LA PERSEVERANZA NELLA VOCAZIONE

IL CORAGGIO DI PERSISTERE

 

La forma attuale del martirio, nella vita consacrata, è data dalla perseveranza. Essa dovrebbe essere il criterio che sorregge il progetto di tutta una vita vissuta nel discepolato.

 

“Non stanchiamoci mai di fare il bene, perché se non ci stanchiamo a suo tempo mieteremo” (Gal 6,9). Queste parole di s. Paolo mostrano l’importanza di seguire Cristo fino alla fine, anche in tempi difficili e di prova. La perseveranza, come normalmente è chiamata, consiste nel “persistere nell’impegno finché non sia compiuto”. Con queste espressioni si apre la riflessione del redentorista p. Dennis J. Billy sul tema della perseveranza nella vita consacrata.1

Tutti i cristiani sono chiamati a perseverare nella loro vocazione. Per i religiosi questo impegno riguarda la disciplina cristiana vissuta in una comunità dedita ai consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. Questo dovrebbe essere l’unico, struggente progetto di tutta la loro vita, con risvolti personali e comunitari. Se non è così, allora significa che qualcosa è andato storto.

 

LA PERSEVERANZA

COME VIRTÙ

 

La perseveranza è sempre stata presentata dai teologi come strettamente legata alla virtù della fortezza, la virtù cardinale che modera le passioni della paura e del coraggio di fronte al grande male, specialmente la minaccia della morte imminente. La funzione della perseveranza è di sopportare le difficoltà che sorgono dal ritardo inerente a un compito che dura tutta la vita.

Come tale la perseveranza è intimamente associata alla pazienza, alla costanza e alla speranza. Per persistere in un impegno finché sia compiuto – sottolinea p. Billy – una persona deve sostenere le sofferenze presenti (pazienza) per un periodo di tempo prolungato (costanza) nell’aspettativa di raggiungere una meta distante (speranza). Come il maratoneta persevera facendo un passo dopo l’altro fino a giungere al traguardo, così i discepoli di Cristo sono chiamati a correre la buona corsa fino alla fine, ad ogni costo.

Lasciato alle proprie risorse, tuttavia, nessuno di noi potrebbe progredire molto nel cammino del discepolato. Seguire Cristo comporta il vivere in comunità, ascoltare la sua parola e lasciarsi condurre dallo Spirito. E benché noi abbiamo un ruolo importante in questo processo, una visione globale rivela una complessità di influenze che ci fanno progredire. La perseveranza nel discepolato cristiano richiede disciplina e allenamento di tutta la persona (corpo, anima e spirito) attraverso quei mezzi a tutta prova che sono i sacramenti, la preghiera, il digiuno, la penitenza e l’elemosina. E richiede il continuo supporto della grazia divina. Noi non possiamo persistere nella nostra vocazione senza l’aiuto di Dio. Tale aiuto giunge a noi sia direttamente, attraverso il movimento dello Spirito di Dio, che indirettamente, tramite parole e azioni delle persone che vivono attorno a noi. “Perseverare – ricorda p. Billy – non è mai un processo solitario”.

Come virtù, la perseveranza richiede moderazione e, nella ricerca della giusta misura, cerca di evitare gli estremi della mollezza e dell’ostinazione. “La mollezza riguarda la tendenza delle persone a rinunciare alla meta non appena sorgono difficoltà. Le persone “molli” non cercano l’aiuto appropriato e neppure l’allenamento necessario per affrontare gli ostacoli che incontreranno per raggiungere i loro ideali. In quanto al discepolato cristiano, sono persone che non hanno permesso alla buona notizia di attecchire in profondità nella loro anima. Non appena incontrano una difficoltà, girano le spalle e rinunciano. L’ostinazione, al contrario, riguarda la tendenza delle persone a continuare caparbiamente in un cammino anche dopo aver constatato di aver sbagliato direzione. Le persone “ostinate” rifiutano di cambiare il loro corso di azione anche dopo che la stessa ragione mostra la necessità di un cambiamento”. In riferimento al discepolato cristiano, “queste persone seguono il loro giudizio preconcetto, cocciuti nella mente e nel cuore, rigettando gli impulsi dello Spirito Santo. Il loro rifiuto di adattarsi alle nuove informazioni e alle mutate circostanze impedisce loro di seguire Cristo in modo liberante e gratuito”.

 

LA PERSEVERANZA

NELLA VITA CONSACRATA

 

Nel passato la vita religiosa è stata talvolta paragonata a una nuova forma di martirio. Quando terminò la persecuzione nella chiesa primitiva, lo zelo di donarsi completamente a Cristo trovò espressione nel monachesimo cristiano. Piuttosto che morire letteralmente per Cristo, i primi monaci morivano al mondo attraverso una vita dedicata ai consigli evangelici e a un regime quotidiano di pratica ascetica (preghiera, digiuno, lavo­ro manuale). I religiosi di oggi sono gli eredi spirituali di questo primitivo e straordinario movimento di ascesi cristiana.

Il martirio, antico e nuovo, è considerato il principale atto della virtù della fortezza. Benché esistano ancora martiri in diverse parti del mondo, il coraggio di dare la propria vita a Cristo è, per i religiosi attuali, solitamente manifestato attraverso la loro perseveranza. “Non potendo morire violentemente per Cristo in un singolo momento decisivo, il religioso si prefigge un impegno nel discepolato cristiano che dura tutta la vita”. Formando comunità e seguendo le orme di Cristo casto, povero e obbediente, essi cercano di vivere controcorrente rispetto alle culture dominanti e come segno escatologico del regno di Dio. “La perseveranza è essenziale per la vita in comunità e per la vita dei voti. La mollezza e l’ostinazione indeboliscono la testimonianza della vita religiosa e minano la sua efficacia”.

Per perseverare nella castità – afferma p. Billy – i religiosi devono essere consapevoli dei loro impulsi sessuali, così da poterli sublimare in modi appropriati e costruttivi. Devono riconoscere il proprio orientamento sessuale, le loro attrazioni, le loro difficoltà e devono sviluppare amicizie salutari con membri di entrambi i sessi. Quando ci si apre e si pone amorosa attenzione al mondo interno dell’altro, l’intimità cresce, diviene reciproca e più intensa. I religiosi dovrebbero essere incoraggiati a tessere profonde amicizie, ma insieme si dovrebbe mostrare loro come tracciare dei confini che li preservino dal compromettere le promesse fatte a Dio, mantenendo l’amicizia in un ambito appropriato. La possibilità di avere un aiuto psicologico, di counseling o di direzione spirituale dovrebbe aiutare i religiosi a far fronte adeguatamente a eventuali problemi nell’area della castità.

Il consiglio evangelico della povertà “è una chiamata alla semplicità, che può prevenire dal diventare disordinatamente attaccati a persone, luoghi e cose”; è una chiamata a essere poveri in spirito (cf. Mt 5,3). “Per perseverare nel loro voto di povertà i religiosi devono essere consci che il loro stile di vita incide sulla testimonianza che essi danno. Devono essere consapevoli dei compromessi, piccoli e grandi, che hanno fatto riguardo alla loro regola di vita. La perseveranza nella povertà è direttamente legata alle decisioni prese dalla comunità e dai singoli membri riguardo al cibo, l’abbigliamento, l’arredamento e, più di tutto, il possesso e l’uso del denaro. Anche se i religiosi non sono chiamati a vivere nella miseria, il loro stile di vita tuttavia dovrebbe essere semplice, sobrio, e approssimativamente equivalente da una comunità all’altra dell’istituto.

Per perseverare nell’obbedienza i religiosi devono mantenere il loro sguardo sull’esempio dell’obbedienza di Gesù al Padre. Quell’obbedienza sgorgava da una profonda, intima relazione di amore, rispetto e dialogo. Affinché una comunità perseveri in questo voto – afferma p. Billy – bisogna che i membri (specialmente i superiori) siano educati nell’arte del dialogo e nelle responsabilità di comprensione, empatia e sfida che l’accompagnano. Ancora una volta, gli estremi della mollezza e dell’ostinazione devono essere evitati. La prima piega le regole e interpreta la volontà del superiore secondo i progetti del singolo. La seconda riconosce le regole della comunità e la volontà del superiore per quel che esse sono, ma rifiuta caparbiamente di seguirle.

Per perseverare nella vita comunitaria, i religiosi devono bilanciare i loro bisogni individuali con le responsabilità nei confronti del gruppo. Per fare ciò devono mettere al centro temi come la presenza in comunità, il prendere decisioni, la preghiera comunitaria, la condivisione – tanto per citarne alcuni. La dinamica delle comunità dipende grandemente dai singoli membri. Non esistono due comunità uguali, anche quelle appartenenti allo stesso istituto religioso. Queste comunità, quindi, devono adattare le pratiche generali del loro istituto alle necessità dei membri a livello locale o provinciale. E nel fare ciò devono evitare gli estremi.

La “mollezza” nella vita comunitaria può essere personale o comunitaria. Un individuo decide di non partecipare alla comunità a motivo delle difficoltà che ha colto in essa. Un’intera comunità diviene “molle” o “tiepida” abbassando al minimo le responsabilità normalmente richieste dalla vita comunitaria.

Anche l’“ostinazione” nella vita di comunità può essere sia personale che comunitaria. Un individuo non accondiscende ai ragionevoli adattamenti della regola dell’istituto compiuti dalla comunità semplicemente perché non è d’accordo sulla loro appropriatezza. Un’intera comunità, a sua volta, pone resistenza ai necessari cambi nello stile di vita comunitario poiché teme le difficoltà che tali cambiamenti possono provocare.

 

IMPLICAZIONI

CONCRETE

 

Un’enfasi rinnovata sulla virtù della perseveranza – sostiene p. Billy – potrebbe aiutare i religiosi a fronteggiare l’attuale crisi della vita religiosa con maggior risolutezza. In questa direzione egli compie alcune osservazioni sui passi da compiere per aiutare le comunità religiose a riscoprire questo importante elemento della loro eredità.

Auto-riflessione. I religiosi non dovrebbero soltanto perseverare, ma anche crescere nella vita spirituale. Per fare questo è necessaria la conoscenza di sé. Se i religiosi vogliono seguire Cristo fino alla fine, devono conoscere le loro potenzialità e le loro debolezze. Solo così essi comprenderanno come crescere e come sostenere questa crescita. L’esame di coscienza e la revisione di vita possono essere utili; così come un regolare ricorso alla direzione spirituale e al dialogo con amici veri sui propri problemi.

Preghiera di domanda. I religiosi non possono perseverare senza l’aiuto di Dio. E quest’ultimo lo si può ricevere solo chiedendolo. Se i religiosi pregano umilmente per ottenere la grazia della perseveranza, sia individualmente che come comunità, riceveranno ogni aiuto di cui necessitano, e anche di più. I religiosi non devono essere timidi nell’identificare i loro bisogni e nel portarli a Dio.

Pratiche formative quotidiane. Per perseverare i religiosi devono cooperare con la grazia che chiedono e ricevono. Un modo per farlo è di offrire particolari pratiche quotidiane che permettano a cuore e mente di far fronte agli ostacoli che si incontrano nel cammino. Tali pratiche includono i tradizionali mezzi sacramentali e ascetici (preghiera, lettura spirituale, liturgia, atti di carità) e qualunque altra utile innovazione. I religiosi – personalmente e comunitariamente – dovrebbero ricordare sempre che hanno scelto queste pratiche specificamente come aiuti per una continua crescita nella vita religiosa. Altrimenti quelle pratiche saranno più una distrazione che un aiuto, e forse anche un ostacolo.

Amicizie genuine. Per crescere e perseverare nella loro vocazione i religiosi hanno bisogno di amicizie autentiche e profonde; amicizie orientate verso il bene (cioè al divenire virtuosi) e in particolare verso la vita comu­nitaria e i consigli evangelici. Non dovrebbero essere amicizie esclusive, ma aperte agli altri. E dovrebbero mostrare i segni caratteristici dell’amicizia: benevolenza, reciprocità e mutua appartenenza. Gli amici intimi si offrono l’un l’altro un sostegno sicuro e affidabile per le loro speranze e delusioni. Si aiutano reciprocamente a far fronte agli ostacoli. Senza tali amici, i religiosi rischiano di divenire isolati tra loro, con l’umanità e forse anche con Dio.

Attività comunitarie. I religiosi non crescono e non perseverano da soli nella loro vocazione, ma in e attraverso la comunità. La vita comunitaria è essenziale e necessita di concreta espressione. I membri della comunità devono periodicamente riflettere insieme sul loro modo di vivere e su come migliorarlo. I criteri per fare questo includono il valore della testimonianza della loro vita e il modo in cui sono trattati e risolti temi come la libertà individuale e la responsabilità comune. Le attività della comunità dovrebbero essere moderate nelle loro richieste, onde evitare gli estremi della “mollezza” (lassismo) e dell’“ostinazione” (rigidità).

Relazioni oltre la comunità. Le comunità e i loro membri devono coltivare salutari relazioni al di fuori del loro ambiente specifico. Possono essere altre comunità del proprio istituto oppure parrocchie, altre denominazioni religiose, associazioni professionali, club, ecc. Sempre cercando di preservare una testimonianza di fronte al mondo che sia di radicalità evangelica ed escatologica, i religiosi devono assicurare la comunità che non sono là per se stessi, ma per il bene di tutti. Il carattere di queste altre amicizie varierà da luogo a luogo – dalla comunità attiva a quella contemplativa – ma ci dovrebbe essere sempre una accogliente ospitalità, che può alimentare sia la perseveranza come le nuove vocazioni.

Carisma e missione. Per perseverare e crescere nella loro vocazione i religiosi devono essere dediti al carisma e alla missione del loro istituto. Fin dall’inizio i candidati devono divenire familiari con la teoria e la pratica dell’avventura a cui stanno per dedicare la loro vita. Dovrebbero rendere questa familiarità parte del loro stesso io, così da crescere nello zelo per la missione della comunità, sia essa attiva o contemplativa.

La perseveranza nella vita religiosa richiede un impegno personale e comunitario ai voti e alla vita comunitaria; e richiede di essere coltivata in ogni fase formativa (postulato, noviziato, juniorato, ministero attivo, pensionamento…). Soprattutto richiede di concepire la vocazione come un viaggio. Ciò significa che ogni circostanza va letta come un’opportunità per fare adattamenti al fine di mantenere saldo il fine del proprio istituto religioso, nel rispetto dei propri bisogni e di quelli della comunità locale.

In particolare – conclude p. Billy – i religiosi devono guardare alla perseveranza come un’espressione di coraggio. Il martirio per la fede può essere la più grande espressione della fortezza cristiana, ma la perseveranza nella propria chiamata non è certo da meno. Vale la pena di chiederla con insistenza a Dio.

 

E. B.

 

1 BILLY D. J. cssr, “Perseverance: the courage to persist”, in Review for Religious, 1/2003,  72-82.