UN NODO ANCORA DA SCIOGLIERE
TRADIZIONI CHE PARALIZZANO
All’inizio di ogni istituto
si è creata una tradizione che si ricollega con i fondatori. Su questa, nel
tempo, si sono sovrapposte altre tradizioni che da marginali sono diventate
assolute. Col rischio di paralizzare la vitalità_e la creatività dello stesso
istituto.
Tutti gli istituti religiosi che hanno alle spalle un certo numero di anni posseggono una vera tradizione dove sono contenuti gli elementi più essenziali e dinamici della loro vocazione, che si trasmettono di generazione in generazione, come il tesoro più prezioso della famiglia.1
Non è facile descrivere che cos’è la tradizione di un istituto, proprio per la ricchezza e la varietà degli aspetti che racchiude. Essa raccoglie in un’unità organica le parole, i gesti, i comportamenti spirituali dei suoi membri, gli orientamenti dottrinali e apostolici della fondatrice o del fondatore, della Chiesa, dei superiori. Tutta la comunità, assistita dallo Spirito Santo, nell’ascolto costante della parola di Dio e alla luce del carisma dell’istituto, la accoglie, l’attualizza, la difende dalle false interpretazioni, la mantiene viva ed efficace all’interno delle diverse situazioni umane, la proclama e la rende presente in ciascuna epoca.
Questa tradizione è espressa soprattutto nella vita, nelle costituzioni e specialmente nella descrizione del proprio carisma e del fine dell’istituto. Ebbene, dentro la tradizione e come sua parte integrante stanno le tradizioni che sono come l’involucro culturale e religioso, proprio di una determinata epoca, di un tempo, di uno stile di società. Sono come diverse espressioni della tradizione che hanno pieno vigore in alcune determinate circostanze, ma che a volte si trascinano di generazione in generazione e si trasmettono di comunità in comunità per pura inerzia, senza tenere sufficientemente presenti le nuove situazioni di tempo e di luogo o il modo di essere delle persone che le debbono vivere. Spesso si confondono le vere tradizioni religiose e culturali con il fenomeno sociologico che tende a conservare e ripetere ciò che si è sempre fatto.
Per questa ragione, è difficile stabilire dove sta la frontiera fra la tradizione e le tradizioni. La prima contiene gli elementi essenziali, immutabili nel corso della storia e nell’ambito geografico. Le tradizioni sono come l’orchestrazione della tradizione. Si sono modulate attorno alla melodia principale fin dal momento della nascita di un istituto religioso e nel corso della storia si sono aggiunti gli altri elementi secondo le diverse circostanze. Al centro della tradizione sta il carisma costituito dagli elementi più essenziali e caratteristici della famiglia religiosa. Questi elementi sono pochi e non cambiano. Sono come il cuore della famiglia religiosa. Ebbene, il cuore è vivo e perciò è adattabile, deve tradursi con nuove espressioni di fronte a ogni nuova situazione. Vale a dire, la tradizione e il carisma sono immutabili, ma le tradizioni devono cambiare in ogni nuova situazione importante. E questo è ciò che infonde vitalità a un istituto. Se c’è adattamento c’è vita. Se non c’è adattamento, c’è sclerosi, routine, conformismo, pigrizia e morte.
Per essere fedeli alla nuova realtà e per adattarsi ad essa ci vuole molta chiarezza su ciò che si deve conservare e ciò che si deve cambiare e, soprattutto, molto coraggio per rompere con ciò che si è sempre fatto e intraprendere cammini inediti. Molti preferiscono ciò che è più comodo che consiste nel non toccare niente e seguire le tradizioni come se costituissero parte essenziale della tradizione.
LE NOSTRE
TRADIZIONI
I farisei erano convinti che molti loro costumi fossero la cosa più sacra e credevano che seguirli minuziosamente fosse molto gradito a Dio. Così si lavavano le mani prima dei pasti e ritornando dal mercato; lavavano bicchieri, stoviglie e oggetti di rame. Gesù rinfacciò loro di salvare molto bene le apparenze, ma di trascurare il comandamento di Dio, per imporre le tradizioni degli uomini (cf. Mc 7,2-9). Non so se il Signore direbbe a noi qualcosa di simile circa alcune tradizioni che abbiamo nei nostri istituti, che costituiscono parte dei nostri usi intoccabili, e anche delle nostre costituzioni. Altri si chiedono se per caso non sono queste tradizioni all’origine di una certa mediocrità attuale e di alcuni fallimenti vocazionali. Le difendiamo come patrimonio della nostra famiglia religiosa.
Si rivedono con molta sincerità e buona volontà altre cose che sono cambiate con il tempo, ma sembrerebbe una profanazione rivedere quelle che provengono dal tempo della fondazione o che furono scritte dalla stessa mano dalla fondatrice o del fondatore e che si sono trasmesse senza alcuna revisione.
Quando oggi parliamo di rifondazione, di riaffermare i fondamenti, di tornare alle radici e alle origini dovremmo domandarci anche se non abbiamo incluso nel carisma fondazionale tradizioni che sono frutto di un’epoca o di una mentalità ormai superata, e non più adeguate per il mondo d’oggi. Sono quelle che ci paralizzano e ci impediscono di camminare.
Senza pretendere di fare una lista completa di queste tradizioni proporrò alcuni esempi che possono illuminarci.
Un anno di noviziato
Il diritto canonico (c. 369) prescrive che il noviziato debba durare almeno 12 mesi e non è permessa un’assenza superiore ai 15 giorni. Si ha l’impressione che l’autore del canone si renda conto che un anno è poco e che almeno si dovrà aver cura di non perdere nemmeno un giorno solo. È l’anno canonico.
Oggi la maggioranza degli istituti religiosi hanno introdotto due anni di noviziato, preceduti da uno o due anni di pre-noviziato istituzionalizzato. Questo perché si avverte la necessità di dare una formazione solida fin dall’inizio, capace di fornire stabilità alla vita consacrata e di superare gli urti di un ambiente pagano e secolarizzato. Ma anche così il numero delle defezioni appare alquanto elevato. La domanda che mi pongo è la seguente: si è veramente convinti che un anno di noviziato è sufficiente per garantire una base spirituale per tutta la vita? Forse nel secolo XIII o nel XIX era sufficiente perché l’ambiente della famiglia e della società era molto religioso; ma oggi si tratta di superare ostacoli molto maggiori per vivere la fedeltà con gioia. Oggi l’ambiente della società in molte parti è agnostico o pagano per cui bisogna avere forti convinzioni e una fede robusta per seguire una vocazione religiosa con sicurezza e coerenza. Molti giovani oggi vengono senza una base cristiana solida e con ferite affettive che si portano dietro dall’infanzia e impregnati di postmodernismo.
In alcuni casi per non cambiare l’esistente si è rafforzato il postulantato cercando di supplire al tempo che manca al noviziato. Ma non sarebbe meglio rafforzare anche il noviziato aumentandolo di un anno, poiché questo è il tempo che pare indispensabile per porre basi solide alla vita consacrata?
Le orazioni e le preghiere personali
Anche a questo riguardo possiamo affermare che si è introdotta in molti istituti, soprattutto femminili, la consuetudine di un’ora di preghiera personale quotidiana, che ha come risultato un buon livello spirituale. Ma ci sono numerosi religiosi e religiose che vivono una vita spirituale basata quasi esclusivamente sulla recita delle ore canoniche e alcune pratiche di pietà, senza un tempo di preghiera personale prolungato, in grado di coinvolgere l’affettività profonda e di trasformare la vita dal di dentro.
La preghiera vocale con molta facilità diventa di routine se non è nutrita dalla parola di Dio interiorizzata e tradotta in vita. E queste preghiere e pratiche di pietà si sono trasmesse nell’istituto per anni e anni giungendo a formare una tradizione che si considera parte del patrimonio spirituale della congregazione senza aver verificato a fondo se ciò produce, a lungo andare, una vita spirituale solida e consistente e se è la più adeguata per il mondo d’oggi. La preghiera personale, il dialogo di amore con il Signore a tu per tu è quella che mette la persona a confronto con il vangelo e cambia poco alla volta i criteri, gli atteggiamenti, i sentimenti fino ad avvicinarsi al modo di vivere di Gesù. La preghiera autentica porta alla crescita nella fede e nell’amore, fa sentire la necessità di identificarsi con lui e di giungere al reciproco possesso per amore, mentre la mancanza di un solido nutrimento produce un’anemia spirituale molto pericolosa. In effetti, mi pare decisivo per la vita di una religiosa e di un religioso giungere ad avere una visione della vita basata sulla fede, saper salire al piano di sopra da dove si contemplano nuovi paesaggi, molto diversi da quelli che si vedono dal basso con una visione puramente umana e pragmatica. È come scoprire la terza dimensione che dà rilievo al disegno in cui la maggior parte della gente vede solo la dimensione piatta. È come attraversare la barriera del suono e ciò si ottiene solamente volando a grande velocità e uscendo dai ritmi della routine.
In queste nuove prospettive la vita è intesa come storia di salvezza in cui Dio si rende presente per guidare la nostra esistenza come protagonista della storia. Questa nuova visione si raggiunge soltanto attraverso una contemplazione assidua.
Il dubbio che mi rimane è questo: se non si giunge a una vita di preghiera profonda, si può garantire che lui o lei sono una persona di preghiera, vale a dire una persona di fede che sa leggere gli avvenimenti della vita alla luce del piano salvifico di Dio? Una persona che è uscita da se stessa e che ama veramente i suoi fratelli e le sue sorelle? Una persona realmente impegnata nell’apostolato per ragioni evangeliche e non esclusivamente sociali e culturali?
Il ritiro annuale predicato e abbreviato
Oggi si avverte una intensa corrente di spiritualità tra le religiose e i religiosi dell’America Latina, una fame di Dio, di silenzio interiore per mettersi in ascolto della Parola, di star soli con lui solo. Se è diffusa l’abitudine di fare almeno otto giorni di esercizi ogni anno nella solitudine, e persino 30 giorni in certe circostanze speciali. Vorrei dire che quella tendenza del post-Medellin della opzione per i poveri e dell’impegno sociale oggi si è rivolta allo spirituale (senza diminuire in nulla la preoccupazione per il sociale). Ma pare che alcuni istituti non abbiano colto questo passaggio dello Spirito e continuino a ripetere ciò che hanno ricevuto dalle loro tradizioni. I loro ritiri annuali sembrano un po’ annacquati, forse perché non hanno tempo e gli impegni pastorali urgono, o perché si dedicano ai giovani e per essi ciò che conta è la comunicazione e la gioia. Per alcuni il ritiro è un’occasione per ascoltare alcune prediche e di tenere alcune riunioni. E anche qualche momento di preghiera. A volte tutto rimane sul piano dell’emotività, senza una vera interiorizzazione personale, come una pioggia superficiale che non fa altro che sollevare un po’ di polvere e bagnare appena la terra. Questi ritiri si traducono in incontri di fraternità – cosa molto piacevole e necessaria – ma non producono una preghiera che trasforma, in un incontro a tu per tu con il Signore nella solitudine. Si dà molto risalto alle pratiche comuni che conservano la devozione essenziale e preparano a celebrazioni meno di routine, ma non si dedica lungo tempo alla contemplazione personale del mistero di Cristo. E per quanto riguarda la durata, vi si dedicano quattro o cinque giorni e a volte soltanto tre. E vi sono alcuni che non trovano nemmeno il tempo per questi giorni di ritiro o lo interrompono per fare acquisti o per sbrigare delle faccende. Si può allora parlare di una conversine dalla mediocrità al fervore, da una vita incolore a un vero anelito di santità? Capita anche di frequente di trovare religiosi e religiose che vivacchiano nella mediocrità da cui non escono per tutta la vita.
Attivismo incontrollato
L’attivismo è una malattia generalizzata che pregiudica la qualità della vita consacrata. Non si possono negare la generosità e la dedizione di molte religiose e religiosi al loro compito apostolico, a volte eroico. Alcuni sono eminenti professori, infermiere o pastoralisti. Sono riusciti a far del loro collegio il migliore della città o far sì che la clinica goda di migliore considerazione. Sono eccellenti professionisti, ma non hanno tempo per essere eccellenti religiosi e religiose. Nelle loro costituzioni ci sono bellissimi concetti sulla comunione trinitaria e il precetto dell’amore. Ma non hanno l’abitudine di riunirsi periodicamente per giungere a stabilire rapporti profondi con i membri della comunità né l’orario consente loro di trascorrere lungo tempo davanti al tabernacolo. La casa appare come una confortevole pensione di signorine o di professionisti onorati, ma bisognerebbe dare molte spiegazioni per far capire che sono dei testimoni del vangelo. A questo riguardo sono soprattutto i religiosi maschi che corrono il pericolo di cadere in una efficienza superficiale.
In alcune congregazioni e in molte comunità locali questo modo di procedere è diventato una vera tradizione. Tutti sono convinti che quello che fanno è la cosa migliore, questo è ciò che fanno tutti e questo è quanto hanno fatto tutti coloro che li hanno preceduti. È difficile cambiare questo ritmo di vita, dove nessun avvenimento è in grado di scuotere la coscienza dei fratelli e delle sorelle: per esempio, il numero eccessivo delle defezioni vocazionali, quando indica come causa la mancanza di significato di una vita religiosa incolore. Dicono che le stesse cose che fanno in convento le potrebbero fare fuori e a volte anche meglio.
Un’altra causa frequente oggi è la mancanza di soggetto. Vale a dire, si tratta di persone inconsistenti psicologicamente, con una bassa stima di sé, provenienti da famiglie distrutte… Tutto questo porta a un ritmo di vita molto accelerato in cui la persona non ha tempo per garantire l’essenziale e integrare la propria vita dando a ogni cosa importante il proprio tempo e interesse. Si tratta di una tradizione che è andata diffondendosi a causa di una grande richiesta di attività apostolica, ma che non sempre è stata integrata nell’insieme di una vita consacrata.
Le grandi opere tradizionali
Ci sono delle province religiose oppresse da grandi opere educative, sanitarie, pastorali o di promozione sociale che in passato costituirono una risposta profetica ai bisogni urgenti del tempo, ma che oggi sono un ostacolo e ci impediscono di rispondere ad altri bisogni più importati e urgenti come i poveri di sempre o le nuove povertà. Se oggi dovessimo ricominciare, sarebbero queste le opere che meglio rispondono al carisma dell’istituto? Certamente ci vogliono anche opere per la classe media e bisogna tenere presenti anche gli intellettuali. Non possiamo escluderli per il fatto che occupano una buona posizione sociale, come se fossero disonorati. Da queste classi escono principalmente i politici e i governanti, gli impresari, i professori e universitari, coloro che maggiormente influiscono sul cammino del paese. Ma sono molti anche gli esempi ammirevoli di congregazioni che negli ultimi decenni hanno dedicato tutte le nuove fondazioni alle classi popolari. Ma quello che dobbiamo domandarci è se la proporzione del nostro lavoro con gli uni e gli altri corrisponde al numero dei poveri (tra il 70 e l’80%) della nostra società. Alcuni e alcune hanno preso coscienza di questa realtà.
Una congregazione femminile ha iniziato un collegio di Fe e Alegria in un quartiere periferico della città. Dopo alcuni anni, col crescere della città, il collegio si trovò nel centro urbano ed era frequentato da alunni delle classi medie. Le suore passarono il collegio ad altre mani e fondarono un altro collegio di Fe e Alegria in un quartiere della nuova periferia.
Un istituto maschile – nato tra i poveri e per i poveri – si era centrato sui collegi, le università e le parrocchie urbane. Un gruppo di religiosi desideroso di essere fedele al carisma iniziale, dopo molta opposizione, riuscì a creare una provincia nuova per dedicarsi alle parrocchie più abbandonate e per servire i poveri, sempre con la condizione di vivere in comunità costituire di almeno cinque membri. Passarono a questa provincia una buona parte dei superiori della provincia precedente e quasi tutti i giovani. Oggi è una provincia prospera con oltre 80 membri.
Talvolta alcuni fondatori e fondatrici hanno voluto esprimere il loro amore ai poveri costruendo grandi collegi o ospedali dove questi erano accolti. E oggi i loro figli e le loro figlie fanno lo stesso anche se forse la struttura di questo collegio o ospedale non permette l’accesso ai poveri. Avviarono questo genere di opere per i poveri e oggi queste stesse aule o camere di ospedale sono piene di gente facoltosa. Coincidono col fondatore o fondatrice in quanto opere materialmente belle, ma nello spirito sono lontane dall’intuizione iniziale. Le tradizioni seguite non corrispondono più alla tradizione dell’istituto.
Una formazione affrettata
La formazione è considerata la prima priorità e si sono cercati i migliori professori per dare ai giovani e alle giovani una formazione accademica di alto livello. Non si lesinano spese né tempo né personale preparato del proprio istituto. È una cosa buona ma forse non si è pensato di scegliere alcune persone preparate per un accompagnamento spirituale vicino e periodico. Non si è data la dovuta importanza alla vita comunitaria. Certamente si è realizzata una convivenza rispettosa e pacifica, ma nel migliore dei casi non si è creato un ambiente di fiducia e di trasparenza per giungere a essere veri amici e amiche nel Signore. Forse non c’è stato il tempo per una preghiera personale tranquilla né per riunioni comunitarie per giungere a conoscersi e accettarsi reciprocamente e per essere una testimonianza di fraternità cristiana. Si è dimenticata l’integrazione degli elementi fondamentali e alla fine si raccolgono i risultati che sono quelli di una équipe di buoni impresari apostolici, ma di religiosi e religiose mediocri.
Universalità oppure inculturazione e comunione?
Ci sono delle congregazioni che hanno un carisma missionario. Esso ispira le diverse attività dei loro membri come l’invio ai paesi dove la Chiesa non è fermamente stabilita o dove mancano operai per la messe. Vocazione meravigliosa che in certi casi suppone anche una dedizione generosa ed eroica.
Sembra che la ragione che ha ispirato la fondazione sia stata la necessità di inviare missionari in determinati luoghi prescindendo dall’origine geografica e culturale di chi è mandato. In altre epoche non era tenuta tanto in considerazione la necessità dell’inculturazione. La teologia era la stessa in India, in Spagna, in Germania o in Giappone. Il contenuto dell’evangelizzazione era quello che si trovava nei libri.
Oggi queste congregazioni continuano ad avere come tradizione immutabile quella di formare comunità di stranieri venuti dall’Indonesia, Australia, India, Polonia. Non c’è nessuno del proprio paese. Questi si trovano nei luoghi più impensabili. È un chiaro esempio dell’universalità della Chiesa e dell’unione nella diversità. In alcuni istituti si ha l’impressione che questo sia il criterio decisivo, che tutti i membri della comunità siano stranieri.
Credo che si debba tenere presente che negli ultimi decenni ha preso molta forza l’esigenza dell’inculturazione e di un nuovo stile di vita comunitaria. Nella nuova evangelizzazione c’è l’esigenza di inserirsi nella cultura, parlare bene la lingua, compenetrarsi con l’anima del popolo. E ciò può essere conseguito meglio da chi appartiene a quella terra. Nella vita comunitaria non basta trovarsi insieme in determinate ore per compiere alcuni atti comuni, ma bisogna conoscersi interiormente gli uni gli altri, accettarsi e giungere a essere veri amici nel Signore. Quando la maggioranza appartiene alla stessa cultura, ciò risulta più facile e i pochi stranieri vi si adattano. Ma se tutti sono di una diversa cultura, è molto difficile raggiungere livelli profondi di autentica amicizia e fraternità.
Perciò la domanda che dobbiamo porci è la seguente: cosa deve prevalere oggi, il criterio dell’universalità o quella dell’inculturazione del vangelo, della vita consacrata e della comunione profonda?
Incarnazione del carisma
Alcuni istituti hanno l’abitudine di inviare i giovani e le giovani nei primi anni di formazione nel luogo dove è nata la congregazione affinché assorbano alle fonti lo spirito della fondatrice o del fondatore. E li inviano in altri continenti. Oltre alla difficoltà ordinaria di lasciare la famiglia e il proprio ambiente per entrare nella vita religiosa, si obbligano questi/e giovani a subire l’impatto con un’altra cultura, una nuova lingua e un altro livello di vita. Dopo diversi anni alcuni tornano che sono perfetti italiani o polacchi. Forse non si tiene sufficientemente conto della necessità di incarnare il carisma nella propria terra e di non confondere la vocazione a una determinata congregazione con la cultura che la caratterizza. È molto diverso inviarli alla culla dell’istituto alcuni anni più tardi quando la persona è già strutturata nella sua personalità umana e religiosa. Allora, il confronto con un’altra cultura l’arricchisce e le allarga gli orizzonti. Al contrario, prima di questa maturazione e sicurezza di fondo può esserle di pregiudizio e di disorientamento. È evidente che bisogna tenere presenti anche altri aspetti come il numero dei membri in formazione. La cosa migliore è che facciano comunità in terra straniera che essere una o due persone nella propria terra. Non sembra tuttavia la cosa migliore seguire come norma di inviarle alla casa madre nei primi anni della formazione.
Abito e costumi superati
Ormai sono un’eccezione, ma in alcuni luoghi più conservatori esistono ancora istituti di vita attiva che sembrano non vivere in questo mondo o in questo secolo. Conservano delle espressioni proprie più del medioevo che del secolo XXI. Chiamano la superiora maggiore sua reverenza; invece di dire buon giorno salutano con sia lodato Gesù Cristo e se una non lo dice viene accusata di secolarismo. Per dire grazie dicono Dio la rimeriti. In alcuni istituti indossano abiti superati, lunghi fino alle caviglie, con scapolari, portano cuffie inamidate che coprono la fronte e le orecchie. Altre, per distinguersi fra tante congregazioni, hanno inventato abiti insoliti che li separano dalla gente comune. E al refettorio c’è il posto riservato alla superiora e anche e agli altri membri del consiglio secondo un ordine gerarchico rigoroso. Sembra che nella concezione del superiorato ciò che prevale sia la dignità e la gerarchia, non tanto l’idea dell’autorità come servizio.
Abbandonare questi costumi sembra loro un’infedeltà allo spirito della vocazione perché così ha stabilito la fondatrice e così si è sempre fatto. A volte in questi casi si mette tanto impegno nel salvaguardare le tradizioni superficiali, mentre non si pone altrettanto interesse nell’essere fedeli al carisma iniziale dell’impegno con i poveri e nell’educazione dei più abbandonati. Le giovani sono coloro che maggiormente notano il contrasto tra questi costumi e la vita reale e restano deluse dell’istituto e aspettano con ansia che giunga l’ora di un cambiamento radicale. O al contrario – ciò che è peggio – accettano tutto con sottomissione passiva e seguono la tradizione persino con piacere spirituale.
Stile comunitario
Se ci sono stati dei cambiamenti notevoli in qualche aspetto ciò è avvenuto soprattutto nel campo della vita comunitaria. Si è passati da una concezione di vita in comune centrata sull’osservanza regolare – più caratteristica della vita monastica – a uno stile centrato sulle relazioni personali. Tutte le comunità prima del concilio erano perfettamente strutturate secondo un modello unico, in cui tutto era regolato da orari rigidi e regole che determinavano fin le più piccole minuzie dei comportamenti. Molti istituti hanno inaugurato un nuovo stile di relazioni personali fatte di spontaneità e di cameratismo che rende molto gradevole e familiare la convivenza. Si vive tra amici e amiche che si conoscono intimamente e si amano amorevolmente. Ma è abbastanza frequente trovare istituti ancora molto strutturati con orari che regolano tutto: ore di silenzio e di studio, tempi di preghiera insieme in cappella, tempi di ricreazione. Sono i momenti dell’espansione, dello stare insieme allegramente, di raccontarsi gli ultimi avvenimenti del lavoro del giorno. È bello contemplare questo modo semplice e innocente di espansione. Ma è lo stesso stile di vita comunitaria instaurato dalla fondatrice nel secolo XIX che si continua a perpetuare per essere fedeli alla tradizione dell’istituto.Ma non c’è una conoscenza di ciò che passa nel cuore del fratello o della sorella, né un affetto personale con ciascuno e ciascuna così da poter dire realmente ognuno di essi “è mio amico”, “è mia amica”. Si tratta di uno stile di vita che può coesistere con relazioni educate e rispettose, ma può anche trasformare la comunità in un arcipelago di isole solitarie o in una residenza di semplice convivenza pacifica.
Divisioni in classi
Il concilio Vaticano II ha favorito la soppressione delle differenze in classi negli ordini e nelle congregazioni dove c’erano madri coriste e suore coadiutrici. Così pure la differenza tra quelle che portavano la dote e quelle che provenivano da famiglie povere. È stato un grande sollievo e ha promosso l’uguaglianza e la fraternità all’interno dei conventi. Allo stesso modo sono state soppresse o diminuite le differenze tra gli ordini maschili.
Ma forse non è ancora stata portata a termine questa logica di uguaglianza. In alcuni ordini esistono due categorie di sacerdoti: i professi e i coadiutori spirituali. I primi sono coloro che eccellono in scienza e virtù; gli altri, coloro che si dedicano al lavoro pastorale. Anche se ora, di fatto, non esiste più alcuna differenza concreta tra le due classi.
Questa differenza ha un’origine storica ed è dipesa dal fatto che a Roma temevano che il nuovo ordine – dedito alla missione apostolica – crescesse troppo e potesse pregiudicare la vita religiosa esistente, centrata sul canto delle ore canoniche in coro e nell’osservanza regolare. Il nuovo ordine all’inizio fu approvato ma a condizione che non superasse i 60 professi, ma ben presto bisognò rinunciare a questa restrizione. Si tratta di un caso in cui appare ingiustificato il permanere di una tradizione che crea differenze di classe quanto mai antipatiche. L’opinione attuale dei membri dell’ordine è che questa divisione non ha alcuna ragion d’essere, ma si continua ad andare avanti con una tradizione di cui nessuno comprende il significato.
Rottura e discontinuità nella formazione
Nella formazione c’è la tendenza sempre più diffusa a prendere molto sul serio le prime tappe, in modo che i giovani e le giovani possano dedicarsi principalmente allo studio e alla loro formazione. Ma ci sono ancora numerose congregazioni, particolarmente femminili, che inviano i loro giovani subito dopo il noviziato al lavoro pastorale nelle comunità apostoliche, spesso con la buona intenzione che si immergano nella realtà e imparino a integrare la preghiera con la vita. E anche per venire incontro alle necessità apostoliche che diversamente dovrebbero essere lasciate in mano ai laici. Negli istituti maschili è più facile la continuità poiché gli ordini e le congregazioni clericali hanno l’obbligo degli studi di filosofia e teologia.
Iuniorato
Diversi istituti – per l’alto numero di perdite ingiustificate di vocazioni – hanno capito che c’era una lacuna istituzionale nell’organizzazione dello iuniorato e hanno operato cambiamenti significativi.
Ma altri preferiscono seguire la tradizione, forse perché ritengono più importante dedicarsi alle esigenze apostoliche che non alla formazione delle persone o perché pensano che rimanga sempre una percentuale, per quanto ridotta, di giovani che perseverano. Si mette così tanto impegno nel promuovere le vocazioni e poi quando queste sono entrate si trascurano tanto allegramente.
Domando: non sarebbe ora di superare l’immediatismo apostolico e di elevare il livello culturale e spirituale dell’istituto, rompendo una tradizione così pregiudiziale? Una buona formazione è lunga e fa sentire l’assenza dei giovani nell’apostolato; ma poi in seguito alla buona preparazione, in una decina d’anni fanno più bene che non altri in quaranta.
In conclusione, le tradizioni di un istituto religioso sono, da una parte, quelle che mantengono il dinamismo e la vitalità di un carisma vocazionale e l’aiutano a incarnarsi nelle diverse epoche e nei diversi luoghi. Queste tradizioni fanno persistere gli elementi circostanziali in cui si incarna il carisma. Generalmente raggiungono una certa stabilità e alcune durano diverse generazioni. La vitalità di un istituto dipende dalla capacità di armonizzare il permanere della tradizione immutabile con l’adattamento alle nuove circostanze.
Tradizione e tradizioni si completano a vicenda giungendo a compenetrarsi fino a formare una cosa sola. Quando ciascuna di queste due realtà risponde al suo compito, l’istituto ha vitalità e lunga durata. Al contrario, se si perde o si svigorisce la tradizione, l’istituto perde la sua identità e presto langue e scompare. Ma se le tradizioni non si adattano alle nuove situazioni e circostanze di tempo, luogo e cultura, l’istituto si paralizza e diventa un oggetto da museo, forse molto venerando per la sua storia, ma inadatto per dare risposte nuove alle necessità del secolo XXI.
Carlos Palmés, sj
1 Queste considerazioni di p. Carlos Palmés,sj sono state pubblicate sulla rivista CLAR (nov. - dic. 2002) col titolo Las tradiciones que paralizan e che qui riprendiamo in una nostra traduzione.