LA MISSIONE TRA GLI IMMIGRATI

L’AD GENTES IN CASA NOSTRA

 

Un convegno nazionale organizzato dalla CEI ha dato nuova risonanza alle tante problematiche

connesse all’annuncio del Vangelo in una società multietnica e multireligiosa. Alcune linee pastorali da seguire.

 

Senza dubbio l’evento migratorio ha accelerato la storia provocando un confronto culturale e religioso al quale non si era preparati. In questo contesto – come spesso ha ribadito il papa – è inaccettabile scatenare guerre di religione e invocare Dio per provocare divisioni tra i popoli e all’interno della stessa società.

 

MIGRAZIONE COME VIA

DI EVANGELIZZAZIONE

 

Anche l’Italia, centro del cattolicesimo, e l’Europa, continente segnato dall’eredità del cristianesimo, sono diventate irrevocabilmente realtà multireligiose. Risulta così che nel nostro paese il 50% degli immigrati è costituito da cristiani (ogni 10 presenze 5,5 sono cattolici, 3 ortodossi, 1,5 protestanti); al secondo posto vengono i musulmani con il 35,4% e al terzo le religioni orientali con il 6,4%. Per questo motivo, negli ultimi anni, i Dossier statistici Immigrazione della Caritas italiana hanno dato sempre più attenzione al capitolo dell’appartenenza religiosa degli stranieri in Italia (cf. Testimoni 5/2002 e 2/2003), con l’intento di far percepire il fenomeno come una opportunità piuttosto che come una minaccia.

Su questa linea si è attestato proprio il recente convegno nazionale sulle migrazioni dal titolo La missione ad gentes nelle nostre terre, organizzato da tre organismi CEI (Fondazione Migrantes, Ufficio catechistico nazionale e Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese) e svoltosi a Castelgandolfo (RM) dal 25 al 28 febbraio 2003. Nella prolusione il presidente della CEI, card. Camillo Ruini, ha sottolineato che l’incontro più che estendere l’attenzione al molteplice servizio di accoglienza (sul piano socio-assistenziale, culturale e di accompagnamento nel processo di integrazione), voleva invece approfondire e far prendere coscienza del compito primario della Chiesa verso gli immigrati indicato dagli Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000 Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (n. 58): “Ormai la nostra società si configura sempre più come multietnica e multireligiosa. Dobbiamo affrontare un capitolo sostanzialmente inedito del compito missionario: quello dell’evangelizzazione di persone condotte tra noi dalle migrazioni in atto. Ci è chiesto in un certo senso di compiere la missione ad gentes qui nelle nostre terre. Seppur con molto rispetto e attenzione per le loro tradizioni e culture, dobbiamo essere capaci di testimoniare il Vangelo anche a loro e, se piace al Signore ed essi lo desiderano, annunciare loro la parola di Dio, in modo che li raggiunga la benedizione di Dio promessa ad Abramo per tutte le genti (cf. Gen 12, 3)”. A fondamento di questa peculiare missione è stata ricordata l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990), alla quale vanno raccordati i messaggi annuali del pontefice in occasione della Giornata mondiale delle migrazioni. In particolare tre di questi messaggi – Migrazioni ed espansione del Regno di Dio (1990); La fede opera per mezzo della carità (1997); La pastorale per i migranti, via per l’adempimento della missione della Chiesa (2001) – costituiscono un vero e proprio piccolo trattato di “missiologia delle migrazioni”, fortemente collegato all’enciclica stessa. Da essi si enuclea infatti la tesi generale (alla Chiesa “la migrazione può essere di aiuto nell’adempimento del mandato ricevuto dal Signore di annunciare il Vangelo a tutte le creature”, nn.1/1990 e 1/2001); la conferma storica (“Il compito di annunciare la parola di Dio, affidato da Gesù alla Chiesa, si è intrecciato fin dall’inizio con la storia dell’emigrazione dei cristiani”, n.2/1997); il segno dei tempi (“Molti popoli hanno conosciuto Cristo per il tramite dei migranti provenienti da terre di antica evangelizzazione… Oggi la tendenza si è come invertita: sono i non cristiani che sempre più numerosi si portano nei paesi di tradizione cristiana in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita”, n.2/1997); l’inseparabilità di evangelizzazione e testimonianza della carità (“Il cristiano evangelizza mediante la parola e le opere, entrambe frutti della fede in Cristo: le opere infatti sono la sua fede operante, mentre la parola è la sua fede eloquente… L’amore e il servizio ai poveri non devono condurre a sottovalutare la necessità della fede, operando un’artificiosa separazione dell’unico comandamento del Signore”, n.3/1997); il primato dell’annuncio (“Scopo fondamentale della missione della Chiesa è però l’annuncio di Cristo e del suo Vangelo. Essa sa che l’annuncio di Gesù è il primo atto di carità verso l’uomo, al di là di qualsiasi gesto di pur generosa solidarietà”, n.5/2001); l’annuncio come un dovere cui corrisponde un diritto (“Paolo viveva questo impegno come un dovere: “Non è per me un vanto predicare il Vangelo, è per me un dovere” (1 Cor 9, 16). Era infatti consapevole del diritto che i destinatari avevano di ricevere l’annuncio salvifico”, n.4/1997); lo scambio di doni (“I luoghi in cui i migranti vanno a cercare lavoro sono generalmente i paesi di più diffuso benessere. Ma, in questi, ai mezzi di vita non sempre fanno riscontro le ragioni di vita. Con la testimonianza della loro fede i migranti potranno richiamare l’attenzione di tutti sulla dimensione trascendente della vicenda umana”, n.7/1990. “A causa delle migrazioni popoli estranei al messaggio cristiano hanno conosciuto, apprezzato e spesso abbracciato la fede, grazie alla mediazione dei loro stessi migranti che, dopo aver ricevuto il Vangelo dalle popolazioni presso cui erano stati accolti, se ne sono fatti portatori al loro ritorno nel paese di origine”, n.4/1990).

Il convegno ha confermato l’importanza dei circa 3.000 centri di ascolto Caritas, delle tante altre iniziative di accoglienza (realizzate da parrocchie unitamente ad associazioni, congregazioni e organizzazioni varie), dei 30.000 e più volontari per la stragrande maggioranza credenti.

 

OCCASIONE

FAVOREVOLE

 

Nei centri di ascolto è passato, lo dicono le statistiche, circa il 60-70% degli stranieri che vivono in Italia. Si è anche detto che nei centri di ascolto non sembra registrarsi una esperienza di annuncio diretto del Vangelo: “Non abbiamo mai chiesto la religione di appartenenza. La nostra posizione è delicata, dobbiamo essere molti attenti. Non vogliamo neanche lontanamente far pensare che il nostro scopo è fare proselitismo e non vogliamo che ci sia alcuna discriminazione”. Anche dalle sintesi dei pre-convegni regionali emerge il difficile rapporto tra servizio caritativo e primo annuncio: è però sembrata più corretta la formula “i servizi di carattere socio-assistenziale si propongono in modo esplicito l’obiettivo di una autentica testimonianza” rispetto a quella più ambigua secondo cui “i servizi socio-assistenziali non hanno l’obiettivo di aprire all’annuncio”. Su questo punto si innesta evidentemente anche il problema di vivere l’accoglienza gratuita dello straniero dentro una comunità che sia soggetto credibile di evangelizzazione. E qui purtroppo si mostra il ritardo nella “conversione pastorale”: “La maggioranza degli immigrati sono cristiani! E tra essi ci sono tanti cattolici. Come mai molti immigrati cattolici dopo un po’ frequentano altri gruppi religiosi cristiani? Forse perché non si sentono a casa loro nella chiesa cattolica? La comunità cristiana dovrebbe mettere al centro gli immigrati cattolici per annunciare il vangelo, per discernere e per accogliere”.

Sul tema specifico e delicato dell’annuncio ai musulmani don Augusto Negri (direttore del centro F. Peirone, Torino) – con riferimenti alla situazione francese dove i musulmani sono all’incirca 4 milioni e dove circa 300 di essi intraprendono il catecumenato ogni anno – ha indicato alcuni elementi importanti per muovere i primi timidi passi: i cardini della missione nell’ambiente musulmano sono il dialogo e la testimonianza evangelica; non si può proclamare un annuncio esplicito se non fecondato da un’autentica testimonianza cristiana (ogni graduale passo nell’approccio dei musulmani corrisponde a un credito di fiducia da parte dell’interlocutore); non è impossibile, nel nostro ambiente culturalmente meno protetto dei loro paesi d’origine, che i musulmani possano conoscere, riflettere e discutere della religione con i cristiani e accostare per la prima volta il messaggio cristiano nella sua integralità; occorre, infine, prendere atto che la conversione dall’islàm al cristianesimo è una chiamata personalissima di Dio e che vanno ponderati attentamente i rischi che la persona, o i suoi familiari, dovranno affrontare.

 

ESCLUDERE

OGNI SCORCIATOIA

 

Per superare il disorientamento che ci prende un po’ tutti di fronte a questo inedito capitolo della missione a molti è sembrata importante la relazione di p. Franco Cagnasso, già superiore generale del PIME e missionario in Bangladesh. Egli ha sottolineato che ci attende un tempo che potrebbe rivelarsi un provvidenziale stimolo a rinnovare la nostra fede: “La ricerca esclude scorciatoie, risposte immediate ed esaurienti. Sono tali, ad esempio, lo sforzo di chiudere le porte per salvarci, di rifarci a modelli del passato per cercare di modificarli meno che sia possibile, o addirittura di ricostruirli. Ma sono scorciatoia anche le posizioni di chi afferma, in nome della tolleranza, del rispetto o del dialogo, che ognuno ha la sua religione e perciò su questo si debba tacere, cercando di stabilire rapporti sociali, umani, caritativi nei quali la dimensione religiosa sia tenuta tra parentesi”. L’immigrazione è infatti un’occasione favorevole per dilatare il regno di Dio: “L’aiuto che possiamo dare non è solo quello di eliminare o ridurre la sofferenza, ma anche quello di offrire ad essa un possibile sbocco, un orizzonte di fede… Qualcuno è preoccupato che una proposta esplicita di incontro con la fede cristiana indirizzi a uno sradicamento culturale. Preoccupazione doverosa, ma chi ci autorizza a misurare quali passaggi una persona sia chiamata a compiere nella sua vita, quali scelte e quali scoperte? In nome di che cosa implicitamente affermiamo che l’appartenenza socioculturale di una persona è più importante che la scoperta di come Dio la ama in Cristo?”.

“La Chiesa italiana, ha aggiunto p. Cagnasso, non dovrebbe limitarsi ad aggiungere una dimensione o una attività nuova alle molte che già ha, dovrebbe riscoprire la dimensione missionaria di tutti gli aspetti della sua esistenza e viverli più intensamente anche con iniziative nuove, ma sempre in un contesto complessivo, non frazionato. La riflessione critica che si sta facendo su una carità che, per essere lodevolmente aperta a tutti, diventa muta sulle ragioni della propria fede, è un esempio di ciò che intendo dire. Ci si è trovati per qualche aspetto un po’ impreparati e si sono date rispose affrettate. Si è pensato che fosse necessario scindere l’aspetto caritativo da quello missionario, e si è reagito alle possibili critiche di proselitismo prendendo un atteggiamento di difesa. Involontariamente si rischia così di svuotare di senso (agli occhi di chi riceve assistenza e accoglienza) ciò che si fa, rendendolo indecifrabile”. Certo che non si deve approfittare della condizione di bisogno dell’altro per farne un proselito: ma ciò non significa che si debba mentire alla persona nel bisogno, presentandoci diversi da come siamo; la carità di un rapporto vero con l’immigrato chiede che il credente si presenti a lui così come egli è, cioè trasformato da Cristo e perciò capace di accoglierlo come è, anche nella sua fede diversa dalla propria. Non è nonostante la mia fede ma nella mia fede che io rispetto la fede di un musulmano e riesco ad apprezzarla.

Questa presa di coscienza spinge p. Cagnasso a concludere che il primo passo nella evangelizzazione dei migranti è la preghiera. Perché a fronte di questa grande necessità/occasione, a cui non siamo in grado di dare risposta, non ci sia soltanto il nostro sforzo di intelligenza e di organizzazione, ma il porre nelle mani di Dio ciò che noi comprendiamo, e perché così maturi in noi quella docilità che ci renderà missionari come il Signore vuole. La preghiera è punto di partenza perché ciò che noi vogliamo fare non è pubblicità a un prodotto né raccogliere adesioni a un’ideologia. Noi abbiamo un compito di profezia, cioè di interpretare il presente alla luce della parola di Dio; abbiamo il dovere di offrire, a coloro che vivono un’occasione unica e spesso molto sofferta della loro vita, ciò che abbiamo di meglio, cioè l’esperienza di essere amati e salvati dal Padre nel Signore Gesù. La preghiera ci trasforma e ci rende capaci di risposte coraggiose e umili. Dio la ascolta inviando alla Chiesa i carismi, i doni di cui ha bisogno (cf. come si è sviluppato l’annuncio ai pagani negli Atti degli Apostoli). Occorrono vocazioni missionarie inedite, di persone che, pur non lasciando il proprio paese, si aprono al contatto con l’immigrato e gli propongono un cammino su cui lo accompagneranno scoprendo insieme cose nuove.

 

Mario Chiaro