L’ATTUALE MOMENTO STORICO

LA PACE HA UN SUO COSTO

 

Non basta gridare “pace” per ottenerla. La pace ha un suo prezzo da pagare, senza dimenticare che nonostante tutto sarà sempre fragile e bisognosa di un costante impegno. Soprattutto non ci sarà mai pace senza giustizia.

 

Ora che la guerra contro l’Iraq è scoppiata, con tutto lo strascico dei suoi orrori, nessuno sa dire se si tratterà di un confitto breve, un Blitzkrieg, o di lunga durata, come ha lasciato intendere il presidente americano Bush. Ma in tutte e due le situazioni, ciò che rimane è che con questa guerra lo scenario mondiale è diventato più fosco e non lascia presagire nulla di buono.

Con la guerra l’umanità intera si trova nuovamente di fronte a una nuova sconfitta, dai costi inimmaginabili, e va incontro a dei rischi le cui conseguenze potrebbero rivelarsi devastanti per anni.

Possibile che dopo le due spaventose guerre mondiali combattute nel secolo appena concluso e le quasi duecento guerre scoppiate – molte delle quali ancora aperte – in varie parti del mondo dalla fine della seconda guerra mondiale, gli uomini non siano ancora riusciti a trovare strumenti più adeguati per risolvere le loro tensioni e continuino a far ricorso a quello strumento che tutti a parole si affrettano a definire come mezzo estremo, che è appunto la guerra, ma che diventa poi quello più praticato? Ciò significa che nel mondo è in atto quel “mistero di iniquità” di cui parla san Paolo e che per uscirne “è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene” (2 Tess 2,7). Purtroppo, sappiamo dalla fede che questo avverrà solo al momento della rivelazione finale quando “il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà” (v. 8).

Non toccherà quindi alla nostra generazione vederne la realizzazione. Ma ciò non deve indurci alla rassegnazione. Al contrario, nostro compito è di lavorare per la venuta del regno di Dio nel tempo in cui viviamo cercando di seminare germi di bene, o meglio, immettere nell’organismo di questa nostra umanità malata quei valori evangelici che l’aiutino poco alla volta a risanarsi e a trasformare il mondo in una sola grande famiglia di figli di Dio.

Tra questi grandi valori figura senza dubbio quello della pace, oggi invocata con un forte grido corale in tutto il mondo come mai forse era avvenuto prima. La guerra contro l’Iraq ha cooperato a risvegliare le coscienze e indotto la gente a scendere nelle piazze per gridare la propria volontà di pace e, per tanti cristiani, a raccogliersi in preghiera per ottenere da Dio questo dono che viene dato agli uomini di buona volontà. Una preghiera quindi affinché il Signore cambi, converta il cuore indurito degli uomini; una preghiera che, oltre a essere un’invocazione, è anche una protesta contro coloro che della guerra sono i primi responsabili, facendo capire loro che non possono arrogarsi il diritto di agire di propria iniziativa, a nome di tutti gli abitanti del globo e decidere il loro destino come ne fossero i padroni.

Certamente l’impegno per pace non può esaurirsi solo nelle manifestazioni esterne, non mai esenti anche da strumentalizzazioni. Dopo tante manifestazioni sulle piazze è forse opportuno fermarsi a riflettere su che cosa significhi realmente invocare e costruire la pace.

Il cardinal Martini, rompendo il silenzio in cui si è immerso, dopo aver lasciato la guida della diocesi di Milano, ha scritto da Gerusalemme un’interessante riflessione, in occasione della quaresima, con degli spunti su cui ci pare opportuno attirare l’attenzione. È uscito momentaneamente allo scoperto perché, afferma, “vi sono occasioni e situazioni che invitano a fare eccezione a questa regola (del silenzio), per ragioni gravi: e terribilmente grave è certamente la situazione delle attuali minacce alla pace e delle violazioni della pace, messe in questi giorni ancora più in rilievo da grandi e corali desideri di pace”.

Di fronte a questa volontà di pace che, scrive, “totalmente condividiamo”, ha ricordato soprattutto tre cose: che la “pace ha un costo”; che “la pace non è mai un edificio solido”; e che la sua realizzazione ha sempre qualcosa di “miracoloso” e di “improbabile” e quindi esige molto impegno e molta pazienza.

 

IL COSTO

DELLA PACE

 

La pace non può essere ottenuta senza un costo. Il cardinale cita, a questo proposito, l’episodio di un suo amico il quale tempo fa, parlando della sua esperienza come straniero, in una società travagliata da conflitti, diceva: questa società, nelle sue espressioni migliori, vuole sinceramente la pace, ma non sa decidersi a pagarne il prezzo. Il cardinale commenta: “Va infatti ricordato che persino quel fiore raro e prezioso del Vangelo che talora viene chiamato (con una semplificazione terminologica) “non violenza”, ha un prezzo preciso: “a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello” (Mt 5,40). Ciò significa che bisogna essere disposti a pagare un prezzo e a rinunciare anche a qualcosa a cui si avrebbe pur diritto. Quindi non basta invocare la pace: bisogna essere disposti a sacrificare anche qualcosa di proprio per questo grande bene, e non solo a livello personale ma pure a livello di gruppo, di popolo, di nazione”.

È un prezzo che intendono pagare, per esempio, il nunzio apostolico a Badgdad, 200 religiose e religiosi domenicani, 125 suore di santa Caterina da Siena e le quattro Missionarie della carità di madre Teresa che hanno deciso di rimanere sul posto nonostante il grave pericolo che incombe su di loro a causa dei bombardamenti.

Ed è anche il prezzo che tanti missionari e missionarie hanno pagato e stanno pagando in numerose parti del mondo per essersi fatti solidali con le sofferenze e l’oppressione dei popoli in mezzo ai quali vivono, spesso fino al martirio. Pensiamo, per esempio, a quanto è avvenuto in questi ultimi decenni in America latina in seguito all’opzione della Chiesa per i poveri o nella zona dei Grandi Laghi in Africa, oppure a quanto sta avvenendo alle comunità cristiane in alcune parti dell’India o in Pakistan o a quanto è successo da poco nelle Molucche in Indonesia, ecc. Questo significa, ci pare, pagare un prezzo per la pace e la riconciliazione.

 

UNA PACE

SEMPRE PRECARIA

 

Il secondo punto su cui il cardinale Martini invita a riflettere, al di là di ogni facile illusione, è che “la pace non è mai un edificio solido, costruito compatto una volta per tutte”. Al contrario “somiglia a una tenda, a un castello di sabbia, da custodire e da ricostruire sempre con infinita pazienza (“settanta volte sette” direbbe Gesù, cf. Mt 18,22). In altre parole, non è sufficiente rifarsi soltanto a considerazioni etico-politiche (chi ha ragione, chi ha torto, chi è l’aggressore, chi è l’aggredito, l’uso della legittima difesa, l’eventuale possibilità di una guerra giusta, ecc.). Occorre avere il coraggio di proclamazioni profetiche che tengano conto della precarietà e peccaminosità della situazione umana della storia”.

In altre parole, osserva il cardinale, bisogna sempre tenere presente, come scrive la Bibbia, “che l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza” (Gen 8,21), per cui “ogni volontà costruttiva della pace si scontra con la ineludibile aggressività umana, col desiderio insito in tanti di noi, persone e gruppi, di possedere ciò che è dell’altro, di avere più dell’altro, meglio dell’altro, togliendolo, se non c’è altro mezzo, anche con la forza”.

“Tutto ciò, prosegue il cardinale, costituisce una dimensione tragica dell’esistenza che non è lecito ignorare, fare come se non esistesse. In questo senso la sola e astratta sollecitazione di atteggiamenti belli ma carichi di utopia, senza inserirli nel contesto reale della struttura, dei bisogni e delle miserie umane, minaccia alla fine la causa stessa della pace”.

In effetti se si confrontano queste affermazioni del cardinal Martini con le varie situazioni conflittuali presenti nel mondo si può costatare quanto siano vere. Dietro a ogni guerra ci sono sempre degli interessi, degli egoismi, una volontà di dominio e di accaparramento dei beni. Per citare un caso eclatante: che cosa ha spinto gli eserciti del Rwanda e dell’Uganda, sostenuti dalle multinazionali occidentali, a invadere e defraudare le regioni orientali della Repubblica democratica del Congo, se non la volontà di mettere le mani sulle grandi ricchezze di quelle zone (oro, diamanti, l’uranio, il rame, ecc.) oltre che l’inconfessato ma evidente tentativo di allargare i propri confini? E dietro a questa guerra americana in Iraq non si scorge forse una volontà di imporre in questa tormentata zona un “nuovo ordine”, ispirato, dicono alcuni, da una specie di “messianismo” che vorrebbe fare dell’America l’unico incontrastato padrone del mondo?

Purtroppo questa è la realtà. Perciò, prosegue il cardinal Martini, “Il conflitto, l’uso della forza, la possibilità di scatenarsi della violenza, sono dati di cui si deve tener conto nel programmare la vicenda umana… È perciò inevitabile per la pace di questo mondo, ideale sommo e sempre da perseguire con indomito coraggio, ritessere continuamente le fila di una concordia che non si illuda di sradicare del tutto l’aggressività, ma che si proponga il compito più modesto, ma insieme più realistico, di moderare fino al punto di preferire talora anche un compromesso, in cui ciascuno debba concedere qualcosa a cui avrebbe teoricamente diritto, in vista del superamento di una litigiosità violenta e senza fine. Si tratta cioè di superare il punto di vista etico-politico per accedere a quello profetico “porgi l’altra guancia” (cf. Mt 5,39) che non crediamo sia così utopico come sembrerebbe a prima vista”.

La pace, pertanto, osserva il cardinale, sarà sempre “una pace fragile e minacciata”. Lo sforzo da compiere consisterà perciò “nella determinazione del punto di equilibrio tra le ragioni delle parti in causa e le possibilità pratiche di gestirle senza conflitto violento, in una sana dialettica che conduca tutti i contendenti alla rinuncia di qualcosa di proprio in vista della ricerca del maggior bene comune concretamente realizzabile qui e ora”.

A partire da questa osservazione, forse è superfluo, ma pertinente, ribadire quanto siano essenziali gli organismi internazionali come l’ONU, la NATO, l’Unione Europea ecc. e se vogliamo anche la Lega araba per svolgere questo compito di mediazione e nella ricomposizione di equilibri che si sono infranti. Purtroppo la divisione che abbiamo costatato al loro interno di fronte alla guerra in Iraq non ha certamente giovato alla causa della pace; anzi ha rivelato egoismi e interessi particolari che hanno indebolito questi organismi rendendoli inefficaci. Ricomporli e rafforzarli è un’esigenza imprescindibile per il mantenimento della pace nel mondo, soprattutto di fronte agli scenari piuttosto foschi che potrebbero aprirsi dopo questo conflitto. Questi sforzi, al di là di ogni interesse di parte, devono essere sostenuti e incoraggiati.

 

LA PACE HA SEMPRE

DEL MIRACOLOSO

 

Una terza verità, scrive ancora il cardinal Martini, è che “una pace seria e duratura, là dove persistono ragioni gravi di conflitto, ha sempre un po’ del “miracoloso”, dell’improbabile “dono dall’alto”… e perciò chi crede in Dio la deve chiedere con tutte le forze e anche chi non crede la deve invocare dal fondo della propria coscienza pronto a sacrificarsi con tutto se stesso. Occorre cercare la pace possibile e intercedere per essa con quella instancabilità con cui pregava Gesù nell’orto degli ulivi… Come afferma il concilio Vaticano II, la pace è un dono che va invocato e ricercato con l’aiuto di tutti”.

È questo un aspetto di cui i cristiani sono ben consapevoli. Forse il mondo che non conosce Dio non capisce quanto sia decisiva la preghiera per la pace. Allo scatenarsi della guerra in Iraq in ogni parte del mondo, nelle chiese, nei santuari nei gruppi e nelle comunità è stato tutto un elevarsi corale a Dio di preghiere e suppliche, spesso protratte anche nella notte, per chiedere al Signore questo dono. Sono iniziative da non riservare solo in questo momento di emergenza, tenendo presente che nel mondo, di guerre più sanguinose di questa, ce ne sono decine e di cui forse quasi nessuno si ricorda. Per il cristiano, l’invocazione della pace deve far parte costante della sua preghiera quotidiana.

Il cardinal Martini ricorda infine la classica affermazione biblica “effetto della giustizia sarà la pace” (cf. Is 32,7) e commenta: “Sì, la pace non può che essere frutto della giustizia, ma la pace di questo mondo non sarà soltanto il risultato di una giustizia mondana perfetta, che non si avrebbe mai nelle attuali aggrovigliate condizioni storiche, ma frutto di quella giustizia che è al momento ottenibile anche a prezzo di sacrifici e rinunce di singoli e di gruppi in vista di un bene comune più alto e condiviso”.

Il cardinale tocca qui un punto cruciale sapendo bene che le guerre, comprese quelle locali, sono il più delle volte scatenate a causa delle ingiustizie di cui sono vittime gruppi o interi popoli. Basterebbe esaminare le ragioni che stanno alla base di tanti conflitti in Africa, Asia o in America latina.

È questa la ragione per cui i cristiani, più che gridare slogan, dovrebbero impegnare le loro energie per ricreare il tessuto lacerato della loro società attraverso il dialogo, la riconciliazione, la solidarietà, il superamento degli odi e dei risentimenti, ecc. Sono troppe le ferite aperte oggi nel mondo che richiedono di essere risanate. La guerra in Iraq è solo parte di una realtà assai più vasta su cui è necessario sensibilizzare la gente che spesso ignora ciò che avviene in tante parti del mondo, affinché alzi la voce o organizzi marce, esponga bandiere, ma soprattutto si impegni a favore di chi è debole, dimenticato e non ha voce. Allora queste manifestazioni saranno tutte più credibili.

A. Dall’Osto