PADRE KOLVENBACH AI GESUITI

SIGNIFICATO DELLA POVERTÀ OGGI

 

È importante comprenderne il valore evangelico.Deve essere una povertà spirituale ed effettiva alla cui base sta una vera conversione del cuore. Tre criteri la devono ispirare: la missione ricevuta, la gratuità e la solidarietà.

 

Più e più volte si è sentito ripetere in questi ultimi anni che la povertà vissuta dai consacrati è una realtà complessa che non si può risolvere con delle semplici formule o un regolamento: tutto ciò non basta. La povertà per essere vera implica il dono di tutta la propria persona, come è stato per il Signore, e comprende quindi anche l’essere casti e obbedienti. Se si vuole perciò seguire il Signore, essere suoi compagni nella povertà, è necessaria una conversione del cuore, vissuta in familiarità con lui che è povero.

Sono alcuni aspetti su cui ha attirato l’attenzione p. Peter-Hans Kolvenbach, superiore generale dei gesuiti, in una lettera a tutta la congregazione, scritta per accompagnare l’invio alle comunità degli statuti riveduti sulla povertà, in risposta a una richiesta che era stata fatta dai superiori maggiori riuniti a Loyola, nel 2000.

 

CONVERSIONE

DEL CUORE

 

Che cosa implica questa conversione del cuore? Richiede, anzitutto, che sia compreso il senso del termine “povertà” nel suo significato evangelico. È un termine, scrive il padre, che ci disturba a tal punto che siamo tentati di sostituirlo con espressioni come “voto di condivisione”, “voto di solidarietà” oppure “voto di compassione”. Certamente è vero che in alcuni continenti la povertà non è percepita come un valore positivo, nel senso che se si vuole essere veramente umani bisogna uscire dalla povertà e dalla miseria. In altre parti del mondo si presenta come un controvalore in una società caratterizzata dall’economia di mercato e da un desiderio soverchiante dei consumi. Povertà, allora, vorrebbe dire una sana sobrietà in cui ciascuno trova la sua felicità nell’accontentandosi dell’essenziale. Ma, sottolinea p. Kolvenbach, «non è questa la povertà evangelica».

Nella vita consacrata, il termine irrita soprattutto perché, malgrado le migliori intenzioni, non riusciamo a essere poveri come i numerosi poveri che ci circondano. Molti religiosi e religiose condividono le condizioni di vita precarie e la miseria dei poveri, ma il più delle volte senza sperimentare la loro insicurezza e la loro mancanza di speranza, senza essere come loro degli sfruttati e degli esclusi. E, soprattutto, perché la vita consacrata assume, nella Chiesa e per la Chiesa, delle missioni che richiedono grandi mezzi e suppongono delle istituzioni in cui l’efficacia apostolica sembra opporsi a qualsiasi osservanza della povertà.

Ma «vedere in queste constatazioni dei pretesti per non vendere tutto ciò che si ha e distribuirne il ricavato ai poveri non sarebbe che facile retorica». Al contrario è al cuore di questa realtà che sant’Ignazio invita, ciascuno secondo la propria vocazione e missione, a chiedere al Signore la forma concreta di povertà evangelica che, fra le tante forme possibili, egli si aspetta da ciascuno di noi.

«È la povertà spirituale – vivere il mistero del Signore povero – che deve ispirare, motivare e plasmare la nostra povertà effettiva». La povertà spirituale rende amici del Signore, ma essa deve essere anche effettiva, poiché, in caso contrario, come ricordava già nel 1547 p. Polanco, a nome di sant’Ignazio, ai gesuiti del collegio di Padova che vivevano in una condizione economica penosa, «questa mistica della vita in Cristo povero si ridurrebbe a un affare di parole e non del cuore». In effetti, «coloro che amano la povertà devono amarne anche le conseguenze, per quanto dipende da loro, come il mangiare poveramente, vestirsi e dormire poveramente, essere disprezzati».

 

POVERTÀ

E DISCERNIMENTO

 

Un secondo aspetto della povertà è il ruolo importante e indispensabile del discernimento. Negli Esercizi spirituali si vede un Ignazio che rifiuta di decidere da se stesso come essere povero e prega il Signore di dargli la forma concreta che la povertà deve assumere per lui. Il suo diario spirituale testimonia di una lotta angosciosa quando egli deve fare delle scelte concrete o si devono prendere delle disposizioni pratiche. Ignazio infatti non vuole compiere altra scelta che quella che ha fatto il Signore. E ciò tanto più in quanto è consapevole delle illusioni a cui, in materia di possesso e di povertà, siamo esposti e di cui siamo, di fatto, le vittime. In certo senso sarebbe più facile stabilire la lista di ciò che si può avere o non avere per vivere la povertà. Ma una lista esaustiva, valida per tutti non sarebbe praticabile, data la diversità dei ministeri e delle condizioni socio-economiche. Soprattutto, sottolinea p. Kolvenbach, essa autorizzerebbe colui che osservasse queste norme a dichiararsi “povero”, mentre sant’Ignazio ci vuole sempre pronti a compiere il magis, a rendere più stretta la nostra povertà.

Il regime della povertà descritto nelle costituzioni è rimasto in vigore fino al 15 settembre 1967, ma urtava contro tutte una serie di difficoltà insormontabili, dovute essenzialmente ai cambiamenti economici, e quindi esigeva delle eccezioni, delle dispense e soprattutto delle interpretazioni casistiche. I nuovi statuti, pur mettendo l’accento sulla conversione del cuore, affidano la povertà al discernimento nella preghiera: «Quando è fatto in comune, è molto diverso dalle deliberazioni di un consiglio di amministrazione. È anzitutto pregando che si chiede al Signore di sceglierci per una povertà effettiva, affinché sia per il servizio e la lode della sua divina Bontà, anche se questa povertà ripugna al nostro desiderio istintivo di avere e di possedere. In questo modo un discernimento nella preghiera può condurre, in materia di povertà, a dei gesti profetici in cui non sia dato solo il superfluo, ma anche l’essenziale per condividere con i poveri oppure in vista di ministeri poco apprezzati perché senza successo o senza prestigio. In ogni caso è sempre meglio e più sicuro, per ciò che ci concerne personalmente o riguarda il nostro stile di vita, tagliare o diminuire per quanto possibile, e avvicinarci il più possibile al Signore nel suo desiderio appassionato di portare la buona novella ai poveri».

Un tale rapporto profetico, sottolinea p. Kolvenbach, non esclude in alcun modo la sana amministrazione e la gestione di un’organizzazione che, in ogni caso, deve presentarsi “senza scopo lucrativo”. Essa esclude ogni forma indebita di commercializzazione e di capitalizzazione. Un discernimento del genere, fatto in comune, deve essere compiuto in ogni comunità a livello di province e regioni, e per tutte le opere che dipendono dalla Compagnia, soprattutto in occasione della verifica del bilancio annuale e quando la situazione economica della comunità o di un’opera è esaminata alla fine di un anno o durante la visita del superiore maggiore.

In tutti i casi, l’esito del discernimento nella preghiera dipende in larga misura dal discernimento personale di coloro che vi partecipano.

La disponibilità a rivedere e a verificare di continuo la povertà richiede che ciascuno si comporti come persona responsabile dei beni messi a disposizione per utilizzarli in perfetta trasparenza e in spirito di povertà, in uno stile di vita sobrio e ospitale, aperto alla condivisione e alla solidarietà con coloro che soffrono per la miseria, l’ingiustizia e l’emarginazione. Se manca questo discernimento personale, ciò che fa in comune rischia di rimanere di gran lunga lettera morta o di non essere altro che una saggia amministrazione dei beni.

 

TRE CRITERI

DI DISCERNIMENTO

 

La pratica del discernimento, secondo p. Kolvenbach, deve essere guidata da tre criteri, gli stessi proposti da sant’Ignazio nei suoi scritti. Il primo è la missione ricevuta. Ispirandosi a san Paolo e al modo in cui viveva la povertà al servizio del Vangelo, Ignazio ha voluto una forma di povertà che liberasse da ogni attaccamento per essere interamente al servizio della missione di Cristo, da promuovere qui e ora. Sant’Ignazio si rifiuta di fissare nei dettagli le modalità concrete, dal momento che la povertà effettiva dipende interamente dalle esigenze della missione ricevuta, che questa supponga più o meno mezzi, che sia più o meno confortevole.

Pertanto «dobbiamo chiederci – ancora una volta con i nostri compagni – in quale misura dobbiamo migliorare o ridurre il nostro stile di vita, non in base ai nostri gusti personali, ma in funzione della missione che il Signore ci ha affidato».

Come disse p. Arrupe, riferendosi a sant’Ignazio, «non si tratta solo di compiere la missione, ma di adempierla secondo il modo di procedere proprio del Signore, non secondo il nostro».

Un secondo criterio si riassume nella richiesta del Signore di dare gratuitamente ciò che abbiamo ricevuto gratuitamente: «Si tratta di una missione da compiere necessariamente con un cuore di povero, con dei mezzi poveri, dove non c’è alcuna proporzione tra l’investimento e il risultato, e senza cercare il prestigio né i mezzi di pressione. Troppo a lungo, sottolinea p. Kolvenbach, la Compagnia ha dovuto battersi con una gratuità che intendeva vivere ma che era percepita solo come un servizio non remunerato. Il Signore ha donato se stesso gratuitamente, senza aspettarsi ricompensa o compenso alcuno, ma attraverso una gratuità d’amore e di dono, di accoglienza e di condivisione. Così la nostra gratuità come criterio di povertà effettiva deve rivelare il vero volto di Cristo, del suo messaggio e della sua persona. Questa gratuità è vissuta nella misura in cui il salario guadagnato o il contributo ricevuto per il proprio lavoro rimane senza proporzione rispetto al dono di sé che caratterizza il compimento personale della missione.

L’esperienza mostra che è più difficile ancora mantenere questa gratuità come criterio della povertà nelle opere e nelle istituzioni. Senza dubbio, tra efficacia apostolica e gratuità occorre trovare un equilibrio, sempre difficile da realizzare, e che perciò esige discernimento: «Dobbiamo essere disposti ad abbandonare un’opera o un’istituzione quando non vi possiamo più testimoniare la gratuità del dono del Signore, soprattutto quando non c’è più la possibilità di rendere un vero servizio, ma è una contro-testimonianza del Vangelo annunciato ai poveri. Al contrario, dobbiamo conservare e sviluppare con dinamismo apostolico e creatività spirituale le istituzioni e le opere che sono meno caratterizzate da un bilancio finanziario favorevole o da risultati veloci e più da un vero servizio che viene reso, soprattutto agli amici del Signore che sono i poveri».

Ed ecco allora il terzo criterio in ordine a una povertà effettiva nella missione che è stata affidata: la solidarietà evangelica con i poveri. Oggi questa solidarietà non può più essere vissuta come in antico attraverso la distribuzione delle elemosine. Si sente la necessità di una solidarietà assai più grande e più generosa con i poveri e si avverte il desiderio di una vita più sobria per poter consacrare una parte ancora maggiore dei propri beni e delle risorse umane e materiali a coloro che ne hanno più bisogno.

Tuttavia, per quanto si faccia, questa solidarietà rischia di rimanere sommersa dalla miseria crescente, le cui cause sono molto complesse e che per la sua ampiezza esige dei mezzi esorbitanti. Siamo, sottolinea p. Kolvenbach, come un povero che non ha altro a sua disposizione che qualche pane e alcuni pesci per sfamare una grande folla affamata. Perciò, «senza il significato pasquale della nostra povertà, la solidarietà crescente alla quale partecipiamo genererebbe facilmente un sentimento di scoraggiamento e di frustrazione. In realtà, tutto ciò che possiamo fare, personalmente – il dono di sé non è mai rimpiazzato dal denaro – e come comunità o attraverso le nostre opere fa parte integrante della missione di “predicare in povertà” la forza pasquale di colui che, pur essendo ricco, si è fatto povero per arricchirci».

P. Kolvenbach cita, a questo proposito, ciò che il papa scrive nel documento Vita consecrata: «Grandi pagine di storia e di solidarietà evangelica e di dedizione eroica sono state scritte da persone consacrate in questi anni di profondi cambiamenti e di grandi ingiustizie, di speranze e di delusioni, di importanti conquiste e di amare sconfitte… Alle persone consacrate è chiesta dunque una rinnovata e vigorosa testimonianza evangelica di abnegazione e di sobrietà, in uno stile di vita fraterna ispirata a criteri di semplicità e di ospitalità, anche come esempio per quanti rimangono indifferenti di fronte alle necessità del prossimo… In realtà, prima ancora di essere un servizio per i poveri, la povertà evangelica è un valore in se stessa, in quanto richiama la prima delle beatitudini nell’imitazione di Cristo povero. Il suo primo significato, infatti, è testimoniare Dio come vera ricchezza del cuore umano» (90).

«Gli statuti riveduti, conclude p. Kolvenbach, sono il frutto di un ampio e minuzioso discernimento orante della Compagnia tutta intera. Costituiscono oggi il quadro concreto della nostra povertà. Per vivere in verità la nostra vocazione e missione, bisogna prenderli sul serio e incarnali nella nostra vita personale e comunitaria, mettendoli in pratica. Poiché “la povertà deve essere amata e custodita nella sua purezza, per quanto è possibile con la grazia di Dio, come il baluardo solido della vita religiosa” (Cost. 553)».