DAVANTI ALLA PAROLA
DI DIO
LEGGERE O LASCIARSI
LEGGERE?
Protagonisti della preghiera non siamo noi, ma Dio. È lui che desidera
l’incontro con noi, è lui che ci ha messo in cuore il desiderio di stare con
lui, è lui che ci parla e interpella come nessuno potrebbe.
L’articolo Il
respiro della vita (Testimoni 4/2003, p. 8) sul ruolo della preghiera nel
cammino della formazione permanente, ha suscitato interesse e anche qualche
interrogativo in alcuni lettori: la preghiera ci educa in quanto scava e fa
emergere in noi la verità di noi stessi, ma come permettere che ciò avvenga?
Come verificare la qualità veritativa del proprio stare dinanzi a Dio? Perché
la preghiera quotidiana spesso non svela all’orante la sua propria identità e
verità?
È lecito pensare che
tali interrogativi esprimano dubbi un po’ di tutti e segnalino una fatica
altrettanto universale. Chi prega è sempre un apprendista della preghiera, che
imparerà a pregare pregando. Soprattutto se viene aiutato a porsi in un certo
atteggiamento nei confronti del Dio ed evitare alcuni equivoci.
Noi spesso pensiamo
alla preghiera come a un’operazione mentale-verbale o
immaginativo-contemplativa sostanzialmente nostra, che ci vede molto attivi e
tutt’intenti a riversare parole o riflessioni, o proteste e lamentazioni su una
superficie muta o passiva che sarebbe Dio. Così pure ci viene spontaneo pensare
che la preghiera e il tempo che le dedichiamo sia ancora un’attività
strettamente dell’orante, una scelta soggettiva e naturalmente meritoria. Con
la conseguenza, tipica delle operazioni un po’ troppo personalizzate e magari
un po’ narcisiste, che sperimentiamo molto più facilmente la fatica che non il
gusto dello stare di fronte a Dio, l’obbligo delle pratiche di pietà più che la
bellezza “degli atri del Signore”.
C’è insomma un certo
protagonismo orante in tutti noi, che diventa come una caricatura della
preghiera, la quale non s’addice proprio a chi vuol far da protagonista. Perché
il protagonista della preghiera è Dio, è lui che desidera l’incontro con me, è
lui che mi ha messo in cuore il desiderio di stare con lui, è lui che mi parla
e interpella e m’accusa e illumina…, con quella sua parola che mi scruta dentro
come nessuno potrebbe, dolcissima e amarissima.
È il caso, allora,
di chiederci se davvero, in questi tempi di grande familiarità con la parola di
Dio, stiamo imparando a farne un uso intelligente. Non basta aver cambiato i
termini e parlare di lectio, se poi noi, splendidi analfabeti del nostro mondo
interiore, pretendiamo leggere la Parola e dimentichiamo le due premesse
fondamentali d’ogni lettura della Parola: la convinzione, cioè, che è essa che
…ci legge, non siamo noi a interpretarla; e che la parola di Dio non ci parla solo
di Dio, ma anche di noi, di ciascuno di noi.
Le potenzialità
educativo-formative di questa Parola sono impensate per quel che ci dice del
mistero del nostro io, ma raramente le sappiamo interpretare e sfruttare
adeguatamente; spesso ancora ci difendiamo dalla Parola per quel che ci svela
di noi, o preferiamo contemplare più pacificamente, e un po’ presuntuosamente,
quel che ci dice di Dio, senza cogliere, all’interno della teofania, anche la
nostra storia, con le sue luci e le sue ombre.
Propongo allora tre
vie aperte dalla parola di Dio al lettore fedele e accorto, che non pretende
esser lui a leggere e interpretare la Parola, ma che si lascia da essa leggere
e interpretare.
LA VIA
RIVELATIVO-PENITENZIALE
E’ la via che si
apre a chi nella Parola impara a scrutare e riconoscere se stesso, oltre quel
che egli già sa di sé o presume sapere, oltre il suo positivo e l’apparente.
Ogni testo biblico, almeno idealmente, è capace di evidenziare dinamiche e
aspetti particolari del soggetto a lui fino a quel momento sconosciuti. La
Parola qui è intesa come mezzo esplorativo del mondo interiore della persona, e
particolarmente di quel mondo un po’ oscuro che vive ancora lontano dalla luce
dell’evangelo ed è dunque ancora non evangelizzato, ma che da tale luce può
esser illuminato.
Esemplare, a tal
riguardo, il brano di 2 Sam 12, ove il profeta, attraverso una storia abilmente
costruita (il ricco che toglie al povero la sua unica pecorella), mette Davide
dinanzi alle sue responsabilità: “Tu sei quell’uomo” (2 Sam 12,7). Il brano
biblico, e sostanzialmente ogni brano biblico, è in grado di evocare la verità
dell’io e puntare il dito sulla persona; come per contrasto fa emergere i
nostri demoni, quel che siamo senza saperlo, il nostro io attuale (“Tu mi
scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo…”, Sal 138,1).
In tal senso la
parola di Dio ha una specifica funzione e-ducativa (sempre nel senso di
e-ducere=tirar fuori): proprio perché racconta l’amore di Dio finisce per
indicare anche le strategie umane per difendersi da quest’amore, e dunque “tira
fuori” la verità del singolo, financo quella più penosa e nascosta, andando ben
oltre la sua sincerità o quel che lui avverte come sensazioni immediate. La
Bibbia parla della nostra vita, in realtà, e del nostro cuore, delle sue mura e
dei suoi sotterranei, ne descrive in particolare certi dinamismi obliqui e che
ogni individuo soggettivizza in modo originale. Anzi, nulla come la parola di
Dio ha tale funzione e-ducativa; proprio in tal senso è spada a doppio taglio,
che penetra nel punto più recondito della psiche (cf. Eb 4,12), ovvero
nell’inconscio. E fa anche male (“e si sentirono trafiggere il cuore”, Atti
2,37). Se non fa male, vuol dire che ne abbiamo fatto una lettura superficiale
e difensiva; e ci stiamo disponendo a fornire la stessa innocua lettura agli
altri, oppure, per una stranissima contraddizione o grottesca compensazione,
mentre disarmiamo la Parola rivolta a noi, diventiamo dei fustigatori
incontenibili quando la porgiamo agli altri.
In pratica si
tratta, allora, d’imparare a leggere la Parola in prima persona, proiettandosi
nei personaggi, scrutando quanto essa dice della verità della propria vita,
ponendosi dinanzi ad essa senza difese. Oppure, si tratta d’imparare a lasciare
che la luce della Parola faccia emergere per contrasto le mie tenebre, ovvero,
che i valori e ideali da essa proposti mi facciano toccare con mano la mia
povertà, i miei gusti e desideri opposti, la mia logica alternativa, le mie
pagane paure e fissazioni, infantili illusioni e pretese. Tanto meglio se ho
pure l’umiltà e l’intelligenza di scrivere queste cose che progressivamente
scopro, come reazioni quotidiane alla lettura della Parola. D’altronde, questa
è anche l’esperienza tipica dell’autentico lettore della Parola, come ricorda a
tutti Kierkegaard: “Si esige, quando tu leggi la parola di Dio, che tu ricordi
a te stesso di continuo: è a me che si parla, è di me che si parla”
Tale lettura è un
cammino di rigenerazione del pensiero circa la conoscenza di sé, dettato dal confronto
con la Parola. La conoscenza di sé nasce dal di fuori e dall’alto, dall’ascolto
di Dio che parla.
LA VIA
RIVELATIVO-ILLUMINATIVA
E’ sempre una
rivelazione, ma questa volta sul versante dell’io ideale, ovvero di quel che
l’uomo è chiamato a essere, dei suoi desideri o del suo desiderio radicale, di
ciò che l’uomo si porta in cuore, ma che spesso rischia di non considerare,
quasi mettendolo da parte e dandolo per scontato, non apprezzandolo
sufficientemente e non godendone.
In tal senso chi
meglio della Parola rivelata, “lampada ai miei occhi e luce sul mio cammino”
(Sal 118,105), può far luce sul mio venire da Dio, sul mio esser radicalmente
proteso verso di lui, su quella naturale ancorché misteriosa attrazione per
l’amore manifestato in Cristo e nella sua croce. Come non leggere, ad es.,
nelle parole e nella richiesta di Filippo (“Signore, mostraci il Padre e ci
basta”) quell’unico desiderio che abita le profondità del cuore umano? O nelle
espressioni del profeta (es. Ger 1,4-10) o del salmista (es. Sal 70, 138) la
verità così toccante della tenerezza dell’Eterno verso la creatura, e dunque la
sua radicale dignità e misteriosa grandezza?
In tal caso viene
sottolineata la forza illuminante della Parola, capace di rivelare ciò che il
soggetto è veramente ma ancora non sa, capace di additare le risorse e
potenzialità che egli possiede senza sospettarlo, capace di svelargli,
soprattutto, la sua vocazione.
E continua, in tal
modo, il cammino di rigenerazione del pensiero alla luce della Parola. Anzi, in
tal modo il credente costruisce sempre più la sua identità e la sua vita sul
fondamento della Parola, e diviene come il monte Sion che “non vacilla, è
stabile per sempre” (Sal 124,1).
LA VIA
PEDAGOGICO-SALVIFICA
Questa via è quella
che si apre dinanzi a chi legge e scopre nella Parola modi migliori di gestire
dinamiche personali che l’individuo conosce, ma che non sa bene come tenere
sotto controllo. Qui la Parola assume una funzione non più solo esplorativa, ma
risolutiva, in funzione della salvezza e della libertà.
È, in realtà,
espressione della forza sanante della Parola. Non si tratta, evidentemente, di
usare la Bibbia come un prontuario di ricette psicologiche e terapeutiche, ma
di scoprire che in essa c’è la chiave di lettura, la pedagogia, la “figura”
capace di leggere e risolvere il dilemma della sua vita psichica, il modo di
venir fuori da certi blocchi psicologici. Normalmente nel Vangelo non troviamo
un testo dottrinale e di pura riflessione, come non troviamo, ancor meno, un
pacchetto d’ingiunzioni, comandamenti, leggi e quant’altro sganciati da un
motivo ispiratore. Vi troviamo, bensì, i due aspetti congiunti: il grande
ideale assieme a indicazioni estremamente pratiche e vitali. È il metodo della
parabola, che unisce stupendamente, e spesso inconfondibilmente, le due
componenti, teologica e pedagogica; basti pensare alla ricchezza non solo di
teologia, ma pure di pedagogia, di parabole come quella del padre
misericordioso o del seminatore, con indicazione di tappe, passi progressivi,
distinzioni sottili, sfumature emotive, attenzione alle motivazioni profonde….
D’altro canto, ciò
che il singolo ha sperimentato finora come solo suo, unico e forse strano è un
dinamismo del cuore umano, qualcosa di universale e dunque già previsto e
considerato in quel testo ove questo cuore è scandagliato in tutti i suoi
recessi.
È il caso del
conflitto di Paolo col suo limite e della sua supplica accorata a Dio perché lo
liberi (cf. 2 Cor 12,7-10), in cui ognuno può riconoscere una via
d’integrazione della propria debolezza; o l’invito preciso e inequivocabile di
Gesù: “Vai e anche tu fa lo stesso” (Lc 10,37); o le stesse beatitudini intese
come via per convertire il proprio modo di desiderare e di godere; o la logica
della kenosi del Figlio (Fil 2,5-11) proposta come itinerario di
autorealizzazione autentica, pure con l’indicazione metodologica di due fasi,
tra loro connesse da quel “per questo…”.
Imparare a legger
così la Parola vuol dire davvero quel “farsi leggere” che rigenera la mente e
apre vie nuove. Anzi, tale lettura non solo ci fa scoprire la verità, ma ci
consente lentamente di fare la verità di noi stessi.
Amedeo
Cencini
1_S. Kierkegaard,
cit. da B. Forte, Contro i teologi sonnifero, in “Avvenire”, 4/XII/1996, p.19.