INTERROGATIVI DOPO QUESTA GUERRA

STRAPPI DA RICUCIRE

 

Non ci troviamo di fronte a uno scontro tra civiltà_o a una guerra di religione, ma il rischio che la situazione degeneri verso questa deriva esiste. Bisognerà fare di tutto perché ciò non avvenga, rafforzando il dialogo e la collaborazione.

 

E ora, come fare a ricucire le lacerazioni che questa guerra ha prodotto? Come colmare il fossato che si è ulteriormente approfondito tra occidente e mondo musulmano? Come, soprattutto per la Chiesa, continuare a rendere credibile la sua volontà di dialogo e di pace, quando in molti continueranno, sia pure erroneamente, a identificare il cristianesimo con il mondo occidentale? Siamo di fronte a una guerra di civiltà e di religione?

 

SCONTRO

DI CIVILTÀ?

 

Sono interrogativi che pesano come macigni sul futuro che ci sta davanti. E non è facile per nessuno prevedere quali scenari si apriranno dopo questa guerra. In molti cercano di delinearli, ma per ora siamo ancora nel campo delle ipotesi. Certamente ci troviamo davanti a un futuro pieno di incognite. Come Chiesa e come cristiani c’è il rischio di essere trascinati in una perniciosa guerra di religione che azzererebbe tutti gli sforzi di dialogo compiuti con tanta pazienza e perseveranza in questi ultimi decenni.

La tesi secondo cui ci troviamo davanti a uno scontro di civiltà, tra occidente e mondo musulmano, soprattuto a partire dall’11 settembre, è sostenuta oggi da varie parti, anche se è troppo semplificatrice per essere sostenibile. Ma c’è chi ne è convinto.

Fra questi, per esempio, Samuel Huntington col suo libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (Garzanti, Milano, 1997) e Oriana Fallaci col suo famoso articolo La rabbia e l’orgoglio (Rizzoli, Milano, 2002). Huntington sostiene che l’islam, religione nata fra tribù nomadi di bellicosi beduini, ha glorificato le virtù militari e deve la sua fortuna a un’espansione politica realizzata a fil di spada; è una fede assolutistica, per nulla incline alla tolleranza. Avendo subito l’imperialismo e il colonialismo cova dentro di sé un forte rancore antioccidentale e attualmente è fonte di instabilità al suo interno e anche verso l’esterno.

Oriana Fallaci, con la sua rabbia e il suo orgoglio, ha inteso suonare la sveglia alla civiltà occidentale che lei vede minacciata dall’islam. Nel suo furore, rivolta agli occidentali, sembra volerli incitare a una Jihad (guerra santa) alla rovescia. Scrive infatti: “Intimiditi come siete dalla paura di andar contro corrente… abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite e non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta o dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra civiltà”.

Sono tesi estreme, ma non del tutto irreali. Il pericolo proviene non tanto dall’islam nel suo complesso, ma da quelle frange fondamentaliste, che continuano a guadagnare consensi, e che questa guerra sta spingendo verso una deriva sempre più radicale. Si tratta di una deriva che si salda con tendenze che vengono da lontano, ma che finora erano sempre rimaste ai margini, rifiutate dallo stesso mondo musulmano.

Forse è opportuno richiamare alcuni fatti. Senza riandare all’epoca delle crociate, che detto tra parentesi il mondo musulmano non ha mai dimenticato, si può partire dall’epoca del colonialismo del secolo XVIII, quando quasi tutti gli stati musulmani, ad eccezione della Turchia e dell’Iran, furono soggiogati dalle potenze occidentali cristiane. Il trauma che questi popoli sperimentarono con la perdita dell’indipendenza, e l’assoggettamento a potenze costituite da “infedeli”, per stare al loro linguaggio, fu a dir poco devastante. Essi allora ne cercarono le cause che furono individuate, a torto o a ragione, nella presunta infedeltà al vero islamismo nella sua purezza originale. Dio – come per analogia si legge nell’Antico Testamento a riguardo dell’infedeltà del popolo d’Israele all’alleanza – aveva perciò permesso che i musulmani ne subissero le dolorose conseguenze.

Interprete di questa tesi fu soprattutto il wahabismo, corrente religiosa nata in Arabia, che elaborò un progetto di società in cui le leggi fossero in piena conformità con la volontà di Dio. Per costituire quel modello di società bisognava però prima lottare per riprendere il controllo dei propri sistemi politici liberandoli dal dominio coloniale straniero.

Sulla scia di questa corrente si svilupparono i movimenti rivoluzionari, a carattere antioccidentale, e a renderli ancor più radicali cooperò la creazione dello stato d’Israele nel 1949 che fu vista come un pretesto degli stati occidentali per sgravarsi la coscienza dei crimini perpetrati contro il popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, scaricandone le conseguenze sulle popolazioni musulmane. Questo fatto accrebbe la convinzione che l’occidente, nonostante tutte le belle dichiarazioni, era fondamentalmente contro l’islam. Si giunse così alla guerra del 1967, terminata con la sconfitta disastrosa degli stati musulmani confederati. Su questo trauma si sovrappose poi la causa palestinese, una ferita aperta, e volutamente lasciata tale dagli stessi stati musulmani, che fomentò ancor più la convinzione che le popolazioni arabe fossero vittime di una colossale ingiustizia perpetrata in maniera cinica e ipocrita dall’occidente.

Nel 1979 appare all’orizzonte, in Iran, l’inquietante figura dell’ayatollah Khomeini che sembrò incarnare gli ideali di una rinascita musulmana. Molti gruppi musulmani ritennero di aver finalmente trovato la giusta risposta alle loro aspirazioni e guardarono a quell’esperienza con un misto di trepidazione e di speranza. Khomeini, in effetti, sembrò incarnare quell’ideale di purezza a lungo sognato, cercando di ripensare e riorganizzare ogni aspetto della vita sociale secondo i principi più puri dell’islam. Col suo ascendente carismatico divenne così un modello per gran parte del mondo musulmano, anche se ben presto le speranze andarono deluse.

La guerra del Golfo allargò ulteriormente il fossato, già ampio, tra mondo musulmano e occidente e in particolare con gli Stati Uniti, che furono visti come il “grande satana”, amici e partner del “piccolo satana” che è Israele a cui viene addossata la responsabilità dell’attuale situazione in medio oriente.

Su questi fatti si è poi sovrapposto nei tempi recenti l’impatto, problematico per l’islam, della cosiddetta modernità, una sfida difficile con cui presto o tardi dovrà confrontarsi.

Tutti questi fenomeni messi insieme spiegano la ragione per cui attualmente anche in seno agli stati musulmani più moderati trovano sempre più consenso le correnti radicali antioccidentali. Il fenomeno, per esempio, è ben visibile perfino nell’Africa subsahariana, dove l’islam è in forte espansione. La rivista Mondo e Missione del Pime, in un dossier, apparso nel numero di febbraio 2003, intitolato Conquista silenziosa, scrive che il continente “da qualche decennio (e in particolare dopo l’11 settembre) subisce le pressioni o correnti più radicali e ostili nei confronti dei non musulmani. Le difficile condizioni socio-economiche di molti paesi arabi, unite alle influenze esterne, specialmente dei paesi arabi, stanno creando il terreno per l’avanzata di un islam più ideologico e fondamentalista, più radicale e politico. Una nuova generazione di predicatori colti e arabizzati fa oggi concorrenza ai marabutti classici, tanto sul piano teologico che su quello della conoscenza della cultura e della lingua araba. Si moltiplicano le moschee e le scuole coraniche che contestano l’autenticità della pratica tradizionale e accentuano le tendenze più puriste… Gli esiti sono allarmanti. Sono innanzitutto gli stessi musulmani a sentirsi a disagio di fronte all’avanzata di una forma di islam che riduce progressivamente lo spazio di tolleranza e di accettazione reciproca, coltivato per secoli. È questo uno dei nodi problematici dell’incontro islamo-cristiano, costruito specialmente sul “dialogo della vita”che oggi trova nuovi ostacoli e si cimenta in nuove sfide”. La rivista cita anche i paesi dove questi fenomeni sono più tangibili: sono il Burkina Faso, il Mali, la Costa d’Avorio, il Senegal, il Kenia, la Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia, il Rwanda ecc.

Il fenomeno di un islam che si sta radicalizzando è avvertibile anche in diversi paesi asiatici come il Pakistan, l’Indonesia, nel sud est asiatico e in altre parti e purtroppo è diffusa la convinzione che occidente e cristianesimo siano la stessa cosa.

Questa convinzione apre allora l’altro interrogativo: c’è il pericolo che questa situazione degeneri in una guerra di religione?

 

LE RELIGIONI

PER IL DIALOGO E LA PACE

 

Il rischio c’è, anche se sono in molti a negarlo. Bisogna infatti fare bene attenzione prima di definire come scontro tra religioni conflitti le cui radici si trovano invece altrove. Paolo Naso, nel libro La rivincita del dialogo dell’editrice EMI, scrive che nel mondo si contano attualmente un centinaio di aree di conflitto ma, nella maggioranza dei casi, la ragione del contendere è di natura propriamente politica; tuttavia è possibile individuare una quarantina di scenari in cui è presente anche una dimensione etnico-culturale e quindi, spesso, “religiosa”. Per esempio, certamente è avvertibile una forte componente religiosa nelle tensioni tra buddisti e musulmani in Myanmar, Thailandia e Bangladesh, come anche negli scontri tra induisti e buddisti nello Sri Lanka o in seno al nazionalismo tibetano, oppure nei conflitti tra induisti e musulmani nell’Asia meridionale.

La componente religiosa è rilevabile anche in altre parti dove il conflitto mette di fronte cristiani e musulmani, benché in gioco ci siano tante altre ragioni: per esempio in Sudan, Egitto, Nigeria, Ciad, Tanzania, nelle Filippine del sud, nelle Molucche, a Timor est, in Etiopia e in Guinea ecc.

La Chiesa ha sempre rifiutato di abbracciare questa logica dello scontro e si è sempre sforzata di cercare le vie della riconciliazione, del dialogo e della pacifica convivenza. Il punto di riferimento della sua azione è quello che i padri conciliari hanno indicato nella dichiarazione Nostra aetate, dove si legge: “La Chiesa guarda con stima anche i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini… Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (3).

Su questa linea si è mosso tutto il pontificato di Giovanni Paolo II, il quale non si è mai stancato di invitare le religioni, e in particolare i musulmani, a incontrarsi per costruire insieme un mondo nuovo, solidale e pacificato. E su questa linea si sono mossi anche gli episcopati e le chiese locali. Sarebbe impossibile ricordare le infinite iniziative di dialogo promosse, a tutti i livelli, in ogni parte del mondo, compresa l’Italia, e i frutti che hanno portato. Fra quelle recenti di maggiore risonanza e di più alto livello, ci pare di dover ricordare il “Colloquio cristiano-islamico europeo” promosso dalla Conferenza elle Chiese europee (KEK) e dal Consiglio delle Conferenze episcopali dell’Europa (CCEE) nel settembre del 2001; il “Summit islamo-cristiano” che si è tenuto a Roma il 3-4 ottobre 2001 per iniziativa della Comunità di sant’Egidio, con la partecipazione di importanti personalità del mondo cristiano e islamico; oppure la giornata di preghiera per la pace ad Assisi, fortemente voluta dal papa, nella quale personalità di tutte le grandi religioni si sono trovate d’accordo nel denunciare ogni forma di violenza commessa “nel nome di Dio” e nel ripetere quello che è stato come il motivo dominante di quella giornata “mai più”; ossia mai più la violenza nel nome di Dio, mai più il silenzio delle comunità di fede quando vedono i loro fratelli e le loro sorelle servirsi del nome di Dio per perseguire strategie politiche violente e aggressive.

È su questo strada che bisogna continuare a muoversi. Come scrive ancora Paolo Naso: “Occorre lavorare per una rivincita del dialogo che è il presupposto di ogni convivenza. Non possiamo vivere gli uni accanto agli altri senza incontrarci, senza conoscerci, senza rispettarci e senza riconoscersi appartenenti a una stessa comunità civile… Non è un lavoro facile o irenico, come qualcuno crede”.

Alla nostra gente, frastornata da tutto ciò che sta avvenendo, bisogna far capire, qualunque sia lo sviluppo degli avvenimenti politici, come è stato detto nel summit di Sant’Egidio, che le religioni non consumano la loro eredità nell’odio, nel fomentare violenza, nel giustificare le contrapposizioni. E soprattutto che compito dei cristiani è di non stancarsi mai di promuovere il dialogo e la pace; che per disarmare e debellare il terrorismo e la violenza, è necessario individuare le cause che lo generano e il terreno su cui si sviluppano. Le religioni, di fronte alle sopraffazioni dei politici, hanno oggi la grave responsabilità, di cooperare a costruire insieme un mondo più giusto e solidale e ora di cercare di ricucire gli strappi che si sono prodotti nel mondo a causa di questa guerra.

A.D.