ESERCIZIO DELLA CORREZIONE FRATERNA

UN GRANDE ATTO DI CARITÀ

 

Nella prospettiva biblica, la correzione fraterna è un atto di carità, con il quale si aiuta il fratello a emendarsi. Ma per esercitarla bisogna tenere presenti precise condizioni e modalità di comunicazione.

 

La correzione fraterna rientra tra le varie modalità e i mezzi con i quali si realizza concretamente l’impegno di costruire la fraternità nella comunità religiosa in cui ciascuno vive. Essa viene espressamente richiamata nel documento La vita fraterna in comunità (n. 32) e si rifà ad un esplicito invito che più volte troviamo nella Bibbia (ad esempio: Mt 18,15-17; Gal 6,1; Rm 15,14).

Può essere utile, quindi, che riflettiamo brevemente sul significato e l’importanza di quanto ci viene indicato dalla parola di Dio al riguardo e ci interroghiamo sulle modalità e le condizioni per metterla in pratica.

 

SIGNIFICATO

DELLA CORREZIONE FRATERNA

 

Collocandoci nella prospettiva biblica, la correzione fraterna si può definire come un atto di carità, attraverso il quale si intende aiutare il fratello a emendarsi da un comportamento cattivo (= peccato), che è un male per sé e per gli altri, così da aiutarlo nella sua crescita personale e nello stesso tempo facilitare l’edificazione della comunità. Essa, quindi, si propone formalmente di aiutare il fratello ad abbandonare il peccato e a seguire più fedelmente la volontà di Dio nella sua vita.

Coerentemente con quanto appena richiamato, san Tommaso afferma che la correzione fraterna è un atto di carità superiore al curare un’infermità corporale o alleviare forme di povertà (Summa Theologica 2-2, q. 33, a.1).

L’amore autentico per il bene del fratello è dunque l’unica vera e valida motivazione che giustifica la correzione fraterna. In quanto tale, essa è un dovere per ogni cristiano, espressamente suggerito da Gesù, anche se naturalmente è necessario, come per ogni atto virtuoso, tenere conto di condizioni riguardanti il tempo, il luogo e le modalità concrete per esercitarla correttamente.

Non si può parlare di correzione fraterna quando ci si rivolge ad una persona soprattutto perché siamo infastiditi dal suo comportamento, o preoccupati per qualche conseguenza negativa che ne potrebbe derivare, o semplicemente mossi dalla curiosità che ci porta a indagare e occuparci delle cose altrui (tendenza che nasce generalmente da un animo inquieto e disturbato). Si comprende allora come nella letteratura spirituale si possano trovare affermazioni che sembrano smentire il dovere della correzione fraterna. Ad esempio, si può leggere nell’Imitazione di Cristo: “Figlio... che ti importa che quella persona sia di tal fatta, o quell’altra agisca e dica così e così? Tu non dovrai rispondere per gli altri; al contrario renderai conto per te stesso. Di che cosa dunque ti vai impicciando?” (l. III, c. 24). Analogamente, san Giovanni della Croce in una delle sue opere minori suggerisce alcune cautele alle monache di Beas e scrive tra l’altro: “Non ti interessare di quel che sia o sia stato di qualche religioso in particolare: non della sua condizione, non del suo tratto, non delle sue cose per quanto gravi siano, e non dire niente a nessuno, se non a colui al quale è necessario dirlo a suo tempo, nemmeno sotto colore di zelo o di rimedio. Non scandalizzarti né meravigliarti di cosa che tu veda o senta, cercando di conservare l’anima tua in oblio di tutte queste cose”.

In realtà queste indicazioni vogliono mettere in guardia contro la curiosità, il gusto del pettegolezzo, l’ansiosa preoccupazione per quanto succede attorno a noi, in definitiva l’incapacità di inabitare in se stessi e stare nella pace.

Occuparsi delle cose degli altri può nascere da vana curiosità (M. Buber ricorda il consiglio dato dal Rabbi Mendel di Kozk: “non sbirciare fuori di sé, non sbirciare dentro gli altri”), ma anche il disinteressarsene può essere sintomo di una spiritualità individualista che porta a non sentirsi responsabili degli altri: nell’un caso come nell’altro il comportamento non è conforme al Vangelo.

 

CONDIZIONI

PER ESERCITARLA

 

Richiamata la motivazione di fondo che sta alla base della correzione fraterna, si possono ora precisare alcune condizioni e atteggiamenti generali che la devono accompagnare.

Anzitutto, essa va esercitata secondo la virtù (cardinale) della prudenza, perché la realizzazione del bene presuppone sempre la conoscenza della realtà: può fare il bene, infatti, solo colui che sappia come stiano veramente le cose. Il prudente saprà quindi in quale momento e luogo è più opportuno correggere il fratello; si renderà conto se egli è in grado e nello stesso tempo disponibile a comprendere il richiamo che gli viene fatto; cercherà di conoscere meglio che sia possibile quali motivi stanno alla base del suo comportamento negativo; valuterà pure oggettivamente se stesso, così da rendersi conto se avvicina il fratello mosso dal sincero desiderio del suo bene o per scopi meno nobili (per insofferenza, per tattica, per un bisogno narcisistico di volere gli altri simili a sé...).

In secondo luogo, la correzione fraterna deve essere realizzata con atteggiamenti di carità. Ad esempio: mitezza e dolcezza, senza arroganza (san Paolo (Gal 6,1) lo ricorda espressamente: “Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza”); “disposizione d’animo di dispiacere per quanto è accaduto al fratello” (Basilio di Cesarea); atteggiamento di misericordia e compassione unito a fiducia nell’altro; d. Bosco così scriveva ai suoi collaboratori incaricati di educare i giovani: “Allontaniamo ogni collera quando dobbiamo reprimere i loro falli, o almeno moderiamola in maniera che sembri soffocata del tutto. Non agitazione nell’animo, non disprezzo negli occhi, non ingiuria sul labbro; ma sentiamo la compassione per il momento, la speranza per l’avvenire, e allora voi sarete i veri padri e farete una vera correzione”. Si richiede anche coraggio, perché a volte può essere in realtà più comodo ignorare il cattivo comportamento di un fratello: è il coraggio che nasce da quell’autentica umiltà cristiana che ci fa ritenere inferiori a tutti e che è fonte di grande pace (cf. Imitazione di Cristo, l. III, c. 23).

Un’altra condizione che rende possibile – e autorevole – l’intervento della correzione fraterna consiste nel fatto che la condotta di chi la propone è coerente con ciò che sollecita da parte dell’altro: ciò che mi autorizza a indicare ad un altro la via da seguire è, in definitiva, il fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere.

Uno dei segni che possono essere rivelatori dello spirito e delle vere motivazioni che portano a correggere il fratello è la reazione che si sperimenta quando egli non ascolta il nostro richiamo e si chiude in se stesso: se prevalgono sentimenti di fastidio o di irritazione, anziché di compassione e speranza, allora è facile immaginare che il nostro narcisismo è rimasto ferito e non eravamo mossi da autentico amore per l’altro.

Giova pure ricordare che anche l’accompagnare la correzione fraterna con la preghiera è un segno che ci si muove nel modo più corretto e si è animati da motivazioni autentiche: pregare, infatti, esprime la consapevolezza che solo Dio possiede le chiavi del cuore umano e solo lui può far sì che “non pecchiamo contro la luce” (Newman) e ci apriamo alla verità.

Infine, la correzione fraterna va fatta con sobrietà e realismo: ciò significa, in concreto, secondo una regola spesso richiamata da papa Giovanni, che è saggio chiudere gli occhi su molte delle cose che si vedono attorno a noi e correggere solo ciò che si spera di poter far comprendere. E questo anche ricordando l’ammonimento di una persona saggia, la quale ricordava che per quanto riguarda i difetti degli altri noi abbiamo due possibilità: o cercare di levarli, e in questo caso rendiamo migliori gli altri, o sopportarli, e in questo caso rendiamo migliori noi stessi.

 

CORREZIONE

E SUE MODALITÀ

 

Le modalità comunicative concrete che si adottano nella correzione fraterna hanno la loro importanza. Suggeriamo qualche spunto concreto.

È utile anzitutto ricordare che non si deve mai giudicare la persona, quanto piuttosto il suo comportamento. A tale scopo è necessario anche descrivere in modo preciso il comportamento che si ritiene essere negativo (= peccato) e i riflessi che esso può avere sugli altri. Dire, ad esempio: “tu ti comporti male, sei di scandalo ai fratelli”, significa giudicare la persona e non aiutarla a capire in che cosa sta sbagliando. Può essere invece di maggiore aiuto rivolgersi a lei pressappoco in questo modo: “questo tuo comportamento (descritto in modo chiaro e il più possibile oggettivo) non è buono, è contrario alla carità per questi motivi... (da esplicitare con chiarezza)”. Può essere utile anche proporre esplicitamente ciò che, in alternativa, l’altro dovrebbe fare o non fare.

In secondo luogo, una persona alla quale ci si rivolge per esortarla a cambiare la sua condotta accetterà più facilmente tale invito se chi si rivolge a lei comunica in modo aperto e autentico i suoi sentimenti, i motivi che lo inducono a intervenire e gli effetti che il comportamento dell’altro ha su di sé (“quando ti comporti così, io sento..., penso..., costato che...”). Al contrario, una comunicazione di tipo strategico, generico, difensivo induce l’altro a bloccarsi e a difendersi a sua volta, non lo aiuta a fare un onesto esame del suo comportamento.

Ancora: di solito, la correzione fraterna non significa che ci si debba limitare a pronunciare semplicemente un giudizio sul comportamento dell’altro; di norma è auspicabile – e possibile – avviare un dialogo con la persona che si vuole aiutare e ciò suppone la capacità di saperla ascoltare e cogliere come lei vive e sente quel determinato comportamento e quali motivi lo spiegano. Capiterà allora, come dice un proverbio francese, che “più si capisce più si perdona...”.

 

Si è detto all’inizio che la correzione fraterna è un modo concreto di esercitare la carità: vale quindi per ogni cristiano. Può essere infatti facile pensare che essa competa soprattutto, o soltanto, a chi ha una qualche autorità e responsabilità (ad esempio: un superiore nei confronti dei membri di una comunità). San Tommaso dedica due articoli della sua Summa Theologica per far comprendere che la correzione fraterna non compete soltanto ai superiori, avvertendo tra l’altro che quando la si esercita nei loro confronti lo si deve fare non cum protervia et duritia, sed cum mansuetudine et reverentia (2-2, q. 33, a. 4). Con questo latino molto facile il santo ci ricorda un dovere che non è normalmente facile da esercitare, o per un certo timore che si potrebbe provare nei confronti dei superiori o per un’errata interpretazione di quella “riverenza” che lui suggerisce.

La riflessione sulla correzione fraterna ci porta, come ebbe occasione di sottolineare una religiosa interpellata sul tema, a comprendere come essa possa essere un’occasione preziosa per: esaminare noi stessi e verificare come esercitiamo in concreto la carità; valutare la coerenza tra le nostre parole (propositi) e il nostro vissuto; stimolare le nostre potenziali capacità di assumerci la responsabilità dell’altro. Ancora: essa è un’occasione propizia per conoscere l’altro e stabilire con lui rapporti meno formali e più improntati a verità e carità; nello stesso tempo può essere un’esperienza concreta attraverso la quale il fratello sente l’interesse che una persona ha per lui, cioè: si sente amato.

Infine, la correzione fraterna – dobbiamo ammetterlo – non è molto familiare nelle nostre comunità cristiane o all’interno delle comunità sacerdotali e religiose. Non per malanimo, certamente, o per intenzioni volutamente cattive, ma può capitare più facilmente che ci lamentiamo di un comportamento negativo di un fratello con una terza persona (magari il superiore), alla quale confidiamo il nostro “dispiacere” per come lui si comporta, auspicando nello stesso tempo che qualcuno intervenga e faccia qualcosa... Basterebbe, qualche volta, scegliere la via più diritta – che è sempre la più breve – e che è quella suggerita da Gesù: “Va’ dal tuo fratello e ammoniscilo fra te e lui solo” (Mt 18,15). Ma confidarsi con qualcuno – cioè mormorare! – è cosa più facile del parlare in modo franco e aperto per cui, direbbe il Manzoni, “anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire”.

 

Aldo Basso