LETTERA DI P. TRABUCCO IMC

ATTUALITÀ DI PAOLO MANNA

 

Negli scritti del beato Paolo Manna, scelto come “protettore” per l’anno 2003 dai missionari IMC,i tratti salienti dell’apostolo d’oggi: vivere Cristo, saper leggere i segni dei tempi, accompagnare il lavoro con la simpatia per le culture dei popoli.

 

 “Gareggiate nello stimarvi a vicenda”: vengono alla mente come realizzate le parole con le quali Paolo apostolo esorta i fedeli della chiesa di Roma (Rm 12,10b), nel leggere la Lettera del superiore generale dei Missionari della Consolata che troviamo nel Bollettino ufficiale per gli atti della Direzione generale IMC (99/ottobre 2002). Emerge infatti dalla lettera di p. Piero Trabucco – scritta in seguito alla decisione presa dalle Direzioni generali maschile e femminile IMC di scegliere il beato Paolo Manna quale protettore per l’anno 2003 – un vivo e intenso apprezzamento verso una figura che pur non essendo quella del loro fondatore gli si presenta altamente degno di essere proposto come maestro di spiritualità e di vita missionaria a sé e ai propri fratelli.

 

ATTUALITA’

ESEMPLARE

 

Anzitutto – scrive il superiore generale IMC – «Paolo Manna (1872-1952) ha realizzato la sua vocazione e il suo progetto di santità all’interno di un istituto esclusivamente missionario, vivendone in pienezza la vita, lo spirito e gli ideali»: viene da qui la proposta di vivere responsabilmente secondo il carisma e lo spirito dell’istituto di appartenenza, fondato per essere propriamente missionario ad gentes, quale «strada privilegiata» per raggiungere quella santità di vita che anche il beato Giuseppe Allamano, fondatore dell’IMC, proponeva ai suoi come base irrinunciabile al loro tipico servizio di annuncio evangelico ai popoli.

Il secondo motivo scaturisce dall’esortazione pressante che l’ultimo loro capitolo generale ha rivolto ai missionari IMC affinché riflettano «sull’ad gentes con coraggio, apertura di mente e docilità allo Spirito che guida e accompagna il cammino della Chiesa e della missione. Il beato Manna non fu uno studioso o un cattedratico. Visse e operò sempre sul campo, sia in terra di missione come in Europa, attento però a leggere, interrogare e pensare, per individuare i nuovi cammini della missione e la metodologia più adatta per annunciare Cristo alle persone del proprio tempo. Egli testimonia la necessità che il lavoro apostolico sia sempre accompagnato da costante riflessione e attento esame dei segni dei tempi, oltre che da simpatia per le culture dei popoli in mezzo a cui ognuno lavora».

Ma è l’idea centrale che del pensiero del b. Manna sulla missione p. Trabucco mette in prima evidenza. Per essa, lungi dall’essere identificata con il puro e semplice fare, la missione deve avere in sé come cuore profondo la spiritualità, vissuta in costante e ardente adesione alla viva persona di Cristo. Riporta pertanto dall’abbondanza degli scritti di lui, in particolare dall’opera Virtù apostoliche (VA), dove la forza del pensiero lascia trasparire la vita vissuta: «Si dice che i missionari siano pochi; ma quanti più pochi sono i veri missionari, i missionari che ritraggono in tutta la loro vita la figura di Cristo!... Solo il missionario che copia fedelmente Gesù Cristo in se stesso, e può dire ai popoli con l’apostolo s. Paolo “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo”, solo lui può riprodurne l’immagine nelle anime degli altri. Chi non fa così, invano s’affatica e invano si lamenta se le sue fatiche non sono corrisposte» (VA 91).

E ancora: «Non ci illudiamo: lo zelo apostolico, senza del quale nulla siamo come missionari, non divampa che da un cuore acceso d’amore di Dio. Quando il nostro cuore sarà unito a Dio nell’intimità della meditazione e della preghiera, allora “arde il fuoco” e il nostro amore ci suggerirà quello zelo ingegnoso, pratico, perseverante, infaticabile che contraddistingue il vero apostolo di Gesù Cristo» (VA 93).

 

MISSIONARI...

MA “NON TROPPO”!

 

Padre Manna non poteva immaginare un missionario apatico e freddo, che non ardesse di quel fuoco. E nello stesso tempo egli ribadisce più volte nei suoi scritti la necessità di armonizzare le attività apostoliche con lo studio, le esigenze della vita fraterna e la preghiera. Si tratta di quel senso di sapiente concretezza dettato dalla carità apostolica che si trova ancora in VA/201: «I nostri missionari sono talvolta un po’ troppo missionari: troppo al di fuori, troppo per gli altri. Bisogna evitare gli eccessi, e saper meglio contemperare la vita attiva con la contemplativa e, per dirla più poveramente, la vita esteriore di visita alle cristianità con la vita di residenza, la predicazione con l’orazione, il lavoro con lo studio. Dio mi guardi dall’insinuare anche minimamente la più piccola trascuratezza o rilassamento nelle opere dello zelo: parlo degli eccessi a cui potrebbe portare una smodata attività. La smodata attività... è quella di cui ho paura, e alla quale vedo specialmente portati i giovani del nostro tempo».

Ed esemplifica, per chiarire meglio il suo pensiero: «Ho visto missionari così impegnati nelle opere, così effusi all’esterno che hanno paura della solitudine delle loro camere, che hanno quasi un bisogno di correre, di affaccendarsi sempre e quando non hanno da correre pare non sappiano che il tempo si può anche impiegarlo studiando e pregando nella quiete della propria camera... Dire che in missione non c’è tempo per studiare è asserire cosa non rispondente a verità... Qual pena sentire la predicazione di missionari che non studiano e non si preparano! Sempre più o meno le stesse improvvisazioni e diatribe» (VA 212-213).

 

NEL CROGIOLO

DELLA MISSIONE

 

Ci sono molti elementi a rendere incandescente il crogiolo per il quale passa la missione o meglio i missionari: la croce – scrive p. Trabucco introducendo altri aspetti del pensiero di p. Manna – la croce «che è lì non solo per essere contemplata, ma anche per essere caricata sulle nostre spalle»; l’obbedienza attraverso la quale spesso la stessa croce si presenta; i disagi grandi e piccoli che corredano il concreto quotidiano; il peso della responsabilità verso le persone alle quali il Vangelo viene annunciato; il senso di morte da cui ci si può sentire assaliti di fronte al fallimento di sforzi e di impegno.

Perciò il beato Manna non proponeva sconti alla risposta vocazionale: «Nell’ordine soprannaturale, il dolore e spesso anche la morte sono ragione di fecondità. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Per salvare bisogna soffrire. I giovani aspiranti, i missionari che non intendono questa dottrina debbono starsene a casa, perché non si diventa salvatori ad altro prezzo» (VA 223-224).

Con un linguaggio nel quale assieme alla proposta di requisiti molto forti per la missione si può cogliere anche un senso di paterna tenerezza, padre Manna insisteva sulle qualità proprie del vero missionario, che pur senza dover essere un eroe a tempo pieno non esclude, a partire dalla sua prima formazione e con crescente consapevolezza, che la sua debba essere una vocazione al martirio: «È un martirio lento, ma non meno meritorio e grande agli occhi di Dio, quello che, per propagare la fede, i nostri missionari subiscono giornalmente, soggetti come sono a tanti disagi, a tante privazioni, a tante intemperie, a tante malattie nelle quali, molto verosimilmente, non incorrerebbero se fossero rimasti in patria. Leggete il nostro necrologio: uno o due hanno avuto la sorte di spargere il sangue per la fede, ma quanti e quanti hanno dato per la fede la loro vita goccia a goccia, quanti questa vita l’hanno sacrificata e abbreviata, logorata da febbri o abbattuta da morbi crudeli!» (VA 228-229).

 

NELLA CHIESA

E PER IL REGNO

 

Le Costituzioni dell’IMC sottolineano fortemente l’ecclesialità dell’istituto, sviluppando il pensiero del b. Allamano, che parlava di “attaccamento” alla Chiesa, e affermando: «Il missionario si vincola all’opera dell’evangelizzazione nella Chiesa, della cui missione diventa più strettamente partecipe. L’istituto e ogni suo membro si distinguono per l’amore, la fedeltà, l’adesione al papa, ai vescovi e nel seguire le direttive della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli» (Cost. 13). Padre Trabucco vi nota l’evidente sintonia col pensiero del b. Paolo Manna, il quale mette ripetutamente in guardia il missionario «dalla tentazione di volgere il suo interesse altrove, oppure di chiudersi esclusivamente negli orizzonti particolari del proprio istituto. E giunge ad affermazioni forti, quale: “Dove più forti sono le missioni, più debole è la Chiesa!”». Parole terribili di un profeta, che senza sfumarne l’audacia ammonisce: «Non si avveri mai tra noi che una missione diventi fine a se stessa: che sugli interessi di Dio e della Chiesa prevalgano interessi congregazionalisti, nazionalisti, economici. Tradiremmo la nostra missione apostolica e ritarderemmo lo stabilimento del regno di Dio... È innata negli ordini e istituti la tendenza a crescere, a estendersi in soggetti e in opere. Tale disposizione, che anche noi sentiamo, è da benedirsi quando non si perda mai di vista il fine cui tutto va ordinato e diretto: Dio, la Chiesa, le anime. Più numerosi, più forti, ma non per dominare, ma solo per servire» (VA 196).

Un tale senso del regno di Dio e della Chiesa porta oggi a saper discernere i segni del tempo e a riconoscervi due esigenze ineludibili, pena la non credibilità del servizio missionario ad gentes come di ogni tipo di testimonianza cristiana.

La prima di tali esigenze è quella espressa da p. Trabucco con le parole «La speranza è riposta nel seme», ossia nei giovani d’oggi che avvertendo la “chiamata missionaria” spesso ne sentono un fascino poco preciso, complice non di rado nelle società odierne l’ambiente della loro crescita umana; e pertanto necessitano di una formazione che ne corregga il senso con “chiamata alla santità per la missione”. Perché è vero che, con le parole di p. Manna, «senza missionari non ci sono missioni; senza missionari santi, colti, intraprendenti, numerosi non si convertono le anime e non si fondano le chiese»; e ne deriva l’altra verità: «Gesù Cristo, ecco la realtà intorno alla quale deve formarsi, trasformarsi la vita dei nostri aspiranti missionari... Bisogna far sentire Gesù Cristo al cuore, all’anima dei nostri aspiranti come al loro intelletto: tanta formazione spirituale quanta intellettuale e scientifica: tanta orazione quanta teologia» (VA 178). E con la massima cura nel discernimento delle vocazioni: «La selezione non fatta a tempo regala all’istituto dei soggetti per l’una o l’altra parte manchevoli, e, come dissi nella mia circolare dell’aprile dello scorso anno, l’istituto di uomini mediocri non ha proprio bisogno» (VA 180).

Anche qui parole audaci, come lo sono quelle che riguardano l’altra esigenza in primo piano, ossia quella di «non dare troppo valore al denaro»: un argomento sul quale il b. Manna è severissimo, esprimendo nel proprio tempo ciò a cui anche oggi e si può dire in ogni cultura il popolo a tutti i livelli è massimamente sensibile: il disinteresse economico, la sobrietà della vita, un modo tale di vivere la povertà religiosa, anche nelle opere, che non solo i poveri ma pure i ricchi vi possano vedere Gesù che “evangelizza i poveri”.

Paolo Manna la vedeva così: «C’è quasi da augurare che alle missioni venga meno ogni sussidio dall’estero. Sarebbe una grande purificazione e un decisivo passo avanti verso la costituzione delle chiese indigene. Una sola parola dico: non diamo al denaro troppo valore come mezzo di apostolato. Vorrei s’intendesse bene la giusta forza di questa parola troppo. Il Vangelo non farà molta strada appoggiato alle grucce del denaro, e se pure sembrerà progredire non sarà un progresso duraturo e verace» (VA 170-171).

La posizione del beato Manna – commenta p. Trabucco – non è una posizione manichea che vede nel denaro e nei beni materiali solo male e peccato. Le sue conclusioni derivano piuttosto da un attento esame della realtà missionaria, confrontata poi con le esigenze del Vangelo. Egli predilige trattare questo tema partendo da due ottiche particolari: quella spirituale e ascetica per la formazione dei missionari (il distacco) e quella pastorale e di metodologia missionaria (per una autentica crescita della chiesa locale)». Una visione vincente, a ben riflettere sulla grande “storia missionaria”, e proponibile anche per l’oggi.

 

Zelia Pani