IL PROGETTO DELLA COMUNITÀ SALESIANA

DISCERNIMENTO E CONDIVISIONE

 

Il capitolo generale 25° dei salesiani propone il progetto di vita comunitaria come mezzo efficace per rafforzare la capacità di vivere e lavorare insieme, per superare la progressiva dispersione del lavoro individuale, per evitare il rischio della frammentazione pastorale.

 

L’ultimo capitolo generale salesiano ha chiesto a ogni comunità di “operare secondo un progetto comunitario”. La formulazione del progetto della comunità salesiana, infatti, può essere di fatto un interessante punto di partenza per applicare le decisioni del capitolo generale.

Per facilitare la realizzazione di questo cammino don Francesco Cereda, responsabile del consiglio generale per la formazione, ha steso alcuni punti fermi per aiutare ogni ispettoria a orientarsi nella stesura del proprio progetto comunitario.

 

MOTIVAZIONI

DEL PROGETTO COMUNITARIO

 

Nella cultura attuale progettare è indispensabile tanto per le persone quanto per le istituzioni. «Per un giovane, ad esempio, avere il progetto del proprio futuro significa dare una direzione alla vita, prendere responsabilità per essa, orientare tutte le energie verso il raggiungimento di un obiettivo, essere pronto per i sacrifici richiesti. Egli ha un sogno ed è disposto a fare tutto il possibile per realizzarlo. C’è entusiasmo e determinazione; la sua vita ha un senso ed egli la vuole vivere pienamente.

Anche per la comunità la progettazione risulta necessaria. In una società rapidamente mutevole come la nostra - fa notare don Cereda - «le nostre comunità si trovano disperse per ritmo e fronte di lavoro; vivono e operano in contesti diversi; sono chiamate perciò a divenire soggetti consapevoli e responsabili». In questa direzione darsi un progetto comunitario presenta notevoli vantaggi, tra i quali il responsabile della formazione salesiana sottolinea:

- la costruzione del proprio senso di identità. Con il progetto la comunità si interroga sul disegno che Dio ha su di lei. Essa si domanda cosa Dio vuole che la comunità sia in questo luogo; quale ruolo le ha assegnato tra i giovani e i laici in queste circostanze; cosa vuole essere in fedeltà a Dio che l’ha chiamata qui (CG25 73). Tutto ciò che in termini generali è espresso nei documenti della Chiesa e della congregazione su come una comunità deve vivere e proiettarsi, nel progetto comunitario diventa un modo efficace con il quale un gruppo particolare di confratelli, in una situazione concreta, si interroga sul senso della propria presenza per scoprire come comunità la volontà di Dio e così praticare l’obbedienza;

- l’acquisizione di un senso di direzione nel cammino. La comunità scopre la strada da prendere per diventare la comunità che si sente chiamata a essere. Questo senso di direzione si estende a tutta la vita della comunità: la preghiera, l’azione educativa pastorale, i rapporti, gli incontri, la formazione permanente, le realtà ordinarie di ogni giorno e le iniziative particolari. C’è una comunanza di vedute, di criteri, di linee di azione;

- una convergenza tra i membri della comunità creata dall’unità dell’azione e soprattutto dal senso di comunione tra le persone. La condivisione comunitaria e l’offerta del proprio contributo conducono a una maggiore comprensione e affiatamento reciproci. La comunità diventa unita nel voler camminare insieme verso la meta comune, seguendo la via tracciata insieme e voluta da tutti, senza alcuna imposizione da parte di chiunque;

- un maggior impegno da parte di tutti i membri della comunità. Essendo stati coinvolti nel processo, i confratelli sentono una certa proprietà sul progetto e un senso di responsabilità per farlo diventare realtà. Ognuno si mette al lavoro per compiere ciò che il progetto propone, utilizzando i propri talenti, le energie e le risorse. Suscitare nella comunità la consapevolezza dei compiti che la attendono e la responsabilità dell’attuazione è garanzia di efficacia operativa.

In definitiva, «il progetto comunitario avvia un processo di discernimento della chiamata di Dio da vivere in una specifica situazione; è uno strumento efficace per creare una visio­ne condivisa, per costruire comunità, per far crescere le relazioni; è un mezzo per il lavoro d’insieme tra tutti i suoi membri; è un aiuto per ogni confratello a sentirsi valorizzato e a realizzare la propria vocazione dentro l’ambito della comunità. Il progetto è il prodotto di un processo; è utile quindi curare tutto il processo e non solo il risultato. Il progetto è uno strumento e non un fine; è opportuno quindi motivare i confratelli sulle finalità che si vogliono conseguire con questo mezzo».

 

PER AVVIARE

UN PROGETTO COMUNITARIO

 

La progettazione comunitaria richiede alcune condizioni previe, capaci di garantire la bontà del processo e l’efficacia del prodotto.

Anzitutto - suggerisce don Cereda - è necessario coltivare alcuni atteggiamenti e vigilare su alcuni rischi, evitando gli inganni o le lusinghe di ogni progetto. La comunità non è protagonista esclusiva del progetto; essa riconosce e accoglie “l’eccedenza” del progetto che Dio ha su di essa. Il traguardo della progettazione non è l’autorealizzazione o il successo della comunità ma la sua gratuita dedizione alla missione e la sua crescita nell’identità vocazionale; non è il perfezionismo ma la propria autenticità evangelica. Nell’elaborazione non si assolutizza la raffinatezza metodologica; si cerca invece di raggiungere i confratelli in profondità, partendo dal loro vissuto e dal vissuto della comunità stessa.

L’ascolto della sacra Scrittura e la preghiera sono il contesto e l’orizzonte della progettazione, che diventa allora una vera avventura spirituale per la comunità.

Poi viene una seconda attenzione. L’esperienza ci dice che la riuscita del progetto comunitario dipende in gran parte, se non del tutto, dalle disposizioni dei membri della comunità verso di esso. Se il progetto viene visto dai confratelli come una imposizione del capitolo generale o del superiore, la tendenza sarà di rimandarlo il più possibile o di realizzarlo nel più breve tempo. È ovvio che questo tipo di progetto non serve. È quindi importante che prima di cominciare a progettare, la comunità si senta convinta della necessità di operare secondo un progetto e lo voglia veramente, vedendo in esso un mezzo importante per la sua realizzazione e crescita. Se c’è esitazione o mancanza di interesse da parte di alcuni, è meglio fare prima un incontro comunitario sul senso del progetto, per cercare di chiarire e risolvere i dubbi e soprattutto per creare la disponibilità. Si deve arrivare al punto in cui i confratelli sono aperti, se non proprio entusiasti, a incamminarsi su questa strada. La comunità fa il progetto non perché è costretta ma perché ne sente il bisogno, non perché lo deve ma perché lo vuole.

C’è infine una terza condizione da realizzare. La progettazione comunitaria non è un esercizio che parte da zero, ma ha due forti riferimenti. Da una parte c’è la Regola di vita, che offre indicazioni autorevoli sulla comunità salesiana; dall’altra c’è il testo dell’ultimo capitolo generale che si concentra su quattro aspetti della comunità: la vita fraterna, la testimonianza evangelica, la presenza animatrice tra i giovani e la formazione.

 

I PASSI DELLA

PROGETTAZIONE COMUNITARIA

 

I passi della progettazione comunitaria - specifica don Cereda - sono essenzialmente i passi di un processo di discernimento.

- Creato un clima spirituale di preghiera, assicurata la libera volontà di fare il progetto e assimilati i contenuti dei testi di riferimento, il primo passo della progettazione è la proiezione di come la comunità vorrebbe essere in risposta alla chiamata di Dio. È il tempo di sognare realisticamente. È il momento in cui la comunità, guardando al futuro, si chiede che cosa Dio vuole da lei. Non si tratta di descrivere una comunità in astratto, quanto di individuare quali dovrebbero essere i tratti di questa comunità, chiamata a incarnarsi hic et nunc.

La comunità ascolta e interroga la parola di Dio; guarda le aspettative dei giovani, della Chiesa locale, del territorio; legge pastoralmente la propria situazione; si domanda come è la sua testimonianza evangelica; considera le sue relazioni fraterne; ascolta i movimenti dello Spirito in ciascuno dei propri membri. Invita infatti ogni confratello a condividere con la comunità ciò che lui interpreta come il disegno divino per essa. Il confratello, riflettendo davanti a Dio sulla propria vita in comunità, condivide con gli altri membri le sue visioni, preoccupazioni e aspettative per la comunità; condivide pure le sue esperienze felici e tristi nella comunità e i suoi bisogni in vista della realizzazione del suo progetto personale. Gradualmente la comunità, prendendo atto dei contributi di ciascuno, muove verso una convergenza di vedute sul volto che Dio la chiama ad assumere.

È bene ricordare - chiarisce don Cereda - che in questo primo passo si descrive solo come vorrebbe essere questa comunità, non che cosa vorrebbe fare. Ed è importante che la visione della comunità, emersa dalla condivisione di tutti, non sia qualcosa di intellettuale o freddo ma qualcosa che entusiasma tutti i membri della comunità. È una cosa che li attira, li stimola ed è realistica; risponde ai loro desideri e alle loro aspettative; indica le possibilità che possono risultare dagli sforzi congiunti e dai sacrifici di tutti.

- Una volta che si è arrivati a una visione condivisa del futuro, il secondo passo è quello di contemplare la situazione della comunità. Piuttosto che andare direttamente ai problemi; sembra una migliore strategia considerare prima i successi e le risorse della comunità in vista del futuro desiderato. Questo modo di procedere crea un clima positivo per tutto il processo e serve ad incoraggiare i membri, in quanto vedono elementi già realizzati o realizzabili. Poi si passa a identificare le difficoltà, gli elementi che hanno bisogno di essere migliorati in vista degli obiettivi individuati. Non giova fare una lista interminabile di tutti i punti, positivi o negativi, nei loro dettagli. Una buona progettazione presuppone la capacità di individuare tre o quattro punti decisivi che praticamente determinano tutto il resto; si tratta cioè di cogliere le sfide fondamentali che ci vengono dalla situazione.

- Così si arriva al terzo passo del processo, la parte operativa. Alla luce della sua visione del futuro e della sua attuale situazione, la comunità traccia le linee di azione per il prossimo anno. Tali linee si articolano secondo le quattro parti fondamentali del capitolo generale: la vita fraterna, la testimonianza evangelica, la presenza animatrice tra i giovani, la formazione e animazione della comunità.

Esse vengono espresse in forma di obiettivi da raggiungere, strategie o processi da attivare, interventi per arrivare al traguardo. Gli obiettivi fanno concreta la visione del futuro, esprimendola in forma di traguardi verificabili; sono indicatori che ci aiutano a verificare se e fino a che punto siamo riusciti a realizzare la nostra visione. Le strategie o processi sono i principali aspetti che bisogna curare per raggiungere l’obiettivo. E gli interventi sono le azioni da compiere.

È auspicabile - consiglia don Cereda - che le linee di azione siano essenziali, per non disperdere la comunità su troppi fronti; siano significative, per avere un impatto notevole sulla comunità; siano raggiungibili entro l’anno, per tener conto delle reali possibilità della comunità.

Il progetto sia anche accompagnato dalla programmazione annuale, in cui si determinano i tempi, le modalità e le persone responsabili. Più concrete sono le determinazioni, maggiore è la possibilità di efficacia.

Ci sono due attenzioni da realizzare durante tutto il processo.

Anzitutto è importante che durante il processo si cerchi di arrivare a conclusioni con la convergenza dei membri della comunità. Convergenza non significa unanimità, ma che ognuno dei membri, anche se non trova la conclusione o la decisione che lo soddisfa completamente, sente tuttavia di dare il suo appoggio ad essa. Naturalmente arrivare alla convergenza tra un gruppo di persone richiede tempo e fatica, ma ha il grande vantaggio di superare le differenze di opinione, di creare una visione comune dei problemi e delle soluzioni, e conseguentemente di promuovere l’unità. In questo modo il progetto diventa il “prodotto” di tutta la comunità; ognuno dei confratelli si ritrova in esso. E tenendosi aperta per tutto il processo a ciò che Dio le chiede, la progettazione diventa un vero atto di discernimento.

La seconda attenzione è per il ruolo del direttore. Nel processo di progettazione il suo ruolo non è quello di decidere da solo o di imporre le sue idee. Egli incoraggia i confratelli a mettersi in ascolto dello Spirito e degli altri e a considerare il problema da diversi punti di vista. Invita ciascuno a partecipare in piena libertà e per questo cerca di creare un clima di fiducia e rispetto. Aiuta gradualmente a cercare la convergenza, superando i motivi di dissenso. Accompagna la comunità durante tutto il processo, guidandolo con grande sensibilità e assicurando che non sia né sbrigativo né pesante. Come è ovvio, non serve copiare dai documenti o dai progetti altrui; può essere utile vedere un modello di progetto per chiarirsi le idee, ma tocca alla comunità fare il proprio lavoro, che non è essenzialmente l’elaborazione di un testo, ma un processo di discernimento e di condivisione guidato dal direttore.

Il progetto non è prima di tutto un testo scritto, ma la convergenza della comunità sui traguardi da raggiungere e sulle misure da prendere per diventare ciò che Dio la chiama a essere. Quindi la comunità non mira tanto alla produzione di un documento, quanto alla partecipazione di tutti, all’ascolto reciproco, alla condivisione e alla convergenza; questi sono i veri frutti della progettazione.

Ciononostante c’è bisogno di un’elaborazione scritta, che sia come la memoria della comunità. Non è necessario che questo scritto sia preparato insieme da tutti; così facendo, si appesantirebbero gli incontri comunitari. È preferibile invece che il direttore chieda a uno o due confratelli di prendere nota durante le assemblee comunitarie e poi di stendere il testo da sottoporre alla comunità e all’approvazione del consiglio e da consegnare a ciascun confratello.

Anche se non viene proposto un modello particolare per l’elaborazione, il testo scritto dovrebbe segnalare i tre momenti del discernimento: la chiamata di Dio, la situazione della comunità e le linee di azione.

Dopo la sua elaborazione, il progetto comunitario diventa un punto costante di riferimento a cui ritorna ogni confratello e tutta la comunità. All’inizio dell’anno la comunità formula o aggiorna il progetto e lo specifica con la programmazione annuale. Poi la comunità si mette al lavoro per attuarlo. Periodicamente, il direttore ricorda alla comunità e ai singoli confratelli gli impegni assunti.

Tutta la comunità verifica e valuta il cammino del proprio progetto nel corso dell’anno e verso la fine. Ridurre la verifica solo alla fine dell’anno significa correre il rischio di non avere il tempo e la possibilità di apportare le opportune correzioni, rimuovere gli eventuali intoppi e dare una spinta per il raggiungimento dei traguardi. In questo modo il progetto non rimane un bel documento sulla carta, ma diventa un mezzo efficace per unificare la comunità e farla progredire nella sua vita e missione.

Da parte sua, ogni confratello cerca di armonizzare il progetto personale di vita con quello comunitario. Il progetto comunitario diventa perciò un punto di riferimento per il progetto personale di ognuno.

 

È stato detto che non riuscire a progettare è progettare di non riuscire! La progettazione comunitaria - conclude don Cereda - è una via comprovata dall’esperienza che aiuta a realizzare quella comunità di salesiani fratelli e apostoli che vorremmo vedere in ciascuna delle nostre case. La nostra comunità non è un “prodotto finito” per il fatto di essere costituito da un certo numero di confratelli, ma è un edificio in cantiere, un’opera d’arte in corso. E completarlo è l’impegno di ognuno di noi con fiducia, generosità e gioia.

 

E. B.