni, combattere gli Stati Uniti: finito il loro impero ne sorgeranno altri e nessuno può garantire in anticipo che siano migliori o peggiori. Il vero problema è inventare le vie per instaurare un ordine giuridico internazionale, capace di definire, difendere e restaurare il diritto. La pace non è tale senza la giustizia; e la giustizia non può affermarsi senza un potere legittimo che la difenda.

 

NECESSITÀ

DI UN DISCERNIMENTO

 

Da tutto questo nascono i nostri interrogativi: che cosa ci sta chiedendo il Signore in questo tempo? Quale atteggiamento debbono assumere le comunità cristiane davanti a questa contingenza storica?

La prima risposta può apparire scontata ma è, in realtà, quella fondamentale: il Signore ci chiede la conversione, cioè di tornare a lui con tutto il cuore “con digiuni, con pianti e lamenti” come diceva Gioele. Leggiamo nel vangelo di Luca la risposta di Gesù ad alcuni che gli riferirono una notizia di cronaca: un massacro compiuto da Pilato nel Tempio. Gesù non si ferma ad analizzare le dimensioni politiche o di ordine pubblico dell’episodio, ma passa subito alla conseguenza che gli interessa. “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo.” Il male, comunque si manifesti, è allontanamento dalla sfera di vita di Dio; il limite, comunque si manifesti, è il segno che il mondo ha delle crepe e che non riesce a stare in piedi da sé. Il male può essere vinto solo ritornando a Dio; il limite può essere superato solo riconoscendo a Dio il suo posto. Molti dei mali del mondo nascono quando l’uomo si arroga il posto di Dio e ritiene di non dover rendere conto a nessuno di sé stesso. La conversione ci fa riconoscere piccoli, ci mette al nostro giusto posto, ci pone di fronte agli altri non con arroganza ma con umiltà rispettosa.

La seconda cosa è l’impegno a conoscere onestamente le ragioni degli altri. Non per cadere nella trappola del dubbio perenne, ma per mantenere il rispetto degli altri anche se non hanno le nostre stesse convinzioni. Se vogliamo imparare uno stile di pace dobbiamo imparare a creare un luogo di confronto nel quale le posizioni possano essere esposte con chiarezza e ascoltate con rispetto. Il rifiuto di prendere in considerazione le ragioni degli altri, lungi dal dare maggior forza alle nostre ragioni, è piuttosto un segno di debolezza. Il pensiero diventa maturo quando assume lealmente tutti i dati e riesce a comporli in una sintesi più alta, che comprende e quindi risolve anche le possibili obiezioni e le contestazioni.

La terza convinzione è che il vangelo ci chiama senza ambiguità alla pace. L’opinione di Eraclito secondo cui la guerra “è padre di tutte le cose… rivela la divinità degli dei e l’umanità degli uomini” non è cristiana. È vero, dobbiamo riconoscerlo, che a volte la guerra ha prodotto un nuovo ordine politico o culturale – si pensi alle campagne di Alessandro Magno o alle guerre puniche o alle guerre napoleoniche. Ma questo, in un’ottica cristiana, non giustifica affatto la guerra: in ogni modo, gli effetti positivi non vengono dalla guerra in sé stessa, ma dalle trasformazioni culturali e politiche che possono accompagnarla. L’unico caso in cui la guerra potrebbe essere pensata è quello di un disordine talmente grave che la guerra non possa essere peggio. Ma non è facile anche solo riuscire a pensare una situazione così malata e degradata da essere peggio che la guerra.

Infine ci viene chiesto di imparare a interrogarci sui meccanismi che conducono alla guerra. La guerra è istituzione antica così come tutti gli orrori che l’accompagnano. Ma perché l’uomo, che pure dovrebbe amare la pace e molte volte la ama davvero, è portato a compiere scelte di guerra? Bisogna imparare a comprendere il cuore dell’uomo per trovare le cure adatte; bisogna comprendere i meccanismi politici, economici, culturali che conducono alla guerra per neutralizzarli in tempo. L’educazione alla pace – un’educazione realista, che tiene conto dei meccanismi psicologici reali, delle relazioni politiche, dell’uso effettivo del potere – è un’urgenza non rimandabile. Così come non possiamo rimandare la riflessione sulla legittimità della coercizione: chi e quando può usare legittimamente un potere coercitivo nei rapporti tra le nazioni? A questa domanda è difficile rispondere oggi perché non abbiamo ancora poteri mondiali riconosciuti da tutti che operino in modo legittimo e sappiano imporre un ordine di giustizia nei rapporti internazionali. Al di là delle parole, diventa necessario muoversi su questa strada se vogliamo preparare un futuro in cui la guerra diventi un’istituzione obsoleta e rimanga solo come ricordo storico di tempi “barbari”.