LA FATICA DI COSTRUIRE LA PACE

 

Quarant’anni fa, nel Giovedì Santo dell’11 aprile 1963 e due mesi prima di morire, papa Giovanni XXIII manifestò al mondo il suo disaccordo con coloro che ritenevano impossibile la pace. Lo fece con l’enciclica Pacem in terris, vero e proprio testamento spirituale, che rappresentò un colpo alla guerra fredda e alla minaccia della guerra nucleare: appena due anni prima era stato eretto il muro di Berlino, un simbolo che attraversò l’umanità nel suo insieme, creando divisioni che sembravano destinate a durare per sempre. Con quel documento il papa volle che il fondamentale valore della pace «cominciasse a bussare da entrambe le parti di quel muro e di tutti i muri. A ciascuno l’enciclica parlò della comune appartenenza alla famiglia umana e accese per tutti una luce sull’aspirazione della gente di ogni parte della terra a vivere in sicurezza, giustizia e speranza per il futuro» (Pacem in terris: un impegno permanente, messaggio di Giovanni Paolo II in occasione della Giornata mondiale della pace, cf. Testimoni 1/1/ 2003 n. 3).

Non è dunque inutile interrogarsi  su cosa quell’enciclica sia in grado di trasmettere alle persone e ai governi di questo terzo millennio.

Ci aiuta in questa analisi un volume costituito dalle relazioni presentate al seminario estivo 2002 di formazione politica del Centro studi sociali Paolo VI di Cagliari.1 Vi ritroviamo: un panorama su come la Chiesa si è confrontata con la realtà della guerra durante l’ultimo secolo (Casula), un’analisi della struttura concettuale dell’enciclica (Lorenzetti), il senso di novità che coinvolse il mondo comunista di fronte al messaggio di Giovanni XXIII (Santini), gli interrogativi che investirono il mondo cattolico (Graziani), la descrizione della drammatica normalità costituita dalle “guerre senza nome” vissute dopo la Pacem in terris (Tanzarella), una lettura della conflittualità all’alba del terzo millennio (Simoncelli) e delle attuali sfide (Rosati).

 

L’ETICA

DELLA PACE

 

L’enciclica rompe il tradizionale collegamento tra guerra e giustizia («la guerra non può essere considerata strumento di giustizia») e dà inizio a una nuova linea di pensiero, che può essere così sintetizzata: a) viene abbandonata la teoria della guerra giusta (la guerra è sempre un male) e si tollera il ricorso alla forza solo nel caso di legittima difesa, mai comunque da attuare con armi atomiche, chimiche o batteriologiche e con quelle convenzionali che provocano distruzioni indiscriminate di civili innocenti (in pratica si afferma che la guerra è divenuto mezzo sproporzionato per qualsiasi causa giusta, anche quella della difesa); b) è necessario rendere praticabili vie alternative per la soluzione dei conflitti: in questa prospettiva occorre istituire un’autorità internazionale competente in grado di operare per il riconoscimento, la difesa e la riparazione dei diritti tra i popoli; c) nei casi estremi la legittimità dell’uso delle armi, secondo il concetto di ingerenza o intervento umanitario, si distingue nettamente dalla guerra, perché finalizzato a disarmare l’aggressore, impedendo il verificarsi di rischi collaterali.

Lo sforzo di Giovanni XXIII è dunque quello di precisare la pace in se stessa e non in rapporto al suo opposto: la pace, prima che elaborazione intellettuale, è la più profonda esperienza del soggetto umano e della società, un diritto e un dovere (qualcosa dunque che va restituito a ogni persona). Siamo di fronte a un umanesimo ottimista che registrò a suo tempo un consenso quasi unanime (dall’ovest all’est, dall’uomo della strada al capo di Stato, dall’ateo al credente), a rimarcare la capacità profetica del papa nel saper discernere e liberare le aspirazioni dei suoi contemporanei. La pace sociale è vista come la società da ordinare secondo quattro pilastri costituiti da verità, giustizia, amore-solidarietà e libertà. Una realtà con una dimensione storica (la storia ha un senso e, nella trama degli eventi, vanno colti i segni dei tempi per discernere le parole e i gesti della pace) e insieme ecclesiale (la dedizione alla causa della pace è una questione di amore per l’umanità ma anche di conversione permanente di una Chiesa che si libera dal potere diventandone coscienza critica, che riscopre se stessa a servizio dei poveri e degli oppressi, che dialoga e collabora con tutti i popoli e religioni).

 

CONFLITTI ALL’ALBA

DEL TERZO MILLENNIO

 

Parlare di attualità della Pacem in terris significa dunque innanzitutto domandarsi come sia possibile costruire la pace sociale in terra oggi, nella nuova condizione mondiale sviluppatasi negli ultimi decenni. La caduta del muro di Berlino (1989) con la successiva implosione dell’impero sovietico e l’avanzata irreversibile della cosiddetta globalizzazione sono il contesto in cui il volume ci invita a riflettere sullo sviluppo sostenibile e sulle spese militari unitamente al commercio di armi. Le spese militari in particolare sono giunte nel 2001 a 772 miliardi di dollari: si rileva la preminenza della spesa statunitense, 281,4 miliardi di dollari, mentre la Russia spende solo 43,9 miliardi (quasi quanto la Francia con 40, il Giappone con 38,5 o la Gran Bretagna con 37); la Nato ha un volume di spesa complessivo di 472 miliardi di dollari (compresa quella americana), mentre il resto del mondo (Cina compresa) si attesta su 217 miliardi di dollari. Queste poche cifre ci evidenziano la supremazia militare dell’occidente e, in particolare, degli Stati Uniti, ormai unica potenza egemone capace di operare sulla scena globale. Strettamente collegata alle spese militari erogate nel corso degli ultimi cinquant’anni, l’industria degli armamenti ha conosciuto uno sviluppo qualitativo e quantitativo. Se negli anni settanta-ottanta del secolo scorso Stati Uniti e Unione Sovietica gestivano i quattro quinti di questo mercato, nel corso degli anni novanta il quadro appare profondamente mutato: gli USA detengono una quota pari al 46% del settore, mentre la Russia si attesta al 10%, analogamente alla Francia, seguita poi da Gran Bretagna e Germania con quote tra il 5 e il 10%. Oltre alla predominanza assoluta americana, l’80% del mercato mondiale è attualmente suddiviso tra cinque paesi produttori. Interessante la direzione di tali flussi che, relativamente ai maggiori sistemi d’arma (aerei, navi, carri armati ecc.), si sono indirizzati soprattutto verso tre aree: in Asia con 42.987 milioni di dollari, in medio oriente con 30.048 milioni di dollari e in Europa con 19.404 milioni di dollari. Si conferma evidentemente lo stretto legame tra aree ad alta instabilità e flussi di armamenti. I risultati sono circa 23 milioni di morti dal 1946 al 2000, con una crescente mortalità di civili che sfiora oggi l’80-90% del totale delle vittime: in estremo oriente si concentra il 42% delle vittime, in Asia meridionale il 14%, nell’Africa subsahariana il 35%, nel medio oriente il 5%. Nell’ultimo decennio in Africa vi sono stati 19 maggiori conflitti armati, 16 in Asia, 9 in medio oriente, 8 in Europa e solo 5 in America.

In questo scenario, dopo la tragedia delle Torri gemelle, la scelta politica degli Stati Uniti di optare per la missione di gendarme del mondo, indipendentemente da un’intesa o da una concertazione con le altre istanze internazionali (non solo l’ONU, ma anche la Nato e l’UE), aggrava le tensioni e i rapporti internazionali. Se nel passato difesa voleva significare il controllo e la garanzia dell’inviolabilità dei confini nazionali, oggi, nel mondo globalizzato, si sta passando da quella concezione di tipo territoriale a una dai contorni ben più sfumati, la sicurezza. Questo passaggio è ambiguo e pericoloso, perché amplifica l’area di azione della politica militare: la sicurezza diventa insomma facilmente autodifesa “preventiva”. In un mondo economicamente interdipendente, la sicurezza viene a significare anche la garanzia della continuità dei flussi degli approvvigionamenti energetici e alimentari, garanzia che dipende da equilibri politici favorevoli ai rapporti internazionali stabiliti tra i pochi paesi ricchi e i molti paesi poveri. In caso di alterazione di tali equilibri ecco che la sicurezza internazionale, legata agli interessi nazionali dell’occidente, va garantita anche attraverso un uso ad ampio raggio dello strumento militare.

A fronte di tutto ciò la Pacem in terris ha anticipato quanto è diventato una necessità non più rinviabile: l’assunzione di una responsabilità comune su scala mondiale. Una responsabilità che rende ancora attuali due lezioni fondamentali dell’enciclica stessa, costituite per un verso dalla distinzione tra l’errore e l’errante e per l’altro verso dalla fiducia nel dinamismo dei movimenti storici per realizzare il superamento delle ideologie. Così la ricerca della pace, superando ogni lettura dei conflitti in chiave di “scontro di civiltà”, deve sempre coinvolgere quelli che in pace non sono e quindi esige, preliminarmente, il reciproco riconoscimento degli avversari. In questo modo si può sempre compiere un atto di fiducia nell’uomo e nella storia, nella quale il credente intravede l’opera della Provvidenza e il non credente può trovare motivazioni e stimoli di proposte ulteriori.

 

M.C.

 

1 ROSATI D. - CARTA D. (a cura), «Pacem in terris. La fatica della pace», EDB, Bologna 2003, pp. 175, € 12,00.