VIVERE IN COMUNIONE FRATERNA

MISSIONE IMPOSSIBILE?

 

La vita di fraternità in comunità internazionali è una sfida ormai frequente nella vita consacrata. Quali aspetti tenere presenti per rendere possibile e approfondire questo progetto?

 

«Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8). Con questa citazione evangelica inizia la lettera che p. Jozef Lapauw, superiore generale della congregazione del Cuore immacolato di Maria (missionari di Scheut), ha inviato ai suoi confratelli mettendo a tema la comunione fraterna nella realtà specifica di una fraternità internazionale.1

Possiamo scegliere i nostri amici, ma non i nostri confratelli – esordisce p. Lapauw – poiché la ragione della vita comune è data dalla comune chiamata di Cristo a condividere la stessa vocazione religiosa missionaria e la stessa missione. Questa vocazione viene vissuta oggi attraverso molte forme ed espressioni di vita comunitaria, tra le quali comunità e gruppi di lavoro internazionali, dal momento che la congregazione riunisce a tutt’oggi confratelli di sedici diverse nazionalità.

“Siamo chiamati a sostenerci e provocarci gli uni gli altri, come fratelli premurosi, a crescere come discepoli e apostoli di Cristo. Siamo anche chiamati a essere testimoni del suo amore universale in un mondo globalizzato in cui molte persone, di molte culture e religioni, si incontrano con tutte le benedizioni e tensioni del caso. È una “missione impossibile”?”

 

NESSUNO

È ESCLUSO

 

“Comunità” – specifica nella sua lettera p. Lapauw – non è solo un termine che indica un luogo di abitazione, ma sta a significare un gruppo di persone che cerca di crescere nella comunione fraterna. Più precisamente, una comunità si sviluppa e si mantiene unita se i membri concordano su una comune visione, missione e valori, e sono impegnati a realizzarli.

“Una comunità è un evento, non un dato di fatto… un evento che le persone cercano di realizzare: una comunità come compimento di un significato comune. Il comune significato comporta che nessuno dovrebbe essere escluso; tutti sono parte del gruppo”.

In forza di queste affermazioni introduttive p. Lapauw allarga le sue considerazioni alle comunità internazionali, che divengono una realtà sempre più attuale per la vita consacrata di oggi. Tra le sue constatazioni più frequenti vi è l’impegno di tanti confratelli nel curare la comunione fraterna con confratelli di diverse culture. E si chiede: “Può la gente che vede le nostre comunità dire: “guarda come si amano?” Non è missione anche questa: dare una testimonianza profetica dell’amore universale di Cristo e dell’inclusività del suo Vangelo in un mondo diviso? Tutti sanno che ciò è tanto difficile quanto vivere il Vangelo”. È un processo di conversione permanente che ricompensa e arricchisce chi, con la grazia di Dio, cerca di viverlo. Appartenere alla congregazione – esemplifica il superiore generale – è vivere o fare riferimento a una comunità che raccoglie regolarmente come confratelli chi prega, condivide la fede, discerne e lavora insieme, celebra, fa ricreazione, mangia insieme, studia, verifica e progetta insieme gli impegni della missione del carisma specifico.

C’è un detto: “La famiglia che prega insieme resta unita”, e p. Lapauw si chiede se questo detto non si possa applicare anche alla comunità religiosa missionaria. Dalle numerose visite nelle comunità in ogni parte del mondo, ha riportato spesso buona impressione per la condivisione della preghiera e del discernimento, ma anche tristezza in alcune occasioni per la povera preghiera comunitaria. “Siamo religiosi missionari – commenta – e la preghiera in comunità non è un optional. È vitale per la nostra vocazione”. Tutti i confratelli, e specialmente i giovani in formazione e i candidati, hanno il diritto di appartenere a comunità religiose missionarie che pregano e fanno discernimento nella fede. La preghiera quotidiana, l’eucaristia, gli incontri regolari e i ritiri sono tutti importanti.

“Con la grazia di Dio – esorta p. Lapauw – cresciamo nella fiducia e nell’apertura gli uni gli altri per condividere le nostre memorie, le nostre luci e ombre, le nostre speranze e paure, i nostri successi e fallimenti a un livello più profondo in Cristo. Portiamo davanti al Signore le nostre intenzioni per le persone e le comunità in cui viviamo, per il mondo, la Chiesa, i nostri parenti, amici, benefattori e per la nostra congregazione. Offriamo a Dio le nostre gioie e dolori, le speranze e le ansie legate alla vita religiosa missionaria e ai ministeri. Ciò ci rafforza nella solidarietà e nell’amore di Cristo”.

 

COMUNIONE

NELLA DIVERSITÀ

 

L’esperienza nel servizio di superiore generale ha permesso a p. Lapauw di conoscere confratelli “che si prendono cura degli altri a qualsiasi costo, che dedicano tempo ai confratelli per ascoltare e condividere, che sanno andare oltre i loro programmi per visitare altri confratelli che sono più isolati, malati, che vivono un momento difficile, o che vivono e lavorano in circostanze pericolose. Grazie a Dio per i nostri membri che hanno cura di confratelli afflitti per un parente caro, per un amico o confratello che è morto, o per un confratello che è in crisi. Non è, questo, il nostro carisma espresso al meglio? Tutto ciò richiede compassione, rispetto fiducia, discrezione e confidenza”.

La questione centrale del tema da lui scelto rimane comunque: in una comunità internazionale, con tante diversità personali, generazionali e culturali, come prendersi cura gli uni degli altri? Ogni confratello porta le proprie luci e ombre dal contesto da cui proviene. Un cuore amorevole offre più spazio all’altro di quanto possa fare un cuore pieno di autodifesa che si sente minacciato dalla diversità. “L’esclusione può essere superata da un profondo amore radicato nell’amore incondizionato di Dio che ci da maggiore sicurezza interiore per prenderci cura gli uni degli altri”.

Non è difficile rendersi conto della presenza del male nel mondo, come anche in noi e tra di noi. “Non ci feriamo inevitabilmente a volte con parole e azioni, anche senza rendercene conto? Sovente – osserva p. Lapauw – non comunichiamo bene e viviamo delle incomprensioni anche a motivo delle diversità personali e culturali. A volte ci umiliamo a vicenda a causa delle ferite del nostro passato, della mancanza di autostima, di insicurezza interiore, gelosia o competizione. Come facciamo i conti con la nostra debolezza nelle relazioni con i confratelli e con gli altri?”.

Il caso non raro di confratelli che non si parlano da anni a motivo di qualche screzio avvenuto nel passato conduce il superiore generale a chiedersi: “Come potremo essere guariti e resi liberi di comunicare, di amare e di avere cura ancora reciproca? Un sincero riconoscimento della nostra rabbia, la preghiera per i nostri nemici e per noi stessi, una comunicazione diretta e rispettosa con un confratello, con una persona con cui abbiamo un conflitto, o che ci ha ferito nel passato, può essere davvero molto d’aiuto. Anche l’accompagnamento spirituale e il sacramento della riconciliazione possono aiutarci a essere guariti, a perdonare e essere perdonati come Dio ci perdona e ci ama, qualunque sia il nostro passato. La sua misericordia non è più grande del nostro peccato e della nostra fragilità? In questo modo possiamo passare dall’essere vittime all’essere guaritori. Il perdono può condurre alla riconciliazione. Possiamo andare oltre le nostre ferite passate, lasciare che Dio ci guarisca, abbia fiducia ed edifichi gli uni sugli altri come fratelli?”.

 

LA CONDIVISIONE

DELLA DEBOLEZZA

 

Vivere insieme nella consapevolezza che la nostra comunione si fonda sulla condivisione della nostra fragilità e dei nostri dubbi non è facile! Sembra che nel nostro codice genetico vi sia un rifiuto istintivo nei confronti di tutto ciò che indica incertezza, debolezza, vulnerabilità. “Noi vogliamo mostrare di essere forti – sottolinea p. Lapauw –. Sperimentiamo la resistenza a esprimere le nostre zone d’ombra e mostrarci vulnerabili”. Questo perché temiamo di essere umiliati e che la nostra immagine sia offuscata.

Per poter mostrare questa parte di noi stessi sono necessari “profonda sollecitudine, fiducia, umiltà, mutuo rispetto e tatto”. Se si ha il coraggio di osare su questi atteggiamenti ci si sentirà meno soli o isolati. “Sappiamo di navigare tutti sulla stessa barca della nostra umanità, e che tutti noi abbiamo le nostre zone di luce e d’ombra come confratelli e come comunità”. P. Lapauw è certo che se si condividessero nelle comunità “benedizioni” e “ferite” personali nei momenti di ritiro, assemblea e incontri comunitari, “allora nuova vita è possibile, i legami sono rafforzati, la fraternità cresce”.

L’esortazione del superiore generale ai suoi missionari si fa più energica: “Dobbiamo riuscire a esprimere i nostri dubbi. È soprattutto quando un confratello entra nel “deserto”, quando nulla ha più senso per lui, che dobbiamo lasciarlo parlare. Non dobbiamo forse rispettare la sua battaglia senza etichettarlo, giudicarlo o schiacciarlo? Permettere al confratello di condividere questi momenti di buio e incomprensione, e osare ascoltarlo, può essere il dono più grande che gli potremmo mai fare. Forse che Dio non guida questo confratello nella “oscura notte dell’anima”? Camminiamo con lui nella fiducia. Nulla unisce più intimamente una comunità di una fede che ci vede combattere insieme per ottenerla”.

 

DONARSI

LA VITA

 

Fa parte del linguaggio tipico della vita consacrata parlare del “dono di sé”. Un concetto profondo ed esigente, ma che corre il rischio di rimanere ornamentale nella vita quotidiana. È il pericolo che p. Lapauw vuole esorcizzare quando invita i suoi religiosi a fare dono del loro tempo, dei talenti e delle ricchezze individuali in un clima di solidarietà concreta. Egli coglie la concretezza del dono di sé nei gesti di disponibilità spicciola: “stare in portineria, lavorare in giardino, in cucina, servire a tavola, in lavanderia, in ricreazione, dare un passaggio in auto, visitare i confratelli malati o anziani o quelli che vivono soli. Quando serviamo volentieri i confratelli, quando portiamo gioia con un senso di humor, quando mostriamo interesse per un confratello e ci prendiamo tempo per ascoltare con attenzione e col cuore la sua storia legata alla famiglia, alla cultura, al suo ministero, noi stiamo affermando e promuovendo quella persona”. Non è questo un vero prendersi cura dell’altro? È ciò che crea una profonda felicità e realizza il donarsi la vita reciprocamente.

La comunione fraterna è un processo di crescita, un progetto di vita comune che non si realizza da solo. Richiede uno sforzo intenzionale, “di un tempo di qualità per pregare, per discernere, valutare e progettare. Perciò – ricorda p. Lapauw – sono elementi cruciali un progetto di vita comunitario e incontri comunitari. Questi ultimi permettono di comunicare, riflettere insieme, discernere, valutare, organizzare e progettare le cose. Non è facile anche a motivo delle differenze personali e culturali. Un tempo di qualità dedicato alla condivisione, alla buona comunicazione e animazione può aiutare a evitare molte incomprensioni e fallimenti in una comunità”.

Di questo progetto comune tutti sono responsabili, così come tutti debbono contribuire solidalmente alla propria comunità e alla sua missione particolare. “Talvolta – confida il superiore generale – sento alcuni confratelli parlare della “mia” parrocchia, del “mio” ministero, del “mio” denaro, dei “miei” progetti, della “mia” auto, ecc. Non dimentichiamo talvolta la nostra identità di religiosi missionari? Siamo consacrati a Dio per la missione”.

Concludendo la sua lettera, p. Lapauw ricorda che “la comunità non è un problema, ma un mistero” che affonda le sue radici nel mistero trinitario. Quello della santa Trinità “è un mistero che viene a noi e ci invita a entrare nella loro comunità di vita. Se lo facciamo, la nostra comunità diviene un’esperienza religiosa”. All’interrogativo che dava inizio a questa comunicazione alla sua famiglia religiosa si può rispondere affermativamente: la comunione fraterna in una comunità internazionale “non è facile, ma con la grazia di Dio è possibile se i nostri cuori sono grandi abbastanza e con una crescente sollecitudine fraterna che sia radicata nell’amore universale e incondizionato di Dio. “Avete un solo Maestro, e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8)”.

E. B.

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LAPAUW J. cicm, “Living a fraternal communion “one heart one soul” in our international community: mission impossible?”.