GUERRA INFINITA IN BURUNDI

UNA PACE CHE NON VIENE

 

Sembrava che la pace fosse alle porte in Burundi. Invece tutto è stato rimesso in questione e la situazione potrebbe di nuovo diventare esplosiva.

 

Dopo otto mesi di assenza mi trovo di nuovo in Burundi per il solito servizio di insegnamento in seminario maggiore, ma anche per rivedere i confratelli e la gente di questo paese tormentato ormai da dieci anni guerra civile. Portavo nel cuore il sogno di ritrovare un paese in pace, o almeno sulla via della pacificazione. Ma non è così, purtroppo. Alla guerra non si fa mai il callo, almeno io non ci riesco.

Vengo dall’Europa che oggi si trova invischiata, suo malgrado, nella follia bellica di chi ritiene di poter dichiarare guerra a coloro che intralciano i propri piani e in spregio di ogni diritto internazionale. Arrivando in questo paese che conosce e subisce la guerra ormai da un decennio, sento che tutto questo ha un alcun che di tragicamente paradossale. Da noi possiamo (anzi dobbiamo …) gridare che la guerra è un’assurdità e un’ingiustizia, un lusso riservato a certi capi di stato che vogliono imporre se stessi e la loro volontà di potenza. Qui invece, dove non c’è chi non veda che la guerra sta guastando il tessuto sociale e morale di un’intera popolazione, non si può fare nulla o quasi nulla. Ti prende davvero una tristezza senza fine, al pensiero che chi scatena queste guerre, sofisticate o popolari che siano, non si rende conto che coloro che ne pagano le spese sono sempre i più poveri e gli innocenti!

 

SEMBRAVA

A PORTATA DI MANO

 

In questi giorni sono stato invitato dai miei confratelli di due missioni nel nord del paese a predicare loro il ritiro mensile. Siamo già in vista della quaresima e il tema era obbligato: l’itinerario quaresimale tracciato dalla parola di Dio per quest’anno liturgico, ciclo B. Recandomi per questa ragione in una missione che si trova abbastanza vicino alla frontiera rwandese e dovendo quindi attraversare quella metà del paese che io conosco poco, non ho potuto sottrarmi alla constatazione del contrasto, quanto mai stridente, tra la bellezza del paese con i suoi panorami ampli e suntuosi nel verde di questa stagione africana e i gravi problemi che vi si nascondono come un veleno seminato di nascosto; la contraddizione tra l’operosità di persone animate da una speranza inestinguibile e desiderose solo della pace e, dall’altra parte, l’impatto negativo che hanno sulla popolazione le notizie di guerra, di attacchi, di morti e di feriti che quotidianamente vengono a smentire coloro che vorrebbero che ormai la pace sia cosa fatta.

È vero che dallo scorso dicembre dopo la firma del “cessate il fuoco” si cerca di mettere in esecuzione gli accordi di pace di Arusha. Le autorità parlano ormai della pace come qualcosa di acquisito. Anche la gente sembra credere che ormai sia cosa fatta. Un giovane amico mi diceva qualche giorno fa con estrema convinzione che intambara iza guhera (la guerra ormai finirà).

Tutti sperano che il “cessate il fuoco” diventi realtà, visto che è stato firmato. Ma tutti sanno anche che, in fondo, si sta facendo finta che ci sia un’autentica pace, perché gli accordi non sono ancora entrati in funzione e non possono essere realizzati, visto che solo una parte dei cosiddetti “ribelli” ha messo la sua firma all’accordo e l’esercito governativo è costantemente impegnato in scontri sulle colline del Burundi.

In questi giorni dovrebbero entrare in funzione degli osservatori neutrali la cui provenienza non è stata tuttavia concordata tra le due parti. Queste si accusano reciprocamente di mancare ai patti. In questo modo gli scontri si moltiplicano, e la polemica tra le due parti si è fatta così aspra che il CNDD-FDD (l’opposizione al governo di Bujumbura) si è ritirato dalla commissione di applicazione degli accordi. Così ora la sicurezza sulle strade è di nuovo molto a rischio e non più assicurata tanto che sempre più frequentemente queste vengono chiuse e tutti si fermano: la guerra continua.

Quando la sera ho l’occasione di sedermi a parlare con i confratelli oppure con la gente dopo le celebrazioni liturgiche, il discorso cade inevitabilmente su questi argomenti. La frustrazione è forte: si direbbe che la pace era a portata di mano, ma non si è stati in grado di coglierla. Non sarà forse perché ci sono persone che hanno interesse che la guerra continui? Al di fuori del Burundi si specula sulla guerra e sulle armi. Anche in Italia …da quel che si sente!

Se uno poi viaggia, come tocca a me, non può non rendersi conto che la guerra continua, perché la strada centrale del Burundi da qualche anno è letteralmente picchettata di militari che stancamente ti guardano giocherellando con i loro kalashnikov. Essi non mi fanno più rabbia, ma tenerezza, soprattutto i più giovani tra loro, obbligati al servizio militare. Non sono forse costretti a spendere gli anni migliori della loro gioventù a fare la guerra? Chissà se ci saranno ancora tra qualche giorno!

 

I DANNI INFLITTI

AL TESSUTO SOCIALE

 

Con tutto ciò, se uno vive nella capitale o nelle principali città di provincia, rischia quasi di non vedere la guerra. La capitale infatti è come la vetrina di un negozio in cui si espongono le cose che si vogliono far vedere. Ma dietro la vetrina c’è ben altro! In occasione del ritiro predicato ai miei confratelli ho potuto sentire da loro i problemi delle comunità dell’interno del paese. Ciò che domina, anche dove non ci sono scontri tra esercito e opposizione, è la paura. Il paese è percorso dalle bande armate che fanno quello che vogliono, che rubano, saccheggiano e, soprattutto, fanno le loro vendette in una totale impunità.

I villaggi sono rimasti in mano agli anziani, alle donne e ai bambini. Moltissimi uomini e giovani sono alla guerra, il resto della gioventù non vede un futuro davanti a sé. E allora sono presi dal desiderio di dimenticare ed evadere, quanto possibile, da questa situazione disperata, in evasioni indegne di persone umane. C’è da meravigliarsi che l’AIDS si propaghi in modo rapido e irresistibile? Gli studenti si domandano che futuro avranno i loro studi fatti male e a spizzichi… tra forzate vacanze e giorni di paura.

La televisione nazionale, dal canto suo, cerca di imbonire il pubblico con programmi frivoli quando non apertamente alienanti. L’unico ideale proposto rimane quello di godersi questi pochi giorni che si hanno davanti e il sogno è di avere molti soldi, compagnie attraenti e successo a buon mercato. Va da sé che tutto questo provoca un’infinita frustrazione. Questo è il tempo in cui fioriscono gli affari dei cabaret e delle discoteche – l’ultima importazione del nostro mondo occidentale – tanto che negli week-end la corrente elettrica dei quartieri (dove essa ancora c’è) viene tagliata per darla a queste sale di festa. E siamo in piena guerra.

Mai come in questi giorni e in questa terra mi è parso di misurare l’impatto funesto della nostra cultura occidentale sulla cultura di questa terra. La globalizzazione fa piazza pulita dei valori tradizionali e s’impadronisce di queste popolazioni in modo tanto subdolo quanto alienante. Ci sono anche qui persone in favore della guerra contro Saddam Hussein. Nella sala d’attesa dell’aeroporto di Addis Abeba, quindici giorni fa ho incontrato un uomo letteralmente infatuato della politica americana e britannica. La propaganda televisiva lo aveva conquistato.

 

E LA CHIESA

LOCALE?

 

Anch’essa soffre in questo tempo e sembra un testimone frastornato e impotente in mezzo a un mondo stravolto. Tutto sembra procedere come sempre. Ma c’è come una specie di distrazione collettiva delle comunità cristiane: non si sa se ti ascoltano, la loro testa è altrove, occupata e preoccupata dagli avvenimenti in corso. In questi giorni la comunità cristiana di qui si è come… “ricaricata” grazie a due solenni celebrazioni pubbliche, perché ha vissuto due fine-settimana di festa per l’installazione del nuovo vescovo di Ngozi, dove il vescovo coadiutore succedeva all’ordinario dimissionario, e per l’ordinazione del nuovo vescovo di Muyinga. Due feste certamente dovute, ma due feste che, non solo a me, hanno dato la netta sensazione di essere organizzate alla grande, molto più della realtà, per poter dimenticare la nequizia dei tempi.

A queste cose i cristiani ci stanno, e sono accorsi numerosissimi a quelle lunghe cerimonie che per loro sono come una sagra popolare. Forse sono anche un’iniezione di fiducia e di ottimismo. Ma esaurite le feste, la gerarchia della Chiesa appare sempre più incapace di dire una parola nuova dentro questa situazione di guerra e di degrado sociale che alla fine si salda in una progressiva erosione dei valori dell’uomo e della comunità. Essa sembra presa da una crisi di afasia, di mutismo.

C’è da capirla. Anch’essa condivide il contrasto tra speranza e delusione, e sente tutta l’ambivalenza dell’attuale momento. E non osa dire nulla. Ma se anche la Chiesa finisce per correre dietro ai suoi spettacoli, siano pur liturgici, la sua reazione non sembra essere tanto diversa dalla reazione festaiola della gente comune. Nessuno pretende che la Chiesa si vesta di sacco e si cosparga il capo di cenere, né alcuno si augura che ritrovi i toni cupi del passato quando faceva cantare: Vyose n’ivy’ubusa (tutto è vanità).

Ma non dovrebbe la Chiesa ritrovare il suo profetismo per annunciare con nuovo coraggio e con rinnovata convinzione l’amore di Dio per questo popolo, il regno di Dio che viene anche ora? A lei toccherebbe aprire varchi di autentica speranza che rinnovi la vita della gente. Infatti questo mondo può diventare il regno di Dio e quest’umanità il corpo di Cristo. La vera speranza ha qui le sue radici, non tanto nelle promesse dei politici, ma in quelle che Dio fa risuonare nel fondo del cuore umano.

E la Chiesa dovrebbe saperle interpretare. Ma se la Chiesa non chiede alla società di ridiventare matrice dei valori autentici e non offre essa stessa le ragioni della sua speranza, rischia di diventare insignificante, lei che è chiamata ad essere il sacramento universale della salvezza. Ecco il rischio dell’ora presente.

 

Gabriele Ferrari s.x.