RECENTE VIAGGIO IN
LIBIA E TUNISIA
AI MARGINI DEL MONDO
CRISTIANO
Libia e Tunisia, due paesi del Maghreb nei quali, insieme all’Algeria e al
Marocco, la Chiesa ha avuto una grande rilevanza nei primi secoli del
cristianesimo latino. Oggi, vivono nella precarietà.
“Saluto cordialmente i religiosi e le
religiose che costituiscono spesso il nucleo permanente della presenza
cristiana nelle vostre comunità. La loro fedeltà, radicata nella preghiera e a
volte vissuta in maniera drammatica, è un sostegno essenziale per il ministero
dei sacerdoti, come pure per i laici che desiderano vivere gli impegni del loro
battesimo. Invito dunque gli istituti di vita consacrata, nonostante le
difficoltà attuali, a mantenere e rinnovare la loro presenza tanto importante
nelle vostre diocesi”. È un passaggio del discorso rivolto dal papa, il 22
febbraio 2003, ai vescovi dei quattro paesi del Maghreb (Algeria, Marocco,
Tunisia, Libia) in visita ad limina in Vaticano. Ma già nel suo brevissimo
soggiorno a Tunisi, il 14 aprile del 1996, il papa aveva voluto ribadire la sua
riconoscenza verso tutte le persone consacrate, i religiosi e i laici che in
questi paesi “si adoperano con tanta generosità per i poveri, per i malati, per
le donne, per l’educazione dei giovani, con una fedeltà che a volte li conduce
fino al martirio”.
CRISTIANESIMO DI
IERI
E QUELLO DI OGGI
In un recente
viaggio con un gruppo di sacerdoti dell’Opera romana pellegrinaggi in Libia e
Tunisia, 18-26 febbraio, abbiamo avuto modo di verificare, in presa diretta,
quanto ancora oggi i religiosi e le religiose rappresentino realmente il
“nucleo permanente” della presenza cristiana in due di questi paesi
nordafricani.
È grazie anche alla
presenza delle diverse comunità religiose che diventa possibile oggi, come ha
detto ancora il papa, “valorizzare le ricchezze delle diverse tradizioni
spirituali che hanno nutrito la storia cristiana di questi paesi,
dall’antichità fino al grande slancio missionario degli ultimi due secoli”. A
Tunisi, incoraggiando il “servizio al vangelo” reso dai vescovi dell’Africa del
nord e dalle loro comunità cristiane, il papa aveva ricordato che proprio
“dalla Chiesa in questa regione provengono Cipriano, Perpetua e Felicita,
Agostino, i papi Vittore, Milziade e Gelasio e tante altre figure del
cristianesimo dei primi secoli”. In queste terre, come è risaputo, sono
arrivati molto presto i discepoli di san Francesco d’Assisi, di san Domenico,
di san Vincenzo de’ Paoli, a cui, peraltro, è dedicata la cattedrale stessa di
Tunisi. Sempre in queste terre sono nate le intuizioni missionarie del
cardinale Lavigerie e la spiritualità di Nazaret di Charles de Foucauld. “Fin
dalle sue origini, la Chiesa in Africa del nord è stata fonte di una grande
ricchezza spirituale per l’intera Chiesa. Oggi voi scrivete una nuova pagina
della storia di questa Chiesa, in un contesto molto diverso da quello che hanno
conosciuto i vostri padri nella fede: la pagina del dialogo e della
collaborazione fra credenti di religioni diverse”.
Nel suo breve
indirizzo al papa, il 22 febbraio u.s., l’arcivescovo di Algeri, mons. Enrico
Teissier, aveva osservato che le Chiese del Maghreb si sentono un po’ “speciali”;
l’impressione di vivere “come ai margini del resto del mondo cristiano” è
forte; se hanno avuto una grande rilevanza nei primi secoli del cristianesimo
latino, oggi quasi tutti gli abitanti di questi paesi sono musulmani; le
comunità cristiane rappresentano generalmente meno dell’1% degli abitanti della
regione; i cristiani originari di questi paesi sono molto pochi; quasi tutti
provengono dall’Europa, dall’Africa sub-sahariana, dal Medio Oriente
(soprattutto in Libia), dall’America latina e anche dall’Estremo Oriente; basti
pensare ai numerosi filippini presenti in Libia come tecnici e infermieri.
Una radiografia
ampia e precisa delle condizioni della Chiesa in questi paesi nordafricani è
stata redatta dai vescovi del Maghreb in occasione del giubileo: “Le Chiese del
Maghreb nell’anno 2000”,1 una specie di “pellegrinaggio interiore” all’interno
delle loro Chiese; il tentativo di comprendere la storia comune di questi paesi
voleva essere “un atto di speranza per l’avvenire”. Attraverso una rilettura
storica che individua nella “decolonizzazione” e nel concilio Vaticano II “i
due avvenimenti che hanno contrassegnato i paesi e le chiese del Maghreb”, il
documento parte dalle “ambiguità” presenti nella storia della Chiesa, chiedendo
perdono per “tutti i malintesi, le leggerezze e i giudizi sbagliati” che
l’hanno vista come protagonista. “L’immagine attuale delle nostre chiese,
scrivono, è molto diversa da quella che presentavano al tempo della
colonizzazione”; allora si trattava di chiese molto strutturate, con grandi
opere da gestire, quasi una società nella società.
Dopo l’indipendenza
“il paesaggio è progressivamente cambiato”. La maggior parte delle opere sono
state pian piano requisite dai nuovi governi. Il numero dei fedeli è diminuito;
la loro origine si è ulteriormente diversificata e la loro presenza in genere
abbreviata. Il nucleo più stabile, composto da sacerdoti, religiose e pochi
laici cha hanno dei legami particolari con i nostri paesi “formano attualmente
comunità molto piccole, sparse in diocesi territorialmente molto estese”; le
attività strettamente ecclesiali sono ridotte, i legami fra le diverse comunità
disperse sono difficili a causa delle distanze che le separano, il tessuto
ecclesiale è necessariamente allentato fino a sentirsi “una Chiesa con pochi
fedeli ma per un popolo”; “la nostra piccolezza e la precarietà della nostra
situazione non ci permettono di occupare un grande posto nelle nostre società;
ma proprio per questo, questi due elementi diventano segno della gratuità
dell’amore di Dio per i nostri popoli”.
RICCHEZZE
ARCHEOLOGICHE
La precarietà di
questa situazione l’abbiamo potuta costatare di persona in occasione proprio
del nostro viaggio; il suo scopo immediato era anzitutto quello di verificare
la sussistenza o meno delle condizioni per poter organizzare, in particolare in
Libia – dove ci siamo soffermati più a lungo – eventuali percorsi
culturali-religiosi per i gruppi dell’Opera romana, alla riscoperta delle
origini della Chiesa in alcuni paesi dell’Africa del nord.
Le offerte
archeologico-culturali della Libia sono straordinariamente ricche; dai siti di
Leptis Magna e di Sabratha nei pressi di Tripoli a quelli di Cirene, di
Apollonia e di Tolemaide nella Cirenaica, è un susseguirsi continuo non solo di
suggestivi reperti archeologici dell’espansione romana ma anche di eloquenti
testimonianze del cristianesimo dei primi secoli della Chiesa.
Le distanze enormi
tra una località e l’altra – la Libia ha una superficie tre volte e mezzo
quella dell’Italia, con soli cinque milioni di abitanti, dei quali quasi la
metà concentrati nella capitale di Tripoli – non ci hanno consentito neanche
una fugace tappa nel deserto. Il turismo di massa, in Libia, non esiste ancora;
oltre ad alcune grandi strutture alberghiere statali e alle discrete condizioni
delle grandi arterie di comunicazione, per quanto riguarda l’accoglienza non si
trova molto di più.
Non mancano evidenti
segni e premesse di una volontà di rilancio sul piano turistico; ma per tanti
versi, per chi ha interessi specifici sul piano archeologico-culturale e per
chi sa adattarsi agli inevitabili disagi di una realtà in via di sviluppo, la
situazione attuale offre un impatto straordinariamente istruttivo e suggestivo.
Fa una certa impressione, in Libia, anche nelle zone archeologicamente più
ricche, l’assenza quasi totale di visitatori (nelle due ore trascorse nello
straordinario sito archeologico di Leptis Magna abbiamo incrociato solo altre
due persone!)
LA PRESENZA
CATTOLICA
Il nostro viaggio,
trattandosi di un gruppo di sacerdoti, si proponeva, naturalmente, anche altre
finalità; sia in Libia che in Tunisia, abbiamo incontrato i responsabili di
alcune comunità cristiane e di alcune comunità religiose; purtroppo è mancato
l’incontro con i vescovi delle due diocesi libiche (Tripoli e Bengasi) e di
quella di Tunisi, impegnati appunto, proprio in quei giorni, nella visita ad
limina in Vaticano.
Un grande
apprezzamento per l’opera assistenziale ed educativa svolta dai religiosi e
dalle religiose, l’esperienza veramente “cattolica” delle celebrazioni
eucaristiche domenicali, la complessità del rapporto con il contesto islamico,
sono alcuni tra gli aspetti più significativi e problematici che abbiamo potuto
cogliere sia in Libia che in Tunisia.
In Libia in
particolare è vivamente apprezzato il lavoro delle poche religiose “italiane”;
ne sarebbero state richieste addirittura duemila; avrebbero tutte le porte
aperte negli ospedali, nell’assistenza in particolare agli handicappati, nella
cura degli anziani e degli ammalati nelle famiglie. L’unico vangelo che possono
predicare è quello della carità, della solidarietà, della attenzione nei
confronti delle categorie di persone socialmente più emarginate; questo vangelo
lo vivono e lo incarnano nell’assoluto rispetto della religione islamica, senza
alcun scopo, esplicito o recondito, di proselitismo. Non è facile, certo, far
comprendere in questo contesto la loro scelta della verginità, un “non-senso”
secondo i parametri sociali e religiosi dell’ambiente in cui vivono.
Per loro come per
tutti i (pochi) sacerdoti e religiosi, soprattutto in Libia, uno dei momenti
più attesi e religiosamente vissuti è la celebrazione eucaristica domenicale,
una celebrazione veramente “cattolica”, ci diceva un religioso Oblato di Maria
Immacolata, responsabile della attuale e periferica cattedrale di Tripoli
(quella più antica, solenne e centrale, attualmente in restauro, è stata
trasformata in moschea). Ogni domenica i fedeli che partecipano alla messa
provengono da una quarantina di nazionalità diverse e, soprattutto nelle
solennità principali, le messe vengono celebrate anche in nove-dieci lingue,
compreso ovviamente l’italiano; ma molti dei nostri connazionali, ci è stato
detto, si distinguono, purtroppo, soprattutto per la loro assenza.
Grazie alle
relazioni diplomatiche esistenti tra questi paesi e la Santa Sede, è assicurata
la libertà di culto all’interno di poche e ben determinate chiese (in Libia
sono solo due, una a Tripoli, l’altra a Bengasi, sedi anche dei rispettivi
vicariati apostolici, in Tunisia ce n’è qualcuna di più). Fuori, non è permessa
nessuna opera di evangelizzazione. Da quanto abbiamo potuto comprendere, non si
tratta solo di un divieto formale ed esplicito, quanto piuttosto di una piena e
quasi “scontata” consapevolezza di quello che, di fatto, nel campo della
evangelizzazione, un certo ambiente ti consente o non ti consente di fare.
IL DIALOGO
NEL VISSUTO
QUOTIDIANO
Il papa e i vescovi
del Maghreb non perdono occasione per riaffermare l’importanza del dialogo
interreligioso con la realtà islamica di questi paesi. Il rapporto con i
credenti dell’islam, aveva detto il papa a Tunisi, parlando ai vescovi, occupa
un posto del tutto particolare: “voi fate spesso l’esperienza della
vulnerabilità del piccolo gregge e a volte sopportate prove che possono
giungere fino all’eroismo”; nonostante le difficoltà e le incomprensioni
“andate incontro ai vostri fratelli e alle vostre sorelle senza distinzione di
origine e di religione”. Sapendo che per molti missionari e per tante comunità
cristiane “la via difficile e spesso incompresa del dialogo” è “l’unica maniera
di rendere sincera testimonianza a Cristo e generoso servizio a all’uomo”, il
papa li ha incoraggiati “a perseverare con fede e carità” anche là dove spesso
gli sforzi “non trovano accoglienza e risposta”. L’incontro con i musulmani
deve andare “al di là di una semplice condivisione di vita”; deve assumere
anche le forme di una “autentica collaborazione”.
Ma parlando
direttamente con i responsabili delle comunità cristiane in questi paesi è facile
accorgersi della reale complessità del “dialogo” nel vissuto quotidiano. Nei
nostri incontri abbiamo cercato di capire come mai si rinunciava quasi in
partenza anche solo ad un essenziale e prudente “primo annuncio” del messaggio
cristiano; giustamente, ribaltando la domanda ci è stato chiesto come mai un
analogo “primo annuncio” di fatto non esiste neanche da parte nostra nei
confronti dei tanti immigrati di religione islamica in Italia, dove non
sussistono tutti i condizionamenti ambientali, culturali e religiosi tipici dei
paesi che stavamo visitando.
Come mai, ci è stato
chiesto ancora, in Italia ci preoccupiamo soltanto di garantire un posto di
lavoro, un salario, magari una casa e nulla più; perché non ci si prende cura
anche di tutti gli altri aspetti della vita di questi immigrati, dei loro
bisogni esistenziali più profondi, ai quali forse proprio la religione
cristiana potrebbe dare una significativa risposta. Gioia e sofferenza insieme,
questi gli stati d’animo che ci è sembrato di cogliere in questi nostri
incontri: gioia di poter comunque testimoniare nelle opere il vangelo della
carità, sofferenza di dover forzatamente rinunciare a motivare apertamente le
ragioni della speranza cristiana che è in loro.
Angelo
Arrighini
1 Regno-documenti,
7/2000.