PER UNA CAPACITÀ DI FUTURO

LE PRIORITÀ DEI PAVONIANI

 

Il capitolo celebrato la scorsa estate si è mosso a partire dall’icona evangelica del cieco Bartimeo e da un riferimento costante al fondatore, per giungere a progettare il futuro ed essere segno convincente nella Chiesa e di fronte al mondo.

 

Ravvivare la qualità della vita spirituale; realizzare nel quotidiano il paziente passaggio dall’io al noi; riprogettare per continuare ad essere segno: sono i tre grandi obiettivi che si sono proposti i pavoniani (Congregazione dei Figli di Maria Immacolata) celebrando l’estate scorsa il loro XXXVII Capitolo generale e le linee su cui intendono ora procedere. Questi obiettivi sono stati raccolti e formulati in un documento redatto al termine del lavori, approvato dai capitolari e consegnato ai membri dell’istituto a firma del superiore generale p. Lorenzo Agosti.

Il documento è tutto centrato sul brano evangelico del cieco Bartimeo (cf. Mc 19,46b-52): il suo stare lungo la strada, il suo grido insistente per una guarigione, l’accoglienza misericordiosa da parte di Gesù, l’azione salvifica del Figlio di Dio. Alla luce di queste indicazioni, il superiore generale invita la congregazione “rivisitare il passato come fondamento del nostro essere, a vivere il presente come occasione di grazia per affrontare il futuro con atteggiamento sapiente”.

Il primo obiettivo consiste nel ravvivare la qualità della vita spirituale. Rileggendo l’esperienza del cieco Bartimeo si possono cogliere alcune utili indicazioni; innanzitutto l’esperienza personale con Cristo che si nutre con l’ascolto attento della Parola. La strada è il luogo abituale di tanti mendicanti così come lo è stata per Bartimeo, cieco, seduto ai margini solo, ad attendere una guarigione: l’unico mezzo che possiede per richiamare l’attenzione è la voce, il suo grido disperato. E Gesù se ne fa carico fino in fondo. “Di fronte a uomini e donne che per la loro situazione di bisogno non possono sperimentare in modo gioioso la benevolenza di Dio, Gesù si sente fremere, si lascia sconvolgere interiormente, si manifesta come autentico sacramento della misericordia”.

Ed è proprio di fronte a situazioni di sofferenza, di emarginazione, di abbandono, di solitudine che il beato Ludovico Pavoni si sente chiamato in causa per rispondere a tutte quelle realtà bisognose di salvezza; la sua intuizione carismatica come risposta ai voleri della divina provvidenza che sempre veglia ai bisogni della povera umanità. L’attenzione alle povertà emergenti, la capacità di lettura dei segni dei tempi da parte di Pavoni lo porta a farsi carico di alcune situazioni, in particolare della realtà giovanile, “condividendone le ansie e prospettando soluzioni ai loro problemi di inserimento sociale e promozione umana e religiosa”.

 

RECUPERARE

LA VERA IDENTITÀ

 

Pavoni ha intuito che, di fronte a situazioni di emarginazione in cui si trovavano tanti giovani, bisognava rispondere con la stessa carità evangelica di cui Gesù si è fatto nostro maestro: “Solo una lettura evangelica della storia ci rende attuali ed efficaci”, ed è attraverso questa lettura della Parola di Dio, letta, meditata e compiuta comunitariamente che si ha l’opportunità di sentir riecheggiare quel grido insistente della povera umanità che ancora continua ad essere presente nel nostro mondo. Appare dunque importante recuperare, singolarmente e comunitariamente, “l’assidua meditazione della parola di Dio per condividerla e a mettere in comune la propria esperienza di fede”. Ed è solo attraverso questa esperienza forte di condivisione della fede che è possibile recuperare la vera identità della congregazione senza correre il rischio di scoprirsi ai margini o fuori dal corso degli eventi attuali: “Siamo dunque invitati a riproporre con coraggio l’intraprendenza, l’inventiva e la santità del nostro fondatore come risposta ai segni dei tempi emergenti nel mondo di oggi”.

Ma quale lo spirito che ha accompagnato l’intuizione e la missione di Pavoni? Qual è la spiritualità che sorregge la congregazione da lui fondata? Se si volesse essere sintetici possiamo dire che il programma di vita è quello proposto e vissuto da san Paolo: “La fede che opera per mezzo dell’amore, cioè crescere come persone che sanno fiduciosamente affidarsi alla provvidenza per diventare provvidenza per gli altri; persone in umile ascolto della Parola e aperte ad accogliere il grido della povera umanità, specialmente delle esigenze dei giovani d’oggi; persone ricche di speranza e di fiducia nei nostri fratelli e nei ragazzi che il Signore ci manda, per costruire per loro con loro un futuro migliore; persone semplici e laboriose, disposte ad accogliere e a condividere i problemi del mondo dove l’obbedienza ci ha posto; persone dotate di creatività e di intraprendenza, di passione educativa, di carità industriosa; tutto questo non è una spiritualità già compiuta, ma si plasma nella quotidianità a partire dall’esperienza di fede”.

Perché questo stile di vita diventi sempre più vicino all’intuizione del fondatore – scrive il generale – bisogna che sia vissuto comunitariamente e non solo come singoli individui. Pur riconoscendo a volte una certa stanchezza fisica, un certo senso di smarrimento, un logoramento emotivo, tuttavia l’impegno per tutti deve essere quello di scoprire sempre la propria identità di consacrati, scegliendo i “piccoli, i giovani e i poveri, servendoli direttamente e personalmente”. Ciò che deve essere centrale per tutta la congregazione è trovare sempre il giusto equilibrio “tra preghiera comunitaria e personale, tra attività apostolica e contemplazione”; equilibrio che non è mai un dato acquisito, ma richiede continuamente uno sforzo da parte di tutti per testimoniare nella chiesa l’amore verso i più poveri e bisognosi.

 

COMUNITÀ

LUOGO DI CRESCITA

 

Il secondo obiettivo è di realizzare nel quotidiano il paziente passaggio dall’io al noi; se la congregazione è la nuova famiglia di Gesù, fatta di incontro tra persone che si offrono reciprocamente attenzione e ascolto ne deriva l’importanza e l’urgenza di vivere continuamente nella logica della comunità dove emerge un nuovo modello di vita da imitare: “Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi”, modello di vita vissuto in prima persona dal Figlio dell’uomo che “non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Dunque la logica della famiglia di Gesù non è di chi pretende un servizio, non è centrato su di sé, sui propri bisogni, su ciò che fa più comodo qui e ora per se stessa, ma tutto orientata al dono, ad un servizio autentico e gratuito, senza nessun tornaconto, è la logica della spoliazione: deporre l’uomo vecchio e rivestire l’uomo nuovo; Pavoni aveva così intuito la sua famiglia religiosa che si deve preoccupare di “manifestare il volto provvido e misericordioso di Dio Padre ai trascurati figli della plebe”.

Ciò che deve sostenere – scrive il generale – la nostra famiglia è lo spirito di comunione che ci fa condividere ideali, capacità, doni spirituali e beni materiali e dove tutti si riconoscono “accolti e accoglienti, integrati e integranti; la famiglia rappresenta per ciascuno lo spazio salvifico per eccellenza. Crescere come sacra famiglia con i giovani emarginati non rimane una pur efficace risposta sul piano operativo a un’emergenza socio-pedagogica, ma acquista al tempo stesso una valenza teologica: rende visibile l’irruzione del Regno e manifesta i tratti paterni del Dio di questo Regno”.

Non si possono tuttavia nascondere difficoltà che si vivono all’interno della famiglia e che fanno parte dell’esperienza comune: “Difficoltà ad esprimere sentimento di affetto, di stima, di gioiosa appartenenza alla nostra famiglia, come pure manifestare sensi di solitudine, di paura, di inadeguatezza: in definitiva – scrive il generale – riconosciamo la fatica di sostenerci e di aiutarci reciprocamente. Constatiamo anche il rischio di una gestione individualistica del lavoro, che porta ad operare in eccessiva autonomia, dimenticando che ogni attività sorge sempre da un mandato della comunità”.

Fermo restando il valore della comunità, come luogo di crescita per ciascuno, è fuori dubbio che per crescere sempre più come famiglia di Dio ha bisogno di un continuo cammino di conversione per riscoprirsi ogni giorno luogo dell’ accoglienza e dell’ascolto, luogo dove si professano e si vivono i consigli evangelici come adesione a Cristo povero, casto e obbediente. È importante allora che ciascuno si impegni e dia il proprio contributo per la costruzione della comunità superando, con decisione, ogni forma di individualismo. L’impegno deve essere anche impegno della comunità in quanto tale: a lei è chiesto di creare le condizioni per rendere credibile e vivibile uno spazio di relazioni e di comunicazioni, a partire dalla fedeltà a un incontro comunitario settimanale aperto periodicamente anche ai laici. Viene chiesto anche di riscoprire la dimensione comunitaria dei voti come espressione dell’indivisa appartenenza a Dio e alla chiesa. Da parte sua la congregazione si deve impegnare “a favorire il senso di appartenenza all’istituto, promuovendo una conoscenza sempre più ampia delle nostre realtà, per giungere ad una stima più cordiale delle persone e ad una collaborazione più fattiva nelle attività”. Si dice inoltre che è importante non smettere mai di porre attenzione ai vari bisogni e alle sfide di oggi elaborando comunitariamente modalità di ascolto e di risposta.

 

DISCERNIMENTO

E PROGETTUALITÀ

 

Il terzo obiettivo che il generale ha proposto consiste nel riprogettare se si vuole continuare ad essere segno. A partire dall’esperienza di fede del cieco Bartimeo si coglie la proposta del Regno offerta da Gesù come liberazione, guarigione e integrazione nella società. Tutti i miracoli di guarigione propongono sempre questo cammino di liberazione dove a volte la guarigione diventa vocazione a una sequela. Pavoni “apprese da Gesù la valenza terapeutica e trasformante del contatto amorevole, anche fisico, con le persone: il bacio in fronte o delle mani erano gesti che intendevano veicolare ai suoi ragazzi un messaggio di profonda stima e di grande affetto. Libero da atteggiamenti colpevolizzanti e precursore di una pedagogia basata non tanto sul vigore quanto piuttosto sull’accoglienza incondizionata, sapeva avvolgere ognuno nel fascio di luce del suo ottimismo”.

Dunque la sua grande preoccupazione e la preoccupazione di oggi deve essere quella di coniugare insieme l’evangelizzazione e la promozione umana cercando sempre di trovare risposte adeguate, nel territorio dove si vive, attraverso un discernimento ecclesiale per una progettualità sostenibile. Questo può significare anche una rivisitazione e una conversione delle strutture nella consapevolezza che tutto ciò può portare a volte sofferenze inevitabili, ma feconde. Per questo motivo il superiore generale invita comunità e singoli “ad accogliere cordialmente le decisioni che i superiori crederanno doveroso prendere, nel quadro di una programmazione globale”.

Ciò che può aiutare ad una crescita maggiore all’interno dell’intera congregazione sarà la capacità di sussidiarietà, interprovincialità e congregrazionalità che si verrà a creare grazie alla collaborazione di tutti. Pur essendoci ora tre province tuttavia la forza di una reciproca collaborazione permetterà a tutti di arricchirsi, “aprendo la mentalità, facendo crescere la comunione, in funzione di un’equa distribuzione delle risorse”. La congregazione, se vuole rispondere al carisma del proprio fondatore, non deve mai perdere di vista gli “ultimi” e “condividere con loro quella straordinaria realtà risanante e inclusiva che è il Regno”.

Gli ultimi verso cui spendersi sono in modo particolare i giovani: “Non dobbiamo dimenticare che noi siamo pavoniani per i ragazzi, siamo chiamati a fare scelte in cui al centro ci siano loro, soprattutto i più poveri, quelli ai quali nessuno offre prospettive di futuro. I ragazzi sono la nostra famiglia”. Lo spendersi con loro e per loro richiede continuamente una rinnovata generosità e passione per il mondo giovanile; richiede una continua formazione nell’area pedagogica per “appropriarci dei codici linguistici indispensabili per comunicare con loro; la nostra proposta educativa mira alla loro formazione integrale, aprendoli ai valori del vangelo, sensibilizzandoli al gusto del sapere e del bello, rendendoli protagonisti nella costruzione di una nuova realtà sociale più giusta, più solidale e fraterna”.

Questo compito così arduo che il fondatore ha lasciato in eredità ai pavoniani non deve mai dimenticare un tratto che ha sempre caratterizzato la sua vita e il suo impegno, ossia l’educazione attraverso il lavoro e richiama fortemente l’intera congregazione a una capacità continua di scelte innovative, vale a dire progettare risposte coraggiose con interventi mirati a favore di giovani che vivono in situazioni di emarginazione. La missione dei religiosi si avvale anche della collaborazione dei laici ed è insieme con loro che è bene analizzare periodicamente le attività delle comunità perché rispondano sempre più autenticamente al carisma ricevuto, mettendo in conto, soprattutto da parte dei religiosi, una disponibilità al cambiamento e alle trasformazione. È su queste linee che la congregazione intende ora muoversi nella fedeltà al carisma del fondatore e al vangelo nella Chiesa e nel mondo d’oggi.

 

Orielda Tomasi