BELLEZZA DELLA VOCAZIONE CONTEMPLATIVA
UNA VITA CHE CANTA LA VITA
Una domenicana di vita monastica descrive la gioia che l’ha sempre accompagnata fin dall’inizio della sua chiamata, come donna che ama la vita e si sente spinta a donare la vita, perché ha il cuore felice.
La mia esperienza di domenicana contemplativa può essere sintetizzata così: “Un grido alla vita a partire dalla vita”. È temerario, se teniamo presente che le categorie umane in cui ci muoviamo come società del secolo XXI hanno svuotato quasi del tutto di significato il termine vita, dando ad esso un valore relativo e in funzione di ciò che questa vita produce.
Partendo dalla mia esperienza e da quella delle mie sorelle con le quali ho vissuto 22 anni come domenicana contemplativa posso affermare che la chiamata quasi sempre è partita da un’esperienza e da un incontro con la vita.
Agli albori dell’adolescenza, quando sognare risulta facile, nell’intuire progressivamente la prospettiva della mia vocazione ho vissuto l’esperienza della totalità, il bisogno di abbracciare il mondo e di farlo mio, di gioire con coloro che gioivano e di piangere con quanti piangevano.
Quando l’incontro con la vita è andato trasformandosi positivamente, nel cuore della contemplativa sono germogliati la gioia, l’allegria e il desiderio di dare il meglio di me stessa. Intendo sottolineare di più la parte umana che riguarda colui che è chiamato. Tutti noi consacrati sappiamo che la vocazione ha origine da una elezione divina e che senza questa elezione non sarebbe possibile né il primo passo, né tutti gli altri. Forse spesso dimentichiamo la realtà umana presente nella nostra vocazione. Quando la vocazione si idealizza troppo e si spiritualizza al massimo, c’è il pericolo di non viverla ma di servirsene; la vocazione o si vive o si perde. «Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima» (Ap 2,3-4). Il primo amore si intiepidisce quando si dimentica l’elemento umano che lo configura. L’elemento divino c’è sempre, l’elezione è per sempre, Dio non si pente, i suoi doni sono irrevocabili. Sono io che cammino verso di lui sapendo di essere un vaso; se misconosco la mia creta non avrò mai coscienza che questo vaso è pieno o ha la capacità di esserlo.
All’inizio della vocazione religiosa, quando cominciavo a balbettare le prime sillabe di questo meraviglioso alfabeto, trovai una frase che definì per sempre la mia vocazione; l’aveva scritta una domenicana contemplativa scomparsa da diversi anni. Diceva così: «Ho cercato Te perché erano essi a chiamarmi». Voleva spiegare il perché della sua vocazione contemplativa confrontando la sua impotenza di fronte al grido della vita presente in questa umanità sofferente che aveva bisogno di lei, con l’onnipotenza di Dio che nel silenzio avrebbe resa feconda la sua donazione. Il campo di azione di una contemplativa è il cuore dell’umanità, dove il volto umano del povero e del ricco ha bisogno dello stesso abito, l’abito dell’amore. È di una taglia unica e ha come misura una trave: «quando sarò elevato da terra trarrò tutti a me» (Gv 12,32), un crocifisso, «nessuno mi toglie la vita, io la do ma la offro da me stesso» (Gv 10,18) e un pane spezzato e condiviso, «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51).
Successivamente imparai a definirmi contemplativa, donna che ama la vita e si sente spinta a donare la vita perché ha il cuore felice.
L’essenza della vocazione contemplativa consiste nell’essere quello che si è, diceva Paolo VI: «Siate quello che dovete essere e il Signore farà sì che i muri dei vostri conventi siano di cristallo». La contemplativa porta e genera la vita senza altre armi che la preghiera e il silenzio, sicura e fiduciosa che la preghiera, il canto, la liturgia, lo studio, la vita comune, il lavoro sono un canto alla vita il cui strumento musicale deve essere affinato ogni giorno con note e battute di amore e di fedeltà che il principale compositore ha già definito nella sua partitura, affinché in tutti gli angoli del mondo si possa ascoltare e ricevere la sua melodia. È cosa gratuita perché è stata composta con il dono ed è destinata a generare felicità, che non sono sinonimi di vita facile, ma di speranza. Molte volte in mezzo al dolore e alla prova bisogna continuare a gridare che all’oscurità succederà un’alba: «Grida pieno di gioia sentinella che annunci buone notizie, si infrangono le catene e il sole di Cristo brilla splendente» (inno dell’ufficio corale).
Non è un’utopia sostenere che la contemplativa ha un cuore felice, e non può non averlo; il contatto con Dio ha umanizzato il suo essere e ha divinizzato il suo sguardo, perciò può contemplare l’orizzonte sapendo che il suo vaso è fragile e gracile ma sta nelle mani del miglior vasaio, non ha bisogno di approvazione e del consenso utilitarista della società, ma solo di darsi e questo dono di sé la rende immensamente felice.
Ho cominciato a respirare Dio con profumo umano. Come domenicana, l’esperienza di Dio si plasma nella vita comune, la comunità segna la profondità e la generosità della mia vita diventando un bastone comune in cui tutte troviamo il nostro punto di appoggio. Mi piace definire la comunità come luogo di incontro, di accoglienza e di perdono. Luogo di incontro perché in essa siamo state chiamate a condividere la vita che è Dio; luogo di accoglienza perché questa vita è curata e formata da tutte noi che formiamo la comunità e insieme la costruiamo; luogo di perdono perché in più di un’occasione ognuna di noi è a volte “figlio prodigo”, altre volte il “figlio maggiore” e dobbiamo sempre lottare per acquisire il volto misericordioso del Padre.
Per quanto mi consta, posso affermare di sentirmi in cammino, realizzata come donna e come consacrata, per cercare di raggiungere la meta. L’esperienza di una morte che è vita in un’epoca della mia storia ha segnato tutto l’itinerario della mia esistenza e mi ha liberata per amare. Libera per amare, consacrata per essere pane spezzato perché Dio vale la pena. Ora che accompagno più da vicino le mie sorelle minori aiutandole a scoprire le prime sillabe dell’alfabeto che dovranno imparare e praticare per tutta la vita, ho scoperto la ricchezza di questo santuario segreto che è ogni cuore umano e il valore della vita donata perché altri abbiano la vita: «Se lasci pezzi della tua anima innamorata lungo il sentiero, quanto dolci, belli, divini sono i tuoi passi, messaggero!» (da un inno dell’ufficio corale).
Alcuni mesi prima del mio ingresso in monastero, verso gli anni ’80, ebbi occasione di visitare una comunità. Lungo la strada verso il monastero, su alcuni muri vicini, c’era un’enorme scritta che diceva: «parassiti della società». Non mi diede il minimo disturbo poiché mi resi conto che veniva da gente condizionata da ambienti ostili a tutto ciò che è religioso. Ma nel corso della mia vita consacrata sono tornata più volte su quella frase, non perché avessi dei dubbi, ma per una richiesta personale di fedeltà che mi ha portata alla conclusione che effettivamente nel momento in cui si cessa di essere felici, quando si perde il gusto della propria consacrazione, quando si cerca di acquisire parametri di efficacia basati su giustificazioni inutili, quando non si sa guardare al futuro al di là delle apparenze e con paura, automaticamente si diventerebbe dei parassiti della società.
ROMPERE L’AMPOLLA
E SPARGERE PROFUMO
La vocazione contemplativa esige che ci si affacci senza paura e rifiuto alla vita, richiede di essere capaci di sentire in se stessi il calore umano e con braccia immense abbracciare amorevolmente il tempo e la storia come luogo privilegiato di incontro e di presenza; allora ogni giorno è Betania, si ritorna a rompere l’ampolla e a spargere il profumo un anno, dieci anni, venti, cinquant’anni, la vita intera, il tempo diventa avvenimento teologico e la contemplativa senza perdere la sua natura rimane nel cuore dell’umanità. Questa esperienza portò Teresa di Lisieux a scoprire che la sua vocazione era l’amore e che il centro di questo amore era il cuore. «Nel cuore di mia madre la Chiesa sarò l’amore» (Storia di un’anima). «Passare attraverso la vita facendo del bene, fendere il vento con il sorriso sulle labbra e nel cuore, passare come una tenue scintilla sul dolore dell’umanità con le mani ripiene di amore e lasciare una traccia di Dio come unica eredità del mio passo. Passare come passa la sera, impregnata di silenzio, di aneliti, di speranza, di antiche solitudini, lasciare che lo sguardo chiami solo la tua presenza. Non cerco altro ricordo che una canzone di pace, nel piccolo borgo del mio popolo, vicino al pioppo solitario, non cerco altro ricordo che l’ombra del mio corpo inclinato verso il tuo sacrario, nella serena intimità del chiostro e una scritta grande, tanto grande quanto il tuo mistero, posta sul cuore del mondo che proclami ai quattro venti: non è stato nessuno, ma è passato attraverso la vita facendo del bene» (sonetto del Ricordo. M. M.).
Partendo dal concetto di “vita utile” proprio della nostra società, è chiaro che la prima esperienza da presentare ai giovani che chiedono di condividere la nostra vocazione come progetto di vita è quella della gratuità.
Bisogna partire da questo senso della gratuità, dall’efficacia che non si misura con ciò che si produce ma con l’amore che configura, dà libertà e coerenza, che non fugge dal futuro ma si lancia nel futuro con la sicurezza di coloro che si sentono profeti dei tempi nuovi, tempi difficili senza dubbio, tempi da accogliere e costruire, in cui riscaldare le ceneri perché possano accendere le nuove generazioni, e lavorare con pazienza perché il fico produca i frutti sperati, i frutti dei tempi futuri, quelli che lo Spirito farà germogliare nelle nuove esperienze di vita di ogni vocazione che egli chiama alla porta del nostro monastero.
L’esperienza vocazionale è un problema che riguarda la maggior parte della vita consacrata sul piano mondiale, i tempi sono cambiati e dobbiamo imparare a cogliere la presenza dello Spirito, poiché “il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene né dove va» (Gv 3,8). Questa è la sfida della vita contemplativa: ascoltare il mormorio dello Spirito e poter dire che non sappiamo da dove viene né dove va, ma che vogliamo lasciarci guidare da lui.
Angeles Martinez Moreno
1 La testimonianza è di sr. Angeles Martinez Moreno, OP, maestra delle novizie del monastero domenicano di Copiapó (Cile). È stata pubblicata in Testimonio marzo-aprile 2003, 88-92.