IN BURUNDI È SEMPRE GUERRA

PASQUA SOTTO LE BOMBE

 

Padre Gabriele Ferrari sx è da poco rientrato dal Burundi. Era ancora laggiù durante le feste pasquali e in questa corrispondenza da Bujumbura ci descrive la drammatica situazione in cui tuttora versa il paese.

 

Ormai il mio soggiorno in Burundi si sta concludendo: anche se questi ultimi si preannunciano molto tempestosi. Èdal giovedì santo che la città di Bujumbura vive sotto le minaccia delle bombe. Venerdì e sabato siamo stati bombardati di notte. Il boato delle bombe, preceduto da quel caratteristico lugubre fischio, mi fa sussultare e, di notte, mi sveglia e risveglia in me ricordi che credevo sepolti per sempre. Nel corso della seconda guerra mondiale ero un bambino di quattro anni, ma certi ricordi visivi e uditivi si sono ben piantati nella memoria e in certe occasioni rivengono a galla. Questa è una di quelle… I bombardamenti hanno fatto sempre dei morti e dei feriti e dei danni, anche se l’impressione è che si spara all’impazzata. E di notte, quindi, non si sa come difendersi o salvarsi. La radio ieri passava in rassegna le possibili soluzioni: dormire all’aperto, scavare dei rifugi sotto terra, costruire dei rifugi antibomba. Cose che fanno ridere. Ma non fa ridere vedere che l’esercito nazionale non riesce a far nulla per contrastare e impedire queste azioni militari, vigliacche e inutili. O forse non vuol fare nulla …il dubbio rimane.

Coloro che sparano sono gli uomini del FDD (Fronte di difesa della democrazia) che non hanno sottoscritto gli accordi di Arusha, ma che inizialmente avevano accettato un “cessate il fuoco”. Tirano dalle colline sopra la città e dal lago Tanganika. Rivendicano un’autonomia cui hanno diritto, e un potere che è stato loro strappato di mano nel 1993. Ma ora stanno rifiutando ogni dialogo…È difficile dire se hanno ragione a sparare, se è vero tutto quello che dicono. Ma neppure dalla parte del governo di Pierre Buyoya, in sostanza frutto di un colpo di stato militare del 1996, c’è tutta la ragione. Anzi! Così questa guerra va avanti dal 1993 quando è stato assassinato il presidente della repubblica Ndadaye, un hutu, il primo presidente eletto democraticamente. Dal 1998 sono cominciate delle trattative per cercare una strada di accordo che metta termine a questa guerra civile che ha già fatto oltre trecentomila morti. Esse hanno portato alla firma degli accordi ad Arusha (agosto 2000), che, come le trattative, sono stati in pratica imposti dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea. Essi tuttavia non sono stati firmati da tutte le parti e non sono interpretati da tutti nello stesso modo. Frutto di questi accordi è un governo di transizione di tre anni (trentasei mesi) in due periodi di diciotto mesi ciascuno, il primo guidato da un presidente della repubblica tutsi (il presidente Buyoya) con un vicepresidente hutu e un secondo in cui il vice-presidente diventa presidente con a fianco un nuovo vice presidente tutsi. Nel corso di questi tre anni una serie di riforme importanti dovevano essere fatte, in linea con il programma di democratizzazione del paese, tra cui quella delicata e necessaria dell’esercito, oggi a grande maggioranza tutsi. Si doveva inoltre firmare un vero «cessate il fuoco» con gli oppositori in armi. Ma la riforma dell’esercito è ancora tutta da fare… Quanto al «cessate il fuoco», lo scorso 3 dicembre 2002 ne è stato firmato uno con una parte belligerante, ma ne resta ancora un’altra che non ha firmato niente. Ora, per avere gli aiuti delle nazioni occidentali, si sta facendo finta che ci sia un vero accordo di pace, quando di fatto non c’è ancora neppure un «cessate il fuoco», tanto che in questi quattro-cinque mesi si è continuato a combattere. In più in un reciproco scambio di accuse si lamenta che non si mantengono i patti sanciti, con il risultato che le ostilità continuano.

Ora siamo arrivati alla fine della prima fase. Dopo aver cercato di tutto per restare al potere, finalmente l’attuale presidente Buyoya ha annunziato che rispetterà la data del 1 maggio prevista per l’alternanza e passerà il potere a Domitien Ndayizeye. Ora però i nodi vengono al pettine e bisognerà pur mettere mano alle riforme più difficili: la riforma dell’esercito, la fine delle ostilità e l’integrazione dei vecchi nemici. La parte che ha ripreso a lottare (FDD) si è unita a quella che non ha mai firmato nulla (FNL) per ricordare al governo presente e futuro che i problemi restano tutti in piedi. Questo è il messaggio delle bombe lanciate sulla città in questi giorni. È un modo, rozzo ma chiaro, di dire che il governo deve fare i conti con loro, che la guerra non è affatto finita, che bisogna continuare le trattative per raggiungere un vero “cessate il fuoco”, che anch’essi vogliono aver una parte nel governo di transizione.

Il rischio ora è che la gente esasperata chieda che il governo resti in mano a un militare (il vicepresidente attuale e futuro presidente è un civile) e che non si dialoghi più con gli assaillants i quali avranno così ulteriori ragioni per continuare a combattere. La povera gente, che è stufa morta di questa guerra, si trova sempre di mezzo e paga i conti, perché gli assaillants devono pur vivere e allora passano a farsi dare, volontariamente o per forza, viveri e soldi dalla gente, la quale, a sua volta, è poi accusata dall’esercito di collaborare con i nemici! Siamo a un impasse impossibile.

Il giorno di Pasqua nelle chiese è stata letta (quanti preti l’avranno letta?) una lettera dei vescovi in cui si chiede di applicare gli accordi di pace del 2000 e quelli del “cessate il fuoco” per prevenire ulteriori miserie al paese. Ma c’è e permane l’equivoco sulla verità degli accordi e del “cessate il fuoco”. La verità che nessuno osa dire è che i tutsi non possono immaginare di lasciare il potere: hanno tutte le ragioni di temere una vendetta degli altri, che di mali ne hanno visti tanti a causa dei governanti e dei militari. E quindi fanno di tutto per salvare il loro potere. A vista umana non ci sono soluzioni viabili per questa brutta situazione. In più ci sono gruppi di giovani disoccupati, assoldati dai vari partiti politici, i quali possono scatenare la violenza in città come negli anni 1995-96 di tristissima memoria. Sarebbe un altro bagno di sangue.

Ecco dove siamo ora. Credo che sia ovvio per chiunque che il momento è di una delicatezza estrema. I vescovi hanno chiamato i cristiani a pregare per la pace. E ce n’è ben donde. Ma perché ci sia la pace, bisognerebbe che la diplomazia internazionale si attivasse per portare il Burundi e soprattutto la classe politica a una realistica composizione della questione. La strada è una sola: la coabitazione, il più possibile pacifica, delle varie etnie, ma soprattutto la soluzione dei problemi sociali, ossia la distribuzione della ricchezza e del potere. Questo è il vero nodo del contendere. Dall’indipendenza (1962) in poi il potere è stato in mano a una oligarchia di tutsi e di baganwa (gente della famiglia del re del Burundi) e di alcuni hutu opportunisti che hanno occupato il potere, non permettendo a nessun altro di partecipare alla gestione economica e politica del paese. Bisogna trovare modi di convivenza e criteri di equità per condividere la «torta», che non è poi tanto grande, del Burundi. Bisogna soprattutto che tutti accettino dei compromessi e dei sacrifici, ma allora tutti, non solo certi, che sono poi sempre gli stessi.

La soluzione del problema non è per nulla semplice. Già alcuni mediatori (Nyerere, Mandela, Zuma) si sono dovuti rendere conto della difficoltà della materia e della complessità della situazione e soprattutto della difficoltà di far dimenticare un passato che è di esclusione e di repressione violenta di ogni tentativo di condivisione del potere. Ce ne sono stati almeno tre in questi ultimi trent’anni. Ce ne dovrà essere per forza ancora un altro?

 

Gabriele Ferrari, sx