SUPERIORI GENERALI SULLA RISTRUTTURAZIONE

VINO NUOVO IN OTRI NUOVI

 

Il rinnovamento della vita religiosa passa anche attraverso la ristrutturazione delle varie unità amministrative di un istituto. Condizioni, obiettivi, problemi, frutti

di un processo sempre più urgente e diffuso.

 

Uno dei problemi più delicati e urgenti che compaiono nelle agende di lavoro dei superiori maggiori di tanti istituti religiosi è sicuramente quello della ristrutturazione delle proprie unità amministrative (soppressione, unificazione, creazione di province, regioni, distretti, delegazioni, settori ecc.). A fine novembre, un centinaio di superiori e consiglieri generali si sono ritrovati insieme, a Roma, per condividere preoccupazioni, esperienze concrete, positive e negative, a questo riguardo. “Mi sembra – ha detto il presidente dell’Unione dei superiori generali, fr. Álvaro Rodríguez Echeverría, aprendo i lavori – che due parole chiave di ogni processo di ristrutturazione debbano essere vitalità e viabilità… lungi dall’essere un modo per aiutarci a morire bene, deve essere una spinta ad accrescere la vita e a dar vita”.

 

INTERROGATIVI

DEGLI SCOLOPI

 

Nell’incontro romano sono emerse forse più domande che risposte su questo problema. Se ne è fatto portavoce, in un certo senso, l’assistente generale degli scolopi, p. Annibale Divizia, parlando della riunificazione in corso in una sola delle loro quattro province attuali in Italia. Di fronte a ogni processo di ristrutturazione, ha esordito, deve esserci necessariamente un interrogativo di fondo: perché ristrutturare? Ci si muove in base a una domanda di senso, ci si pone seriamente alla ricerca di una maggior significatività della presenza e della testimonianza evangelica nella Chiesa e nel mondo, o non ci si muove piuttosto per ragioni puramente organizzative, in vista di una maggior efficienza operativa? “Si ha il coraggio evangelico, nell’analizzare il significato di tante nostre presenze, di interrogarci sul senso ecclesiale e apostolico delle stesse, superando la facile retorica sulla meravigliosa storia da raccontare?”. Dalla risposta a questo interrogativo un istituto sarà in grado di costruire o meno la sua storia futura. “Anche il più perfetto intervento di ingegneria istituzionale risulterebbe una inutile struttura, se essa stessa non diventasse segno visibile di una presenza ecclesiale e pastorale significativa”.

Naturalmente l’autorità legittimata ad avviare un processo di ristrutturazione non può che essere il direttivo generale di un istituto religioso. Ma è possibile, si chiede p. Divizia, “decidere senza una previa coscientizzazione dei religiosi coinvolti?”. E quando un processo del genere fosse osteggiato dalla base, fino a che punto si può forzare la situazione?

Una rifondazione, è stato detto, non è possibile senza “rifondatori”, non è possibile soprattutto senza una leadership culturale autorevole, anche se non è detto che questa leadership culturale corrisponda sempre con quella istituzionale. Senza una leadership, interna a una provincia da ristrutturare, gli interventi centrali potrebbero essere destinati in partenza alla sterilità; non ci si è mai interrogati a che livello sono arrivati “l’inedia ecclesiale, la stanchezza e la sfiducia e, Dio non voglia, quello spirito di sopravvivenza, di cui ogni tanto si sente parlare nei convegni o leggiamo su riviste specializzate?”. In uno stato d’animo del genere, di fronte a una imposizione che cala dall’alto, “non solo le resistenze aumenterebbero, ma anche i frutti sperati tarderebbero a farsi vedere”.

Sempre in questa prospettiva nascono allora altri interrogativi su come presentare il progetto di ristrutturazione, come avviare l’opera di sensibilizzazione, come dare spazio a coloro che, più volenterosi, sono positivamente disponibili ad avviare questo processo, come rapportarsi con coloro che fanno resistenza.

Il peso della storia delle province coinvolte in un processo di ristrutturazione è una difficoltà da non sottovalutare; questa difficoltà, ha confessato Divizia, “la stiamo provando proprio in questo periodo noi scolopi italiani”. L’esperienza insegna che i processi di ristrutturazione paiono più facilmente percorribili con province religiose di recente formazione; ma fino a che punto “possiamo seguire gli stessi criteri con quelle che hanno una lunga tradizione storica?”. Le resistenze si moltiplicano all’infinito, perché entrano in ballo valori aggiunti: la tradizione, il localismo, la presenza di istituti e opere con un “glorioso” passato. A tutto questo si aggiunge poi il fatto che “non pochi religiosi identificano l’incardinazione alla propria provincia, prioritaria rispetto alla loro appartenenza all’ordine o alla congregazione religiosa”. È allora inevitabile che una provincia venga considerata “più un ordine in periferia che una porzione dell’ordine”.

Altre difficoltà nascono dalla “ambiguità” con cui spesso viene percepito il processo di ristrutturazione. Da un punto di vista oggettivo è relativamente facile intuire la necessità di rivedere le vecchie strutture; basti considerare il calo inarrestabile dei religiosi, il loro invecchiamento, le nuove esigenze organizzative delle opere, la mancanza di vocazioni. Sono motivi più che sufficienti “a convincerci della giustezza di una simile operazione”. Di fatto, però, mentre per alcuni la ristrutturazione è vista come una chance, come una opportunità di rilancio e di rivitalizzazione del proprio istituto, per altri invece non è altro che un “riflusso da dismissione”.

Inevitabili allora tensioni e apprensioni sui futuri assetti istituzionali. “Si vorrebbe che tutto avvenisse per rafforzare l’opera o la comunità in cui il religioso vive mediante l’inserimento di altri confratelli, ma nello stesso tempo si rifiuta l’idea che essi stessi dovranno rendersi disponibili per andare dove l’obbedienza li invia”.

Prima di avviare il processo di unificazione delle quattro province italiane degli scolopi è stata avviata un’inchiesta, alla quale ha risposto ben il 95% dei religiosi interessati. Commentando le risposte, p. Luigi Nava, scelto come consulente dell’inchiesta stessa, ha commentato: “Tutti sono preoccupati per non allarmare gli anziani, probabilmente per tranquillizzare se stessi. Non emerge con sufficiente evidenza la convinzione che l’operazione non sarà senza costi. È auspicabile che la motivazione di chi è assertore del progetto di unificazione non nasconda una gattopardesca soluzione: unica provincia sì, a prezzo... dello status quo ante”.

 

RUOLO DEGLI

ANIMATORI VOCAZIONALI

 

Dal momento che la ristrutturazione è un processo e che quindi non si può realizzare tutto e subito, quali dovrebbero essere le priorità e la gerarchia degli interventi da privilegiare? Per p. Divizia non ci sono dubbi. Sarebbe molto rischioso partire dagli aspetti economici; è invece “cosa saggia” partire dalle case di formazione e dal tipo stesso di formazione in esse impartito. È infatti necessario sin dall’inizio sensibilizzare i novizi e i chierici a una possibile appartenenza diversa dalla provincia di provenienza. Ma è altrettanto importante, sin dall’inizio, “una chiara e ben definita visibilità della nuova struttura direttiva e di chi ne è responsabile”. Purtroppo gli “ibridismi” e le “compresenze” non possono che compromettere e vanificare il processo.

Anche se il processo di unificazione delle quattro province italiane degli scolopi è ancora un progetto sul quale si sta discutendo, sia pure con delle scadenze prefissate, è comunque già possibile parlare di frutti, in attesa ovviamente di una valutazione complessiva a processo compiuto.

Il primo importante frutto è quello di aver suscitato all’interno dell’ordine una vasta discussione, risvegliando sensibilità, creando entusiasmi, sollecitando riflessioni tutt’altro che “peregrine”. Partendo dal tema della ristrutturazione si arriva inevitabilmente a riflettere sulla natura stessa della vita consacrata. “Se è vero, osserva p. Divizia, che per qualcuno si è messo in moto un atteggiamento di paura e di rifiuto, per i più il tutto viene vissuto come un processo di rivitalizzazione della stessa professione religiosa”.

Poteva anche sembrare scontato, ma di fatto il gruppo che ha maggiormente colto l’opportunità offerta dal processo di ristrutturazione è soprattutto quello degli animatori vocazionali: “Il loro incontrarsi e il loro uscire dalle tradizionali strutture provinciali, ha reso possibile in questi ultimissimi anni un modo di lavorare diverso, più sistematico, più coinvolgente e quindi più efficace. E se ne vedono già i frutti. Sintomatico il fatto che in tutti i loro incontri il tema è sempre presente e la sollecitazione a proseguire rivolta ai superiori diventa sempre più pressante”.

Inoltre non è affatto da sottovalutare l’accresciuta disponibilità di alcuni religiosi per progetti interprovinciali. La scarsa consistenza numerica di tante province, tra gli scolopi – come in tanti altri istituti, aggiungiamo noi – rende infatti difficile, se non impossibile, progettare presenze nuove, più rispondenti alle istanze e ai bisogni di oggi. Unendo invece le forze, tutto potrebbe diventare più facile. “Nel mio ordine, afferma p. Divizia, non sarebbero state realizzabili presenze nuove in Africa, in India, nelle Filippine, in Bolivia, se non ci fosse stato il coinvolgimento di religiosi di diverse province”. Non si tratta semplicemente di avviare attività nuove; si tratta invece della “possibilità di ricollocare il carisma istituzionale in luoghi e con modalità ecclesialmente e pastoralmente più significative”.

Un ultimo frutto? In qualche modo è stato del tutto “insperato”; se, come leggiamo in Vita consecrata spetta ai religiosi il particolare compito di far crescere la spiritualità di comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella comunità ecclesiale (n. 51), “il processo di ristrutturazione in atto, servirà senz’altro a smuovere le acque che, nelle nostre comunità, rischiano di diventare stagnanti”. Perché non provare a prefigurare e anzi ad auspicare i benefici derivanti dal dialogo, dall’arricchimento reciproco, dalla capacità di armonizzare la comunione di fratelli e sorelle di età, lingue e culture diverse?

In attesa di vedere la piena fioritura di questi frutti, p. Divizia ha concluso osservando come tutti “siamo consapevoli che in questi decenni abbiamo vissuto una svolta epocale. Il mondo della globalizzazione ci interpella con le sue sfide. La Chiesa ne ha preso atto e dal concilio in poi ha compiuto grandi passi sulla via del rinnovamento ecclesiale per rendere profeticamente più efficace il suo impegno di servizio all’uomo. Gli istituti religiosi tradirebbero se stessi e il carisma dei loro fondatori, se restassero ancora chiusi all’interno delle loro vecchie strutture giuridiche, a volte obsolete, e non si impegnassero a vivere l’invito evangelico a mettere il vino nuovo in otri nuovi”.

 

LA NUOVA PROVINCIA

DEI MARIANISTI

 

E gli altri istituti come si stanno muovendo? Oltre agli scolopi hanno provato a dare una loro risposta anche i marianisti, i maristi, gli oblati di Maria Immacolata, i dehoniani e gli agostiniani.

Nel programmare un processo di ristrutturazione, ha esordito il superiore generale dei marianisti, p. David Fleming, occorre che sia percepito lo stretto legame tra rivitalizzazione e ristrutturazione; la semplice ristrutturazione non comporta necessariamente anche la rivitalizzazione. Solo di fronte allo sforzo di sviluppare una nuova vita si può giustificare la conseguente evoluzione delle strutture. In questi ultimi dieci anni i marianisti hanno varato l’importante unificazione di quattro delle cinque province statunitensi, dando vita ad un’unica provincia di 600 religiosi, hanno trasformato in regioni le due piccole province della Svizzera e dell’Austria-Germania e stanno procedendo alla ristrutturazione delle diverse province in Asia e Africa. Soprattutto in Europa e negli Stati Uniti si è trattato di un’operazione “inevitabile”, passando così, in un periodo di dieci anni, da 16 a 6 province e da 2 a 12 regioni. “Anche se non credo che il nostro processo di ristrutturazione sia un modello da riproporre ad altri, ha sottolineato p. Fleming, tuttavia è sicuramente un caso da studiare”.

Il tema della rivitalizzazione era stato dibattuto in un importante documento capitolare del 1996: Vino nuovo in otri nuovi, pensato come strumento per stimolare una fedeltà creativa dei singoli e delle comunità locali, una maggior efficacia apostolica e una più dinamica collaborazione da parte di tutti i membri dell’istituto; i punti cruciali ivi dibattuti erano sempre gli stessi: stretto rapporto tra rivitalizzazione e ristrutturazione, strutture più adatte alle mutate condizioni della missione attuale dei marianisti, rispetto della diversità di modelli e di processi di ristrutturazione, sussidiarietà e dialogo, facendo sì che la ristrutturazione fosse realmente “una scelta delle persone coinvolte piuttosto che una imposizione caduta dall’alto”.

Anche di fronte alla legittima domanda se tutti questi processi di ristrutturazione, che hanno trovato le loro maggiori resistenze in Europa, abbiano o no contribuito alla rivitalizzazione, alla rifondazione e a un fedeltà creativa dell’istituto, il padre ha giustamente risposto che è ancora troppo presto per dare una risposta convincente in proposito. È fuori dubbio comunque che in non poche regioni si è ridestato un senso di grande partecipazione dei membri nelle assemblee, insieme a una ricerca di nuove motivazioni e di ragion d’essere proprio come marianisti. In questo senso p. Fleming è convinto che la ristrutturazione abbia rivitalizzato tante situazioni, abbia sviluppato un maggior senso di responsabilità nel processo di inculturazione del proprio carisma, soprattutto nelle giovani regioni staccatesi dall’Europa e dall’America del nord.

“Posso dire, ha concluso, che abbiamo scoperto alla fine un intrinseco rapporto tra ristrutturazione e rivitalizzazione. Detto più chiaramente, la ristrutturazione da se stessa non porta alla rivitalizzazione; ma là dove c’è uno sforzo per sviluppare una nuova vita, le nuove strutture sono normalmente più facilitate a evolvere”.

La ristrutturazione amministrativa può favorire la rivitalizzazione a condizione, però, che i membri dell’istituto siano i protagonisti primi del processo e poi che il processo stesso abbia come fine non una semplificazione puramente amministrativa ma una riqualificazione della propria missione.

 

CAMBIATA

LA MAPPA DEI MARISTI

 

Anche per i maristi, passati da 44 a 26 province e da 14 a 5 distretti, è ancora presto per valutare globalmente il processo di ristrutturazione in atto da una decina d’anni. È certo comunque che con l’investimento di non poche risorse umane, spirituali e anche finanziarie, come ha detto il superiore generale Sean Sammon, questo processo “ha cambiato la mappa del nostro istituto e ha incrementato il carattere multiculturale e internazionale delle nostre unità amministrative”. Solo in corso d’opera “ci siamo accorti di quanto fossero obsolete certe nostre strutture”. L’ex superiore generale, fr. Benito, convinto assertore di questo processo di trasformazione aveva argutamente affermato: “Noi possiamo diventare tutti santi, ma senza la trasformazione delle nostre comunità e delle nostre strutture non otterremo la grazia di rifondare il nostro istituto”.

Fra i criteri più significativi tenuti presenti in vista della ristrutturazione i maristi hanno puntato sulla internazionalità, sulla prossimità geografica, sul coinvolgimento più ampio possibile delle persone interessate, sulla solidarietà da una parte e sul rispetto dell’autonomia dall’altra, sul dialogo fra tutte le unità e i religiosi dell’istituto. Soprattutto sono partiti dal presupposto che “la vitalità non si può garantire senza la viabilità, e la viabilità implica uno sguardo introspettivo all’interno delle nostre strutture e i conseguenti cambiamenti sul piano organizzativo”. Solo a processo avviato “si sono scoperte affinità prima insospettate; le barriere etniche e culturali non erano affatto così insormontabili come si pensava”.

Certo, la ristrutturazione è per natura sua un processo di lunga durata; la si può affrontare partendo non solo dalla “consapevolezza di attraversare un momento importante della vita dell’istituto”, ma anche dalla “piena assunzione delle proprie responsabilità nei confronti delle nuove generazioni di fratelli, per trasmettere loro il carisma del fondatore”. Senza una fedeltà creativa è difficile individuare e far decollare nuove strutture.

Anche alcune condizioni preliminari poste dal direttivo generale hanno avuto la loro importanza, come ad esempio la determinazione del minimo di religiosi per la formazione di una unità amministrativa: 30 per un distretto, 100 per una provincia; così come nessuna nuova regione o provincia avrebbe potuto decollare senza almeno il 40% dei fratelli sotto i 60 anni e la previsione di almeno due nuovi fratelli professi ogni anno.

Tuttavia non solo i criteri ma anche gli obiettivi di un processo di ristrutturazione devono essere chiari in partenza; e per i maristi gli obiettivi principali sono: diversità di forme di apostolato, serio coinvolgimento con i poveri, spinta missionaria, reale coinvolgimento dei laici nel proprio lavoro, cooperazione con la Chiesa locale.

Prima di ogni processo di ristrutturazione ogni marista dovrebbe porsi la domanda: “in che misura la nuova unità amministrativa può migliorare la qualità del nostro servizio, della nostra missione e della nostra vita comunitaria?”. Non solo, ma dovrebbe ancora chiedersi: “la nostra presenza, il nostro apostolato quale impatto sociale e religioso possono avere soprattutto nei confronti dei giovani di un paese particolare o di un gruppo di paesi?”. Sono tutte domande che il direttivo generale per primo deve aver chiaro in testa, dal momento che, come ha detto fr. Sammon, “solo coloro che salgono sulla montagna vedono bene l’orizzonte”. Senza, infatti, una visione di insieme “non si può realizzare un processo di ristrutturazione”.

 

“SCELTA DI VITA”

DEI DEHONIANI

 

Se è vero che il processo di ristrutturazione di un istituto si impone inevitabilmente, un po’ ovunque, per l’inarrestabile fenomeno dell’invecchiamento dei suoi membri, per i dehoniani, ha affermato il superiore generale, p. Virginio Bressanelli, è conseguente a una precisa “scelta di vita”, aperta a “cammini di crescita e di impegno nuovi, in accordo con il carisma di fondazione”.

Anche per i dehoniani, per tutta una lunga serie di motivi, il centro di interessi e le prospettive per il futuro dell’istituto si stanno progressivamente spostando dall’emisfero nord a quello sud, dall’Europa occidentale a quella dell’est e all’oriente asiatico. Di fronte alla preoccupante contrazione numerica dei religiosi (dal 1967 ad oggi si è passati da 3.255 a 2.400 membri), il direttivo generale si è trovato di fronte a un’alternativa: o “consolidare l’esistente”, investendovi tutte le possibilità, oppure “realizzare una politica di vita”, ridimensionando, sacrificando opere se necessario, al fine però di privilegiare, sulla base di un nuovo progetto apostolico e missionario, “la qualità della vita religiosa in relazione al carisma, alla spiritualità e conseguentemente alla formazione delle persone e delle comunità”.

Se finora era stato compiuto un lungo cammino per ridefinire la propria identità, adesso però non è più possibile sottrarsi a una serie incalzante di domande: “Che senso ha la nostra vita, la nostra presenza e il nostro servizio nella Chiesa e nel mondo?”.

La scelta della “politica della vita” è stata quasi una scommessa sul futuro, non ignorando però tutti gli aspetti positivi e negativi del passato. C’era già stata anche in passato, ad esempio nel 1960, proprio in Italia, una divisione di province, senza però un reale coinvolgimento dei religiosi interessati. “Alla luce di questo, ha detto p. Bressanelli, è sembrato importante dar vita a un processo di cambiamento, dando tutto il tempo necessario per una reale maturazione delle persone”, esigendo il consenso di almeno due terzi di tutti i religiosi coinvolti in processi di ristrutturazione. Solo sulla base di questi consensi il direttivo generale avrebbe potuto svolgere “il suo servizio di accompagnamento verso la meta definitiva”, non senza aver prima chiarito alcuni punti nodali: rispetto rigoroso della volontà dei singoli nella scelta della eventuale nuova provincia di appartenenza, garanzia di un consistente gruppo di religiosi nella nuova provincia, presenza di case di formazione, chiara prospettiva vocazionale in vista del futuro, garanzie sul piano economico e, soprattutto, chiaro progetto apostolico; proprio nel rispetto di queste premesse sono nate nuove unità amministrative in Africa e in America Latina. “Non è stato un cammino facile, ha osservato p. Bressanelli, anche perché secondo le nostre costituzioni era finora riconosciuta come entità giuridica soltanto la provincia”.

Fin dal capitolo generale del 1997 il direttivo centrale aveva elaborato con chiarezza il suo progetto sessennale di governo, di animazione e di comunione della congregazione attorno a questi temi essenziali: missione e missioni, impegno sociale, formazione iniziale e permanente, pastorale vocazionale, famiglia dehoniana, economia, governo, invecchiamento, politica della cultura, pastorale dell’educazione, inculturazione, battezzando questo progetto globale come “Noi congregazione al servizio della missione”. Spetterà al prossimo capitolo generale (maggio-giugno 2003) approvare o meno la nuova ristrutturazione della congregazione in tre tipi di unità o di figure autonome: provincia, regione, distretto.

Il direttivo generale pur essendo impegnato nella definizione delle nuove strutture come “frutto della vita che cresce, che si espande”, non ha comunque rinunciato alla trasformazione delle vecchie strutture. “Abbiamo visto che era necessario distinguere il nuovo dal vecchio; si tratta, infatti, di situazioni che vanno affrontate diversamente. Generalmente è più facile gestire il nuovo che non il vecchio”. Cambiano i modelli, le esigenze di fondo, sempre in vista comunque di una fedeltà creativa al carisma di fondazione; proprio questa fedeltà è il criterio fondamentale che deve ispirare l’adeguamento delle strutture, sia nuove che vecchie, alla propria realtà, alle possibilità e alla missione attuale dell’istituto nella Chiesa e nel mondo. “Non si tratta di una semplice avventura alla moda, ma di un rinnovamento più profondo che chiama in causa una nuova mentalità, la disponibilità per le opere del Regno, una trasformazione interiore anche del proprio cuore, indispensabile per progettare opere nuove”.

La gestione delle vecchie realtà, ha ribadito p. Bressanelli, “è ben più difficile che non la configurazione delle nuove”; spesso infatti si ha a che fare con “province venerabili”, protagoniste di tanto bene nella vita e nel governo dell’istituto, province che hanno “generato” nuove realtà che oggi si stanno però sviluppando in maniera decisamente più promettente di quanto non sappiano fare spesso le proprie “madri”.

Il primo obiettivo – ma anche, forse, il più problematico, aggiungiamo noi – è quello di “aiutare le persone e le comunità ad avere una chiara coscienza del momento attuale con i suoi limiti, le sue possibilità e il senso particolare che questa tappa della vita personale e della storia della provincia merita di mantenere. Vogliamo aiutarle a vivere, nella novità dello Spirito, in tutto ciò che di particolare e di specifico hanno in relazione alla nostra spiritualità e alla missione nella Chiesa e nel mondo. Crediamo che una congregazione che si definisce non per le sue opere, ma per la sua prospettiva spirituale, debba saper far emergere tutta la ricchezza e la fecondità apostolica richieste dal momento in cui viviamo”.

 

“IMMENSA SPERANZA”

DEI RELIGIOSI OMI

 

Da una decina d’anni anche gli oblati di Maria Immacolata sono alle prese con la ristrutturazione all’interno del proprio istituto. Concretamente, su un totale di 75 unità amministrative sono in atto complessivamente una ventina di processi di ristrutturazione che coinvolgono 45 unità. Il 75% dei giovani provengono sostanzialmente dal sud e dall’est europeo. In una decina d’anni c’è stata una diminuzione complessiva di 800 religiosi. Oltre all’invecchiamento drammatico in occidente “dove c’è sempre stata la più grande nostra forza e consistenza, ha detto il superiore generale, p. Wilhelm Steckling, abbiamo province troppo piccole”; attualmente l’istituto è numericamente sulle stesse posizioni del 1935, pur essendo però presenti nel doppio dei paesi (65) con il doppio di unità amministrative. Dal 1998 il capitolo generale ha fissato a 40 il numero minimo di religiosi per poter costituire validamente una nuova provincia, con un chiaro monito a tutte le unità più piccole a intraprendere un processo di ristrutturazione.

Nel corso dell’incontro p. Steckling ha illustrato brevemente i cinque modelli o scenari principali di ristrutturazione in atto nel suo istituto, fermo restando che in tutti i modelli c’è una fondamentale finalità comune, quella di rendere un servizio migliore alla missione dell’istituto nella Chiesa e nel mondo.

Il primo di questi modelli è definito, in un certo senso, il caso ideale per le piccole unità che si uniscono fra loro per poter formare una nuova provincia; funziona bene quando, staccandosi dalla provincia madre, ci si riunisce per ragioni cosiddette di “indigenizzazione”, alla ricerca di una nuova identità soprattutto africana o latino americana; è così possibile trovarsi di fronte a una provincia religiosa che include anche diversi paesi. Naturalmente l’unificazione diventa problematica quando hanno il sopravvento antiche diversità culturali o situazioni particolari legate alla storia passata delle diverse unità.

Il secondo modello è quello della riduzione di una provincia, non più in condizioni di sopravvivere in quanto tale, a una semplice delegazione. Le difficoltà nascono soprattutto quando è un’ex provincia a chiedere o a vedersi proposta l’integrazione come “delegazione” ad un’altra provincia più grande; in questi casi la prospettiva più praticabile è quella di far dipendere la “delegazione” in questione direttamente dal governo centrale.

Fortunatamente anche oggi sussistono casi di grandi province, terzo modello, dai 200 ai 500 religiosi ciascuna, in paesi geograficamente molto estesi o anche comprendenti diversi paesi. Questo è oggi facilitato dalle più ampie possibilità di comunicazione. L’esperienza insegna che in queste situazioni non solo è molto più facile trovare leaders, economi, formatori ecc., ma soprattutto ci sono le premesse migliori per rinnovare il proprio impegno missionario e per vivere l’esperienza della multinazionalità come una ricchezza vera e propria. Più del 40% degli oblati di Maria Immacolata, a processo concluso, faranno parte ormai di queste nuove grandi province. Naturalmente questo tipo di ristrutturazione necessita di un processo molto lungo. Soprattutto esige un grande lavoro alla base, dal momento che si tratta di creare una nuova provincia e non semplicemente di “procedere alla somma delle varie unità”.

In base al quarto modello poi è prevista la possibilità di un cambiamento della provincia madre; “questo cambio di guardia, scrive p. Steckling, può infondere nuove energie a una piccola missione come anche ad una unità madre”. Il cambio avviene per lo più quando l’antica provincia non dispone più del personale necessario al suo funzionamento. Anche se le province con molte vocazioni preferiscono a volte partire ex novo, in un paese nuovo, tuttavia anche il consolidamento delle unità esistenti può avere il suo significato e la sua importanza. Qui i problemi si possono più facilmente incontrare sul piano finanziario, “quando si passa da un patron ricco a uno più povero”.

Si pone, infine, anche il caso (quinto modello) di alcune province che umanamente parlando non hanno più alcuna possibilità di rinascere. Il problema allora lo si può risolvere soltanto con degli statuti speciali che consentono interventi adeguati in caso di necessità. Il direttivo generale è rimasto sorpreso della poca resistenza incontrata di fronte alla proposta di questi statuti speciali; evidentemente “ci si attendeva un intervento del governo centrale”.

Dando una valutazione complessiva del processo di ristrutturazione in atto nel suo istituto, p. Steckling è convinto di trovarsi di fronte a “una nuova spinta missionaria” in tutto l’istituto; non per nulla si è voluto battezzare questo processo con uno slogan significativo: “Immensa speranza”.

 

RESISTENZE “EMOTIVE”

TRA GLI AGOSTINIANI

 

Una delle esperienze forse più problematiche di ristrutturazione è stata quella vissuta dagli agostiniani con la unificazione delle 7 province italiane in una sola provincia, con il decreto del 6 gennaio 1996. Ognuna delle sette province unificate aveva una sua grande e gloriosa tradizione storica; esistevano infatti fin dalla fondazione dell’ordine (1256). Il punto massimo di vocazioni si è avuto nel 1967. L’anno seguente è iniziata la crisi con una incontenibile diminuzione di religiosi. Nel 1996, al momento dell’unione, la provincia più numerosa contava 54 membri e la più piccola solo 17 membri, con una media di età abbastanza elevata.

Fin dal 1948, con l’unificazione del noviziato, dei corsi di filosofia e di teologia, con una conseguente reciproca conoscenza dei giovani religiosi, si erano andate creando condizioni favorevoli a possibili successive unificazioni. Nel 1984 era nata la Federazione delle province agostiniane in Italia, il cui consiglio aveva potere deliberante e vincolante per tutte le province in ordine alla formazione iniziale (noviziato e professione), alla missione italiana in Apurimac (assunta in solido dalle province italiane nel 1968), e la promozione vocazionale.

Per capire meglio la sofferta ristrutturazione dell’ordine agostiniano è forse il caso di ricordare il fatto che, come ha detto p. Alessandro Moral Anton, “essendo di origine medioevale, l’ordine di sant’Agostino ha una struttura molto decentrata, sia politicamente che economicamente. Ogni provincia gode di una sua autonomia e le costituzioni demandano alle singole province tutto quello che riguarda gran parte della vita religiosa: vita spirituale dei membri, vocazioni, formazione iniziale e permanente, attività pastorali, missioni ecc. ”. È stata proprio questa autonomia a comportare di fatto tutta una serie di difficoltà proprio nel momento in cui si imponevano inevitabili cambiamenti per le mutate condizioni interne ed esterne all’ordine stesso.

Nel 1992 il governo centrale presenta al capitolo generale il suo progetto di unificazione delle province italiane; il motivo di fondo era dato da una generale precarietà in cui si erano venute a trovare le province stesse. Nello stesso tempo però c’erano tutte le premesse, un volta unificate le province, per pensare a un promettente rilancio della presenza agostiniana in Italia. Dopo aver vagliato tutte le possibili ipotesi di ristrutturazione, il direttivo generale ha optato decisamente per una sola provincia. A questo punto però il consiglio si è trovato di fronte a una duplice alternativa: o applicare alla lettera le costituzioni, proponendo d’autorità la soppressione delle province man mano che si venivano a trovare nella condizione di non poter più continuare, oppure avviare un processo che, con il diretto coinvolgimento di tutti i religiosi, “tutti responsabili di tutti”, s’era detto, potesse alla fine portare a una rivitalizzazione della presenza agostiniana in Italia. Il consiglio generale ha optato, senza esitazione, per la seconda soluzione, formalizzata definitivamente poi nel decreto del 1996.

Fatto forse non del tutto previsto è stata l’immediata organizzazione del “fronte del no”. Alcune province erano contrarie nella maggioranza dei propri membri; in altre, i contrari erano proprio i superiori provinciali. Per quali motivi? Un intervento giuridico non avrebbe sortito alcun positivo effetto senza un precedente cammino di rinnovamento spirituale. Com’era possibile, si diceva, cancellare dalla storia province cariche di storia e di tradizioni che risalivano ai tempi della fondazione dell’ordine, nel XIII secolo? Com’era possibile che dopo essere sopravvissuti a tanti tentativi esterni di soppressione, adesso si dovesse scomparire per volontà della propria curia generale? Se “la provincia è nostra madre, non possiamo permettere che venga uccisa”.

“Tutte frasi emotive, ha commentato il p. Moral, di grande effetto… Questi aspetti psicologici erano talmente forti da far temere a un certo punto una rottura”, soprattutto quando dalle reazioni emotive si è passati ai fatti con i ricorsi, prima alla Congregazione per la vita consacrata, poi alla Segnatura apostolica e infine al Collegio cardinalizio. La conseguenza più immediata di questi ricorsi, anche se tutti respinti, è stata purtroppo quella di “ibernare” la nuova provincia per due anni circa. “Come negare che dietro a questa battaglia giuridica si siano nascosti anni di sofferenza?”.

Da questo processo di unificazione la curia generale si era ripromessa “un cammino più spedito verso un futuro di speranza, una accelerazione delle iniziative, una maggior disponibilità interiore e un maggior entusiasmo per risolvere i problemi del personale”. Tutti questi obiettivi sono stati raggiunti? “Il cammino è stato molto più difficile del previsto, però l’ordine è soddisfatto di averlo portato a compimento. Se non si fosse realizzata l’unificazione, la situazione dell’ordine in Italia sarebbe sicuramente stata molto peggiore dell’attuale”.

È forse una conclusione che potrebbero sottoscrivere a piene mani anche tanti altri istituti religiosi. La ristrutturazione è oggi una via obbligata verso la rivitalizzazione, una variante irrinunciabile del processo di rifondazione, un cammino lungo il quale spesso l’Europa fatica più di altri paesi a ritrovarsi; è un tortuoso percorso a ostacoli. Il prezzo da pagare – in termini di persone, di opere, di strutture e anche di soldi – è alto, ma sicuramente, a detta di chi questo percorso lo sta compiendo o lo ha già concluso, ne vale la pena; rinunciarvi in partenza potrebbe configurarsi oggi come un grave peccato di omissione. La fedeltà creativa al proprio carisma di fondazione non lo può permettere, almeno per quanti, di fronte all’alternativa di una più o meno “dolce morte”, credono ancora in una possibile rivitalizzazione del proprio impegno apostolico e missionario.

 

Angelo Arrighini