Lettera del superiore generale della Consolata

 

POVERTÀ, ECONOMIA E MISSIONE

 

Le molteplici ragioni di una rinnovata riflessione sull’uso dei beni nella missione. Un discorso che parte dal vangelo, passa attraverso il carisma di fondazione e risponde alle attese e alle sfide_della società di oggi.

 

Fra i motivi principali che hanno spinto recentemente il superiore generale dell’istituto missionario della Consolata, p. Piero Trabucco, a scrivere una lettera sul tema specifico di “Povertà, economia e missione”, c’è soprattutto l’esigenza di una maggiore radicalità evangelica nel vivere la povertà.

Non solo tra i missionari della Consolata, ma un po’ ovunque, tra le persone consacrate, “sta crescendo il bisogno di orienta­menti chiari e forti di fronte ad un mondo che si avvia verso la globalizzazione, dove sovente la ricerca del profitto e del possesso a qualsiasi costo diventa uno stile di vita, mentre la sensibilità verso le persone povere si fa più esigua e dove il miraggio di un guadagno facile sta penalizzando i valori della persona e della società”. Tutto questo è particolarmente vero per i missionari che, come quelli della Consolata, lavorano nelle periferie della società, a contatto con i più poveri ed emarginati; per questo è necessario affinare sempre più il proprio impegno nella testimonianza del valore evangelico della povertà, mirando ad un uso scrupoloso dei beni, a favore dei poveri e per una coscientizzazione missionaria della Chiesa.

Padre Trabucco è convinto che oggi non è possibile “intraprendere un autentico cammino di rinnovamento del personale, oppure dare una svolta decisa nella riqualificazione delle comunità, senza confrontarsi, in modo serio e concreto, con le esigenze del vangelo e della nostra consacrazione religiosa a riguardo dei beni materiali e dell’uso che di essi facciamo nella nostra prassi missionaria”. Scindere povertà e missione significherebbe minare la credibilità e l’efficacia del proprio impegno missionario.

 

DAL VANGELO

AL FONDATORE

 

In quest’opera di “rifondazione” dell’impegno di povertà, il punto di partenza non può che essere il vangelo stesso; infatti “è nell’insegnamento e nella vita di Gesù che la povertà troverà la sua espressione più completa”. Se per Gesù ciò che conta è il Regno e tutto è relativo ad esso, allora la povertà non sarà tanto la “miseria” materiale, quanto piuttosto il superamento della pretesa “di fare a meno di Dio e di gestire la propria vita da soli”; il vero valore a questo riguardo non è tanto l’assenza delle cose ma la libertà da esse per renderci solidali e diventare dono per gli altri.

Proprio dal vangelo nascono quelle linee di comportamento a cui ogni disce­polo di Gesù non può sottrarsi; quanto più ci si arricchisce del Regno, tanto ci si impoverisce dei beni del mondo; la progressiva rinuncia alle cose rafforza il proprio essere in Cristo; diventa così comprensibile l’affermazione di Gesù: beati i poveri! “Non sono beati perché poveri, ma perché, liberandosi dalle cose, sono ricolmi della pienezza di Dio. Sono beati perché non si sono lasciati prendere dalle realtà caduche, non hanno affidato ad esse la propria realizzazione, e sono diventati così le persone del futuro”.

Anche da questo punto di vista, per i missionari della Consolata non c’è che da guardare al proprio fondatore, Giuseppe Allamano che, formatosi alla scuola di santità del Cottolengo, aveva saputo sviluppare una illimitata fiducia nella Provvidenza; ai suoi missionari raccomandava di intraprendere qualsiasi opera non guardando alle difficoltà e al lavoro che avrebbe comportato ma accertandosi unicamente che fosse voluta da Dio; “gettiamoci pure in essa; non mancherà di riuscire”; con il ben noto realismo che ha contraddistinto la sua opera, raccomandava sempre una grande discrezione nei confronti dei benefattori, non importunandoli più di tanto, non “strombazzando” le necessità della missione, non trasformandosi ad ogni costo in “questuanti”: “no, no; non mi va, non vi voglio preti mercanti, ci sono già di quelli della diocesi che fanno questo mestiere, non voglio che voi, miei figli, facciate questo lavoro”. Nell’uso del denaro Giuseppe Allamano si lasciava guidare da un principio che ha sempre caldamente raccomandato ai suoi religiosi: “i denari non sono dati per le proprie comodità, per stare meglio noi, ma perché stiano meglio gli altri. Quando abbiamo il necessario, basta... Non dire: i denari ci sono...; denari bisogna averne per fare del bene, non per stare bene. Man mano che il Signore ce ne manda, si impegnano in opere buone”.

Fedeli all’eredità del fondatore, i missionari della Consolata intendono però attualizzarla in piena sintonia con la sensibilità ecclesiale attuale; se si è ancora convinti della “opzione preferenziale dei poveri”, allora ogni comunità cristiana non può non sentirsi spinta anche ad “evangelizzare” i poveri, condivi­dendo con loro la vita e ogni altra cosa; una scelta del genere, scrive padre Trabucco, “non è contingente, ma riflette una sua esigenza costituzionale e ha la sue radici nel vangelo stesso; non è settaria perché l’incontro con Cristo avvicina il cristiano ai poveri e a tutti coloro che hanno bisogno di salvezza”; scegliere i poveri significherà allora “condividere la loro sorte, identificarsi con le loro lotte, levare la voce in loro favore, pagare di persona la scelta di campo”. Il servizio ai poveri e la condivisione della loro sorte dovrebbero essere talmente connaturali, da diventare la “cartina di tor­nasole” della fedeltà di un cristiano nella scelta di Cristo e del suo Regno.

 

I SOLDI

E LA MISSIONE

 

Per comprendere fino in fondo il senso di questa nuova sensibilità ecclesiale, non bisogna però neanche dimenticarsi che fino a pochi decenni fa era normale per un missionario mettere a confronto il benessere di tanti paesi europei con la precaria situazione dei territori di missione. Nel contesto dell’animazione missionaria era allora spontaneo “dipingere a tinte fosche lo stato di povertà dei territori di missione, per suscitare la generosità dei cristiani d’Europa o d’America”. C’è voluto del tempo per accorgersi “che non sempre il denaro poteva risolvere i complessi problemi della giustizia sociale e che sovente le opere costruite con tanto sudore e con i sacrifici non indifferenti dei benefattori non raggiungevano gli obiettivi che ci si riprometteva”. Quante volte queste opere sono diventate dei veri boomerang contro gli stessi mis­sionari; interessi particolari, corruzione, burocrazia, vanificavano, senza accorgersene, anche le “opere” più straordinarie dei missionari; e così “diventava palesemente evidente che la situazione dei poveri non mostrava miglioramenti rilevanti, nonostante tutti i nostri sforzi e la nostra ingegnosità nell’escogitare sempre nuovi meccanismi di sviluppo”.

Il problema però non riguardava soltanto un certo tipo di gestione dei beni e delle opere da parte dei missionari; non si possono ignorare anche tanti disinvolti comportamenti delle Chiese “madri”; quanti missionari, infatti, “sentivano un intimo disagio con la prassi vigente, ma non perché si vergognassero a stendere la mano a favore dei poveri; si accorgevano che il problema “soldi” monopolizzava sovente il loro discorso sulla missione, per cui dire “missione” significava per tanti cristiani “richiesta soldi””. In queste condizioni, “come poter comunicare con efficacia al popolo di Dio messaggi, quali: la missione è annunciare Cristo, tutti ne sono responsabili, Cristo ancora chiama e invia alla missione...? E come proporre alle società del benessere i temi della giustizia, della solidarietà, della pace...?”.

Non si trattava certo di mettere sul banco degli imputati la generosità del popolo cristiano verso i poveri; una certa sensibilità critica nei riguardi dei soldi e dei mezzi destinati alla missione, è andata progressivamente maturando proprio a causa dell’enfasi eccessiva data a questi aspetti materiali, a tutto scapito di altri valori non meno urgenti e importanti.

 

Ogni volta che si riflette oggi sul rapporto con i beni materiali nell’ambito del lavoro missionario, non è possibile sottrarsi alla chiara percezione del fatto che “un eccessivo flusso di aiuto può ritardare la maturazione delle giovani comunità cristiane le quali, invece di responsabilizzare i propri membri all’autosufficienza, tentano la via della questua fuori del proprio paese”. Non è oggi possibile correre impunemente il grosso rischio “di perdere la trasparenza della testimonianza evangelica agli occhi dei neofiti e dei non cristiani”.

Purtroppo “quello che emerge più facilmente dalle opere missionarie non è sempre la solidarietà umana e cristiana di fratelli verso altri fratelli, quanto piuttosto il clima di un certo affarismo o di facile ricchezza”. Una evangelizzazione accompagnata da tanti mezzi e da molto danaro tende a minimizzare la responsabilità dei fedeli. La Chiesa non è sentita come “casa” propria e la comunità cristiana non è stimolata a uscire da se stessa per affrontare sfide e problemi del proprio ambiente. Perché c’è sempre qualcuno che dall’alto pensa, decide e realizza”.

 

IL PESO

DI CERTE ZAVORRE

 

Il missionario ricco di beni può arrivare ad erigere barriere difensive, a isolarsi dalla gente per proteggersi da essa, rifuggendo dalle situazioni di pre­carietà e di povertà, per non correre pericoli. La ricchezza, per natura sua, cerca l’isolamento, crea il ghetto, erige i piedistalli della superiorità. Tra il missionario “ricco” e i poveri, quanto è difficile che si creino relazioni di mutua fiducia, confidenza, amicizia, fraternità vera! Il crescere dell’internazionalità all’interno di un istituto come quello della Consolata, il permanere allo stesso tempo di situazioni di “ricchezza” in alcuni missionari, scrive il superiore generale, “possono creare barriere tra le persone all’interno della nostra famiglia missionaria, con conseguenze deleterie per lo spirito di famiglia e per la stessa evangelizzazione”.

Pur mantenendosi sempre in sintonia con la realtà odierna e pur nella chiara percezione delle sfide e dei bisogni del mondo attuale, l’impegno apostolico di un missionario deve sempre confrontarsi con l’insegnamento di Gesù e il suo stile di vita e di evangelizzazione.

Se l’evangelizzazione, scrive padre Trabucco, è la suprema lex dei missionari della Consolata, allora va attuato tutto ciò che la favorisce; “con coraggio dobbiamo chiederci se non è arrivato il tempo di deporre certi pesi e zavorre che con tanta prodigalità abbiamo addossato sulla nostra azione evangelizzatrice”. È esattamente quanto l’ultimo capitolo generale aveva chiesto ai missionari della Consolata: “impostare un tenore di vita povero nelle strutture e semplice nei program­mi di lavoro e nell’uso dei beni, ascoltando e accettando le interpellanze e la sensibilità dei poveri”. Anche questa è una conversione da attuare; ma per essere autentica dovrà confrontarsi direttamente con Gesù di Nazareth, non con l’ambiente o la gente che ci circonda. È sempre il documento capitolare che invita i missionari della Consolata ad una maggiore radicalità nel vivere la povertà: “Intendiamo condividere la vita coi poveri, i valori dei quali divengono per noi scuola di spiritualità nel rapporto con Dio, nella vita comune, nel lavoro apostolico”; non è infatti possibile la missione “senza essere “per” e “con” i poveri”.

Ma tutte queste affermazioni, si chiede padre Trabucco, quale impatto reale hanno “sul nostro modo di lavoro o su una prassi apostolica?”. Non basta parlare di forme più austere di povertà e di vicinanza ai poveri se poi non si ha il coraggio di inventare nuove esperienze di serena e fraterna accoglienza. E i superiori maggiori dovrebbero essere i primi a favorire e a incoraggiare queste esperienze, come dei “laboratori” di un modo nuovo di vivere la missione e di annunciare Cristo ai popoli.

Queste fondamentali premesse sull’ideale della vita religiosa, sul modo evangelico di considerare i beni terreni, sull’insegnamento del fondatore e sulla scelta preferenziale per i poveri, osserva il superiore generale, dovranno illuminare tutti gli aspetti pratici concernenti l’economia dell’istituto. L’ultima e corposa parte del suo discorso, infatti, è interamente dedicata alla prassi economica e all’amministrazione concreta dei beni nell’istituto della Consolata. Lo scopo di tutto il documento, conclude padre Trabucco, è quello di “aprire nel nostro istituto un dialogo franco, sincero e concreto sui temi legati alla povertà religiosa”, allo scopo di trarre dai principi esposti in questo documento “le scelte operative giuste”, scelte che a nostro avviso possono essere sicuramente ispiranti anche la prassi amministrativa di tanti altri istituti religiosi.

 

Angelo Arrighini

1 Bollettino ufficiale dell’Istituto Missioni Consolata, gennaio 2003.