27 APRILE: FESTA PER DON ALBERIONE

CHIAMATO DAL FUTURO

 

“Gioite per il nostro fondatore” è l’invito che la Famiglia paolina rivolge a tutti per la beatificazione di don Giacomo Alberione. La sua figura testimonia una vita costantemente “protesa in avanti” e donata per dire con efficacia il Vangelo nei tempi nuovi.

 

Profeta della nuova evangelizzazione, creatore di un “impero editoriale”, leader dalle molteplici iniziative, uomo che seppe affrontare coraggiosamente le sfide del suo tempo. Con tali formule e altre simili “in varie circostanze si parlò di don Giacomo Alberione”. E “certamente egli fu anche questo, ma la sua vera identità, le sue sfide e l’eredità che ci ha lasciate sono ben altre”. Così leggiamo nel messaggio che il superiore generale della Società San Paolo don Pietro Campus rivolge ai lettori di Vita pastorale aprendo un dossier dedicato interamente alla ormai prossima beatificazione,1 con l’invito a rallegrarsi per l’evento “che allieterà la Chiesa il 27 aprile 2003”.

L’identità, le sfide che il venerabile Alberione nella sua lunga vita raccolse e quelle che lanciò nonché l’eredità che ha lasciato ai suoi e anzi alla Chiesa tutta sono, infatti, concentrate nel significato della proclamazione di lui “quale beato, modello di perfezione evangelica, degno di essere ammirato, imitato e pregato”.

Soltanto entrando profondamente in tale significato possiamo tutti scoprire ciò che gli appartenenti alla famiglia paolina – per la conoscenza avutane dal trasparire del suo rapporto con Dio, dalle sue parole scritte e parlate e dai suoi silenzi, dalle sue proposte esplicite e dalle sue prudenze – sanno molto bene: ossia “l’anima vera dalla quale promanano le opere”. Le quali, passate al vaglio della Chiesa come vi è passata l’opera di santificazione personale del nuovo beato, appartengono alle “opere buone” di cui il Vangelo dice che devono essere riconosciute dagli uomini affinché diano gloria al Padre che è nei cieli.

Come quella di molti “grandi” e di molti “piccoli” nello Spirito che hanno preceduto i chiamati alla santità, e non soltanto nella vita religiosa, la personalità di don Alberione ci si presenta come spiritualmente unificata, appunto, tra il suo essere e l’opera che ha ideato, curato e “rifinito” durante la sua lunga vita conclusasi Roma il 26 novembre 1971.

 

VOCAZIONE

PROVATA

 

Una fanciullezza e una prima adolescenza del tutto lineari erano state vissute dal ragazzo Giacomo Alberione, nato a San Lorenzo di Fossano (Cuneo) il 4 aprile 1884 e cresciuto col proposito di “farsi prete”: dando gioia ai suoi cari intenti con spirito cristiano alle cure della famiglia e al lavoro dei campi presso Cherasco (Cuneo) dove si erano trasferiti e buone speranze per il futuro ai superiori nel seminario di Bra, per la riuscita nello studio, le sue doti e per quanto in lui poteva dar prova di una reale vocazione al sacerdozio.

Ma aveva soltanto sedici anni quando dovette sostenere la dura prova di interrompere gli studi, rimandato a casa dal seminario pur senza motivazioni gravi, ma piuttosto – come scrive Domenico Agasso nel citato dossier – a causa di segni attribuibili a “un calo di tensione provvisorio e non raro per l’età”. Era la primavera del 1900 e oggi si può aggiungere, come accenna lo stesso Agasso, che quell’abbassarsi di tensione celava qualcosa di più profondo dato che in quel finire del secolo XIX “una cert’aria tirava anche nei seminari”; e forse proprio questo avevano capito, del giovane, dandone un giudizio positivo per la riammissione, nell’arcivescovado di Torino da cui dipendeva il seminario di Bra che lo aveva dimesso: all’interno di una questione di età, poteva esserci anche l’abbozzarsi di un pensiero autonomo sia pure col contributo di letture ritenute “disordinate” forse perché non integrate in un quadro formativo organico legittimato dall’istituzione.

Di fatto il giovane Alberione, sicuramente confortato dal secondo autorevole giudizio, rientra in seminario, da dove al termine di un normale e sereno itinerario formativo uscirà sacerdote il 29 giugno 1907. Ma non è il seminario di Bra: è quello di Alba, sede della diocesi alla quale appartiene Cherasco e città dalla quale doveva partire il suo destino futuro.

 

NELLA NOTTE

UNA LUCE

 

Era ancora sedicenne e concludeva il primo anno di seminario ad Alba, la notte del 1° gennaio 1901 quando, immerso nella preghiera con gli altri seminaristi e col popolo che in duomo chiudeva solennemente il giubileo del 1900, gli esplose nell’anima quella “luce-parola” che oggi si può dire conteneva il nucleo allora misterioso del carisma che avrebbe sostanziato il suo vivere Cristo e la sua azione per il Vangelo, nel “secolo nuovo” della storia per le cui sorti pregava.

L’avrebbe spiegato soltanto “molti anni dopo, parlando di sé in terza persona: “Si sentì obbligato a servire la Chiesa, gli uomini del suo secolo e operare con altri””: un obbligo che dopo i primi ministeri pastorali nella parrocchia e nella direzione spirituale ai chierici di Alba avrebbe presto iniziato a onorare guardando alle sfide proprie del suo secolo e coinvolgendo via via molti altri nella forma che gli sarebbe apparsa subito chiara, ovvero quella della vita consacrata.

Quella luce nella notte era stata per lui il lontano “primo momento, quello contemplativo”, a partire dal quale “si fa l’unità di vita. Momento carismatico fra tutti, dove il carisma coinvolge la stessa esistenza”,2 in un crescendo di tensione spirituale nella vita di grazia e nella necessità impellente di trasmetterne ad altri ed entro orizzonti sempre più ampi la carica di divina energia salvifica. Il concreto come l’avrebbero indicato a d. Alberione i segni dei tempi, tempi che come anche a lui già apparivano erano oltremodo bisognosi di Vangelo e, col Vangelo, di Gesù Via Verità e Vita.

 

DAL FUTURO

PER IL SECOLO XX

 

Era trascorso soltanto il primo decennio del nuovo secolo e i tempi, che già si manifestavano inquieti anche con la prima “guerra mondiale” e le prevedibili sue conseguenze per la fede e per i costumi, persuasero d. Alberione di essere segnati da una urgenza ineludibile, il cui nome cominciò a precisarsi nella sua mente forse anche prima che nel 1912 iniziasse la pubblicazione di Vita pastorale e un anno dopo ricevesse dal vescovo di Alba, Giuseppe Francesco Re, il compito di dirigere il settimanale diocesano Gazzetta d’Alba: esperienze che, supportate da assidua meditazione e intelligente studio teologico, assieme alla realizzazione della scuola tipografica “Piccolo operaio” (1914) lo portarono a compenetrarsi di quella urgenza dei tempi fino a comprendere chiaramente che si chiamava rapidità.

Gli divenne sempre più chiaro, infatti, che alla necessità di incrementare nel popolo cristiano la cultura religiosa – esigenza corrisposta anche da altri fondatori come ad esempio s. Giovanni Bosco – nel nuovo secolo si aggiungeva nell’intuizione carismatica di d. Alberione quella di potenziarla, e farla arrivare fino ai più lontani dalla fede, usando i mezzi più rapidi di comunicazione della Parola e delle parole che la fanno camminare: “affinché si diffonda e sia glorificata” (2Ts 3,1) come gli diceva l’apostolo Paolo suo tipico ispiratore.

 

I MEZZI PIU’ RAPIDI

E CON ALTRI

 

Lasciando agli studiosi del “carisma del fondatore” il compito di stabilire se questa nota caratterizzante, sembrerebbe in assoluto, il carisma di d. Alberione ne faccia un fondatore “con la F maiuscola”,3 possiamo tuttavia riconoscere alla “famiglia” da lui fondata in tempi nei quali i mezzi più rapidi non erano tutti all’orizzonte quel timbro tutto proprio di novità che avrebbe richiesto ai tanti altri e altre chiamati a operare con lui la decisione – leggiamo ancora in Domenico Agasso – “non a dedicarsi, ma a votarsi” facendo dell’allora chiamato “apostolato della stampa” “l’impresa della loro vita: come scrittori, giornalisti, tecnici della comunicazione, con gli strumenti che ci sono e con quelli che ci saranno”.

E gli strumenti dovevano essere i più rapidi nel tempo e insieme i più efficaci nel linguaggio, poiché d. Alberione vedeva, nella stampa e più tardi negli altri mezzi che oggi chiamiamo di comunicazione sociale, una funzione non solo direttamente evangelizzante ma anche indirettamente e di lontano “preparatoria”, se così possiamo dire, al Vangelo: nella capacità di “rivolgersi agli uomini e alle donne del nostro tempo parlando di tutto, così come Paolo apostolo all’occorrenza discorreva anche di sport andando in mezzo alla gente, rivolgendosi a dotti e indotti”; e di più: mostrando che realmente – per dirla con le parole del concilio – “nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dei discepoli di Cristo” (GS 1).

Altri e altre lo assecondarono presto, poiché non appena ebbe fondato, nel 1914, la Pia Società san Paolo, la fece seguire dalla Pia Società Figlie di san Paolo: nel 1915, ossia nello stesso anno in cui, quasi a dire che l’urgenza dei tempi nuovi era ormai entrata nel suo intimo, stampò il “libro programmatico La donna associata allo zelo sacerdotale”. Non era ancora e non poteva essere all’epoca la donna uscita interamente dal cono d’ombra della preponderante importanza maschile nella Chiesa ma già – e proprio nel doversi occupare di stampa – quella rappresentata, al di là della visione offerta dal libro, da donne considerate “non come ausiliarie e collaboratrici, ma co-protagoniste” quali la storia successiva le avrebbe fatte conoscere.

 

UN’OPERA

A RAGGERA

 

Il disegno di d. Alberione per il suo progetto fondazionale – che nel citato dossier il contributo di d. Giancarlo Rocca espone, nella necessaria densità ma seguendone con chiare puntualizzazioni il graduale realizzarsi – delineava un unico istituto dedito all’apostolato della stampa “composto di tre rami, maschile e femminile con voti e i cooperatori all’esterno senza voti, tutti alle dipendenze di un superiore generale”.

Tuttavia l’iter dell’approvazione ecclesiastica divenne lungo e complicato, non solo per le remore iniziali poste dalla Santa Sede, che nel 1921 in base al Codice di diritto canonico del 1917 gli consigliò di far approvare due istituti totalmente autonomi, ma pure per i ripensamenti dello stesso fondatore, a lungo fermo nel suo pensiero originario per cui soltanto nel 1941 la sola Società san Paolo ebbe l’approvazione di Pio XII; ma egli stesso nel 1924 aveva aggiunto alle prime due Società le Pie Discepole del divin Maestro, le quali nel suo pensiero “avrebbero costituito come una cerniera o anello di congiunzione tra i due rami, vivificandone l’opera con la preghiera e partecipando in maniera indiretta al loro apostolato”. E aggiunse nel 1936 – mentre si espandeva secondo le esigenze dei tempi la stampa “paolina” in libri e giornali, riviste e sussidi pastorali, e si affacciavano all’orizzonte la Sampaolo Film e Radio San Paolo – le Suore di Gesù buon Pastore (pastorelle) fondate ufficialmente nel 1938; nel 1957 le suore di Maria Regina Apostolorum per tutte le vocazioni (apostoline), l’anno successivo gli istituti secolari Maria ss. Annunziata e s. Gabriele arcangelo, concludendo il quadro fondativo nel 1959-60 con l’istituto Gesù Sacerdote per il clero diocesano.

Un’opera come a raggera si era dunque sviluppata dal nucleo iniziale, durante quei 46 anni, quasi a voler comprendere i più importanti aspetti di presenza apostolica della Chiesa nel mondo con le sue svariate e necessarie attenzioni e ministeri pastorali: per le singole persone e per le famiglie, per le società e lungo tutte le strade dove d. Alberione voleva che i chiamati/e come lui dal futuro si protendessero in avanti per portare a tutti nel loro tempo la luce del Vangelo.

 

IL SUO LASCITO

AUTENTICO

 

Ma che cosa può significare una vicenda fondazionale tanto lunga e complessa?

Non sono pochi oggi gli studi storici di paolini e paoline che ne illuminano le fasi, durante le quali sono intercorse, col compiacimento dei papi che in quei decenni si sono susseguiti e che apprezzavano gli istituti paolini e la persona del fondatore, le varie approvazioni della Chiesa e si è moltiplicato il numero degli appartenenti e delle comunità, in tutti i continenti, specialmente delle prime tre fondazioni e dei Cooperatori paolini. E c’è stato il Vaticano II, al quale d. Alberione era stato chiamato a partecipare e nella cui grazia aveva potuto rallegrarsi per il decreto Inter mirifica sugli strumenti della comunicazione sociale.

Secondo le conclusioni che d. Rocca trae dallo studio della fondazione sviluppatasi con difficoltà di vario peso, d. Alberione aveva alle origini “un progetto apostolico legato alla stampa e non voleva rompere questo quadro. In altre parole, non aveva un piano organico di fondazioni, che gli si sono sviluppate in mano mentre procedeva nel tempo. Inoltre, egli si era proposto di predicare il Vangelo, non una particolare devozione, dapprima tramite la stampa e poi con tutti i mezzi della comunicazione sociale. Da qui viene la sua convinzione che l’apostolato della stampa è una vera predicazione, alla pari di quella orale”, come sosteneva nel libro Apostolato stampa che è quasi un manifesto delle sue idee.

Era avvenuto che anche per il genio di d. Alberione si può dire ciò che la storia ha registrato di altri fondatori pur geniali e lungimiranti i quali non hanno potuto esprimere “compiutamente se stessi nella loro fondazione”, per cui possono esserci elementi della personalità del fondatore che non entrano nell’istituto per sua libera scelta, mentre altri elementi non entrano “per volontà della Chiesa, che si è opposta ad approvare l’istituto così come pensato dal fondatore”.4

Occorrerebbe poter dire infine quanto sia costata anche a d. Alberione quella nota di sofferenza che è propria a tutti i fondatori e le fondatrici e che è stata per lui l’attraversare faticoso quelle fasi: in termini di lavorio interiore alla ricerca fedele della volontà di Dio e nello sforzo di consentire ai suggerimenti della gerarchia ecclesiale, di sofferenza nel non riuscire a esprimere nella sua essenza il dono ricevuto e forse anche di umile dubbiosità circa la propria effettiva percezione delle caratteristiche di quel dono. Di sicuro sappiamo oggi che la sua venerabilità di beato scaturisce soprattutto da quell’anima profonda che ha armonizzato nell’adesione incondizionata a Cristo il suo essere e la sua opera e che è il suo vero prezioso lascito.

Zelia Pani

 

1_Lo leggiamo nel n.2/febbraio 2003, contenente un dossier di 18 pagine intitolato 27 aprile: don Alberione beato, con contributi di varia ampiezza che illustrano la vita del fondatore intrecciata con la sua molteplice e multiforme opera apostolica.

2_TILLARD J.-M.R., Carisma e sequela, Bologna 1978, 62.

3_L’espressione è di Sr. JEANNE D’ARC, il cui studio Les congrégations à la recherche de leur esprit (1967) è citato da G.Rocca in Il carisma del fondatore, articolo pubblicato in Claretianum 34 (1994)31-105 e ripubblicato a Milano (Ancora) nel 1998.

4_ROCCA G., Il carisma del fondatore, cit., 95-96.