LA CHIESA ALL’INIZIO DEL TERZO MILLENNIO

A NUOVE SFIDENUOVE RISPOSTE

 

Ci stiamo appena inoltrando nel terzo millennio, in un tempo sconcertante: confuso e appassionante, pieno di incertezze, ma anche carico di futuro e di speranza. Numerose sono le nuove sfide che si pongono alla Chiesa.Per rispondervi occorrono nuove risposte coraggiose.

 

Viviamo tempi di tramonto e di aurora. Nessuno potrà negare le drammatiche trasformazioni che si stanno producendo nel nostro mondo attuale. Non è qui il momento di soffermarmi a descriverle. Altri lo hanno già fatto con grande competenza. Ma vorrei mettere in risalto quelle che chiamerei le nuove sfide ed esigenze della Chiesa in base ai segni dei tempi. Lo stesso Giovanni Paolo II parla di «una situazione nuova». Ma a sfide nuove, nuove risposte. Ne descriveremo alcune nel corso di questa riflessione.

 

GLOBALIZZAZIONE

MINACCIA O FUTURO?

 

La globalizzazione – espressa plasticamente nel mondo dell’internet – è di solito associata ai processi economici. Ridurre la globalizzazione a un fattore, quello economico, è una “forzatura ideologica” (Alain Touraine), o una trappola che ne giustifica il rifiuto, ma che nasconde anche interessi particolaristici e chiusure nazionaliste. La globalizzazione unifica, mondializza tutto: cultura, economia, linguaggio, costumi, comunicazione, etica, ma allo stesso tempo discrimina e minaccia persone e popoli interi. Lo scandalo della globalizzazione economica è che i suoi stessi difensori ammettono che vi sono paesi in cui potrà vivere solo il 40, 50 o 60% della loro popolazione. È cinico, a dir poco, voler giustificare questo scandalo affermando che è meglio che viva il 40% della popolazione anziché abbia a sussistere il 10 o 20% . È allora giustificata la reazione alquanto adirata di Jon Sobrino quando afferma senza esitazione che in definitiva la globalizzazione è «un insulto ai poveri» perché cerca solo la «globalizzazione della ricchezza», anche se poi produce una «globalizzazione della povertà» in cui si trovano 1.500 milioni di persone che devono sopravvivere con un dollaro al giorno. In una parola, il problema sta nel sapere chi è che decide che il 40% della popolazione debba vivere e il 40% debba morire.

La globalizzzazione economica del progetto neoliberale è particolarmente pericolosa. Il libero mercato si traduce spesso in un idolo davanti al quale si sacrificano molte vite: sono i superflui e gli esclusi che non producono né consumano. In questa economia di mercato priva di solidarietà e crudele, che sembra inarrestabile non c’è posto per tutti. Il secondo Forum Sociale organizzato a Porto Alegre dal 31 gennaio al 5 febbraio dello scorso anno non si è limitato alle sole proteste. È stato detto che «un mondo diverso è possibile e tutti siamo chiamati a costruirlo». Questa è stata la consegna e l’opzione concreta degli oltre 60.000 partecipanti. E ne avevano ragione.

La globalizzazione “dall’alto”, pilotata dalle grandi multinazionali e dai governi e istituzioni internazionali al servizio dei loro interessi costituisce un attentato alla miseria di molti popoli ogni giorno sempre più poveri ed esclusi dal banchetto e dalla festa. Come non può non essere offensivo e desolante che le tre persone più ricche del mondo abbiano una ricchezza pari a quella di 600 milioni di abitanti dei paesi poveri?

Come rispondono i difensori di questa globalizzazione alle critiche dure e giuste che provengono da tutte le parti? Alimentando nelle basi sociali il desiderio disordinato di avere e possedere, alimentando l’avarizia, l’ostentazione e il consumismo e l’ansia di guadagno al di sopra di tutto e di tutti? È chiaro che questo atteggiamento si pone in contraddizione con le persone e le società che considerano primordiale le esigenze comunitarie, la solidarietà, la giustizia, il servizio, la moderazione e la condivisione.

La sfida che dobbiamo affrontare sta nel compiere ogni sforzo a tutti i livelli affinché la globalizzazione sia caratterizzata dalla solidarietà, dall’equità, dalla sostenibilità e dall’inclusione. In questa nuova epoca del mondo, vogliamo una globalizzazione solidale, rispettosa dei diritti di tutti: cittadini, popoli e mezzi posti al servizio della giustizia sociale, dell’uguaglianza e della sovranità di tutti i popoli. È quanto è stata chiamata «globalizzazione dal basso».

Bisogna cercare una società alternativa a quella attuale che non escluda nessuno, in cui tutti trovino posto e si faccia della persona umana e, in concreto, del povero e dell’escluso il centro dell’economia e della preoccupazione sociale. Non è un compito facile. Pare perfino impossibile. La Chiesa delle origini si trovò a confronto con l’impero romano. Ponendo in esso il lievito nuovo del Regno riuscì a cambiare il modello di convivenza: né sfruttatori né sfruttati, né padroni né schiavi, ma fratelli che condividono e convivono in comunione e solidarietà perché si amano. Questa è la grande sfida che abbiamo come Chiesa di comunione. In ogni caso, nell’intimo di questo fenomeno non si colgono forse il gemito e i dolori del parto di tutta la creazione a favore di un mondo più globale, più unito e fraterno? (cf. Rm 8,18-23).

 

POVERTÀ

IN CRESCITA

 

Un mondo caratterizzato da un progetto neoliberale che tutto pervade e che si presenta senza alternative rende ancor più cruda la situazione di miseria e di esclusione dei nostri popoli (gli esclusi sono per 1/3 nei paesi ricchi e 2/3 nel terzo mondo). Il fatto è che ogni anno ci sono poveri che diventano sempre più poveri. Non c’è da farsi illusioni. Il peggio del sistema neoliberale, ritengono alcuni, forse non è ancora venuto.

Di fronte a questa «gigantesca parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro» (Giovanni Paolo II), la Chiesa non può incrociare le braccia, vivere installata e a braccetto con i potenti della terra. La Chiesa deve alzare la voce perché le sarà domandato conto. Così come oggi dobbiamo chiedere perdono per non aver alzato la voce sulla schiavitù. Che non avvenga lo stesso domani per l’esclusione. Inoltre, se la Chiesa vuole essere fedele al suo fondatore deve denunciare profeticamente una situazione che è ingiusta, inumana e contraria «al piano di Dio e all’onore che gli è dovuto» (Puebla 28). Il Dio «sempre più grande» rivela la sua grandezza nella sua passione per il «sempre più piccolo». Perciò se la Chiesa perde la vertigine della carità rimarrà priva di originalità, credibilità e fecondità.

La predilezione per i poveri non è una moda nella Chiesa e mai lo è stato. È un atteggiamento che ha pervaso tutta la vita e la missione di Gesù (cf. Lc 4,18) e deve pervadere anche la vita dei suoi seguaci. Appartiene inoltre al cuore del Vangelo e costituisce una dimensione del Regno, un imperativo etico ed evangelico valido per tutti: «L’opzione per i poveri è inerente alla dinamica stessa dell’amore vissuto secondo Cristo. Ad essa sono obbligati tutti i discepoli di Cristo» (VC 82), diceva Giovanni Paolo II. È una chiamata che ci viene da Gesù e dal vangelo. La storia di questa opzione si confonde con la storia dell’esperienza cristiana.

In tutta la storia della rivelazione di Dio e della salvezza d’Israele c’è un versante che va definendosi con sempre maggior slancio e forza: Jhwh si rivela potente nella debolezza dei poveri e degli esclusi. Questo Dio che si fa difensore del povero, dell’orfano, dello straniero, della vedova, degli schiavi (Es 22,20-26; 23,6; 11,12; Dt 14,28-29; 15,7-18) è il Dio vivo e vero, che si rivela in modo ancor più scandaloso nella storia di Gesù di Nazaret. Dio ha voluto fare dei poveri i privilegiati della buona novella e il criterio per discernere la presenza del Regno. Se il modo di agire di Gesù è normativo per i suoi seguaci (i cristiani di tutti i tempi), allora bisogna riconoscere che, senza l’opzione preferenziale per i poveri, senza assumerne la causa e senza impegnarsi per la loro liberazione, mancherà qualcosa di costitutivo alla nostra pretesa di essere seguaci di Gesù. Questa è stata ed è la verità della Chiesa e continuerà a esserlo lasciandosi collocare dallo Spirito nel suo posto.

La Chiesa, in quanto sacramento universale di salvezza, attira o allontana coloro che le si avvicinano in base a quello che vedono. Non si tratta di semplici apparenze, ma della verità della sua vita espressa nei fatti e nei segni che tutti capiscono oppure no. Per questo dobbiamo chiederci onestamente. Siamo con chi esclude o con gli esclusi? I poveri della nostra società ci scoprono dalla loro parte, accanto a sé o ci sentono lontani, prigionieri di una religione di molte preghiere vuote di impegno cristiano? Abbiamo fatto esperienze nel mondo dei poveri (inserimento) unico modo di conoscerli veramente nei loro problemi, le loro angustie e speranze o parliamo recitando a memoria? La Chiesa ha parlato spesso e con molta forza dei poveri, ma non a partire dalla povertà e per questa ragione non è stata creduta. Con chi va a braccetto la Chiesa abitualmente? Dove stanno le nostre priorità? Che cosa cerchiamo: il “potere” e le “sicurezze” oppure il servizio umile senza altra sicurezza che la fedeltà del Signore Gesù e la docilità al suo Spirito? Non si tratta di condannare nessuno, quanto piuttosto di alzare la voce di fronte a fatti, atteggiamenti, titoli e segni che non vanno d’accordo col vangelo e che sono uno scandalo per molti e offuscano la missione della Chiesa.

Non possiamo diventare credibili e sarà impossibile dimostrare la nostra solidarietà con gli «oppressi, gli emarginati, gli anziani, i malati, i piccoli e quanti sono considerati e trattati come gli ultimi nella società» (VC 82), che sono i poveri secondo Giovanni Paolo II, se non ci sforziamo di vivere con semplicità e discrezione, lontani da ogni ostentazione, da privilegi e un certo orgoglio che sono sempre antievangelici per quanto cerchiamo di camuffarli con ragioni che non si trovano certamente nel vangelo e tanto lontano dal comportamento del servo di Jhwh, che vogliamo seguire. Ed è naturale che questo colpisca maggiormente quando proviene da persone di Chiesa che hanno una speciale responsabilità nell’incarnare l’immagine di Gesù, povero e umile, servo e servitore di tutti (cf. Mt 12,18; 20,26).

 

SOFFIANO VENTI

DI LIBERTÀ E AUTONOMIA

 

I tempi della modernità e della postmodernità hanno portato arie nuove di soggettività, di valorizzazione della persona, di uguaglianza fra tutti, di partecipazione e corresponsabilità, di libertà di espressione, di dialogo… Soffiano venti sempre più forti di libertà e di autonomia. Nessuno vuole essere schiavo o passivo. Tutti desiderano coinvolgersi nelle decisioni che loro competono e non tollerano strutture che li tengano in un perenne stato di minorenni. Di qui il rifiuto di fronte all’istituzione quando anziché favorire e potenziare la vita l’intorpidisce e la soffoca.

Anche nella Chiesa si manifesta una nuova crescente coscienza della dignità – unica e preziosa – di tutti i credenti e che non è altro che essere figli di Dio. Nella Chiesa non vi sono dignità né privilegi, vi sono servizi e ministeri. Ma il fatto di essere tutti, in quanto figli, fondamentalmente uguali, è un privilegio e un dovere che richiede partecipazione e corresponsabilità con questa comunità che è la Chiesa (una comunità viva non può avere membri morti). Ciò esige che la Chiesa abbia a ripensare le sue strutture di autorità e di governo.

Crisi di autorità o del modo di esercitarla?

Non ci troviamo, a mio parere, di fronte a una crisi di autorità nella Chiesa, poiché non è messa in questione la sua necessità né la sua legittimità. Non si discute il “principio” dell’autorità. Al contrario, si difende. Sarebbe molto pericoloso che l’autorità si debilitasse o perdesse il suo prestigio per essere esercitata male. Oggi ciò che molti sentono è questo: siamo di fronte a una crisi di una forma storica dell’autorità e del modello ecclesiale che la sostiene: c’è un’autorità-dominio e un’autorità-servizio (cf. Mc 10,45 s.). E sappiamo come la esercitò il Maestro.

Fascino per lo stile democratico e desiderio di libertà e di autonomia

Il crescente fascino che l’uomo d’oggi sente per lo stile democratico, il desiderio attuale di libertà e di autonomia, la riscoperta di una Chiesa come koinonia non permettono di pensare all’autorità come fonte del potere, né alla centralizzazione progressiva dell’autorità (a Roma), alla sua concentrazione intensiva nel papa, alla divinizzazione e sacralizzazione delle persone rivestite di autorità. Nel modello di una Chiesa come societas perfecta (lo schema giuridico-istituzionale) l’autorità gerarchica costituisce il principio strutturante, il centro motore di tutti gli impulsi e la realtà primordiale e autonoma (realtà anteriore, esteriore e superiore alla comunità ecclesiale che è ridotta alla condizione di un popolo impotente e passivo). Questa non è l’ecclesiologia del Vaticano II.

La verità è che l’autorità nella Chiesa è doppiamente de-assolutizzata: per il suo riferimento a Cristo (riconosciuto effettivamente come unico Signore) e per il suo reinserimento nella comunità. Collocare il ministero gerarchico all’interno della comunità non vuol dire attentare al carattere “istituito”, voluto da Gesù Cristo, alla dimensione gerarchica della Chiesa che ha sempre una funzione originaria e specifica, ma porla nella realtà strutturata della comunità. Nella comunità dei discepoli che Gesù scelse come apostoli: l’autorità non viene dalla comunità, ma è la realtà inglobante dentro la quale i ministeri sono posti come servizio per l’edificazione della Chiesa. Per il fatto di essere de-assolutizzata e relativizzata, la funzione e la figura dell’autorità nella Chiesa si trasformano. L’autorità non può infatti essere concepita come la realtà primaria e fondamentale, né interpretata in termini di potere posseduto personalmente e in maniera assoluta.

La sacramentalità del ministero ordinato consiste nel rappresentare nella comunità e per la comunità la sovranità amorosa e gratuita, attuale e permanente dell’unico signore Gesù Cristo. Perciò la funzione della gerarchia sarà di animare la vita che lo Spirito Santo liberamente suscita nella Chiesa, vale a dire rispettarla, accettarla, orientarla, promuoverla. Sarà compito suo anche discernere i carismi senza dimenticare che la libertà dello Spirito supera le frontiere che noi possiamo fissargli. Perciò la gerarchia deve stare molto più attenta per comprendere la vita che sono i carismi, la loro creatività e favorire il loro espandersi anziché regolare e disciplinare funzioni. I carismi nella Chiesa non possono essere addomesticati né uniformati e ancor meno soffocati poiché non c’è nessuna legge che sia al di sopra dello Spirito il quale è sempre creativo e libero, che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Gv 3,8), che supera i nostri piani e spesso li sconvolge. Non c’è nulla di strano che anche la stessa gerarchia abbia più di una volta l’impressione di «perdere il controllo degli avvenimenti» poiché «non sempre è facile e immediato il riconoscimento della provenienza dello Spirito»(MR 12).

Il passaggio da un modello giuridico-istituzionale a una concezione di Chiesa come koinonia richiede tradizioni giuridiche e istituzionali capaci di rispondere al cambiamento teologico operato nella coscienza della Chiesa e alla sensibilità sociale e al carattere democratico del nostro tempo.

Entro questa prospettiva devono essere posti certi fenomeni attuali (la contestazione all’interno della Chiesa, il desiderio di un dialogo franco e leale, la ricerca di una partecipazione adulta e responsabile, l’affermazione delle particolarità locali di fronte al centralismo, ecc.), invece di interpretarli come pericolose manifestazioni di falsa “democratizzazione”. Ridurre tutto a una crisi di obbedienza e a un rifiuto dell’autorità vuol dire ignorare la svolta ecclesiologica originata dal Vaticano II. La Chiesa comunione richiede un cambiamento reale del centro di gravità dell’autorità nella Chiesa. C’è da augurarsi che la “nuova figura” di autorità e del suo esercizio si imponga definitivamente per il bene della Chiesa. L’autorità bene esercitata suscita un’obbedienza accogliente, leale, adulta e responsabile. E all’interno della Chiesa bisognerà molto esaltare il carattere collegiale che Gesù ha voluto.

 

GUERRE CHE UCCIDONO

L’ANIMA E I POPOLI

 

In questo nostro tempo andiamo di sorpresa in sorpresa. Non finiamo di credere a quello che ogni giorno vediamo alla TV, ascoltiamo alla radio o leggiamo nei giornali. Tutti i giorni vediamo la morte all’opera. Viene annunciato con una certa naturalezza che questo o quel conflitto ha provocato 20, 30,40, 100… morti come se si trattasse di un’asta. Sembra quasi che la cultura del terrorismo come forma senza misericordia contro tutto e contro tutti, della vendetta senza limiti, della morte ingiusta, perfino di bambini innocenti, di famiglie distrutte abbiano una carta di cittadinanza in mezzo a noi. Ci stiamo abituando all’orrore e al sangue… Come se la cultura della pace, il rafforzamento del dialogo e il confronto sereno delle posizioni, con una buona dose di tolleranza, non fosse il modo migliore di affrontare i conflitti che possono sorgere tra di noi… La Chiesa deve apparire come una comunità alternativa in cui non viga la legge della giungla ma quella del Regno: fraternità, giustizia, uguaglianza, solidarietà, predilezioni per i poveri e gli emarginati, dono di sé fino al martirio. In questo mondo lacerato dall’odio, dalle rivalità, violenze e ingiustizie bisogna porre questo fermento di Dio per la storia che è la buona notizia di Gesù affinché questa umanità cresca in fraternità.

 

LA RIVOLUZIONE

TECNOLOGICA

 

Forse oggi la cosa più esaltante è la rivoluzione tecnologica e in modo speciale l’informatica. Andiamo di meraviglia in meraviglia. Tutti i giorni ci sorprende qualche scoperta che sembra impossibile. I progressi tecnologici sembrano non avere limiti e si ha persino l’impressione che l’uomo possa essere sostituito dalla macchina. Un medico diceva: «Possiamo prolungare la vita a una persona per anni». La rivoluzione tecnologica dell’informazione creerà nel secolo XXI la superstrada dell’informazione. Sarà questo il secolo della rivoluzione genetica con la scoperta del genoma umano: penetriamo nei segreti della vita.

È evidente che questa rivoluzione tecnologica potrà offrire degli apporti inconcepibili, delle possibilità veramente straordinarie, ma anche dei rischi drammatici (GS 4-5). Tutto dipenderà se ciò sarà posto al servizio della persona o diventerà uno strumento per renderla schiava. Le possibilità inedite che sono offerte dalla comunicazione, per esempio, sono sorprendenti e potrebbero diventare nuovi luoghi di presenza capaci di assumere in maniera creativa e suggestiva il contributo di ciò che è l’aspetto umano fondamentale. Qui il discernimento e la creatività diventano una sfida per tutti noi come Chiesa.

Un’identità perduta: verso una Chiesa più laicale

È un fatto storico incontestabile che per secoli i fedeli (laici) sono stati più consumatori di servizi religiosi che non protagonisti attivi di evangelizzazione. Il centro di gravità della Chiesa era il clero che aveva la competenza quasi esclusiva di pensare, di guidare nella responsabilità. I laici erano, per dirlo con una espressione plastica «la clientela dei preti». Nella Chiesa c’erano membri attivi (il clero che evangelizzava) e passivi (i laici che erano evangelizzati). In principio non fu così.

Oggi molti sono convinti che è scoccata “l’ora dei laici”. Alcuni osano andare anche più lontano e sostengono che la Chiesa del terzo millennio sarà la «Chiesa dei laici». Penso che queste affermazioni possono apparire polemiche e rivendicative. E forse in alcuni casi lo sono. Ma non è questa la chiave per interpretarle. Il fatto è, come ha affermato il papa, che nel corso di questi anni del post-concilio un numero crescente di laici hanno risposto con generosità alla «chiamata di Cristo a lavorare nella sua vigna».

Il concilio ha considerato la Chiesa nella sua totalità in base a quello che è comune a tutti fedeli. In questo modo il tema del laicato è stato posto nel contesto di una ecclesiologia totale, in cui l’unità che procede dal Padre per mezzo del Cristo nello Spirito Santo viene prima della distinzione, senza per questo annullarla, ma vivificandola nella dialettica della comunione e del servizio. Tutti i battezzati sono Chiesa e a tutti compete la missione che è comune benché diversificata così che ciascuno abbia a realizzarla secondo la “propria vocazione”.

Mai più dobbiamo considerare i laici come “la clientela dei preti”, ma come protagonisti – anch’essi – dell’evangelizzazione. In una Chiesa comunione tutti siamo necessari e nessuno può abdicare alla sua responsabilità e partecipazione. In questa Chiesa non vi sono membri attivi che danno e altri passivi che ricevono. La comunione per la missione è privilegio e dovere di tutti La partecipazione e la collaborazione dei laici non sono una strategia dovuta alla diminuzione degli effettivi. E tanto meno è una concessione della gerarchia. Costituiscono un’esigenza ineludibile del loro impegno battesimale.

Tutti siamo convinti in teoria dell’importanza della vocazione e della missione dei laici nella Chiesa. Ciò che importa oggi è che nella pratica si aprano canali di partecipazione e di corresponsabilità, non solo nella fase esecutiva ma anche in quella previa e fondamentale del discernimento concreto delle esigenze della missione. Senza i laici la Chiesa non può compiere adeguatamente la sua missione.

Giovanni Paolo II ha definito con gioia una grazia per il nostro tempo e una speranza per il futuro il fatto che i laici «prendano parte attiva, cosciente e responsabile alla missione della Chiesa in questa magnifica e drammatica ora della storia all’alba del terzo millennio» (Christifideles laici).

E di fronte alle urgenze dell’ora presente sottolineava la necessità che «tutti i laici siano protagonisti della nuova evangelizzazione… È necessaria la costante promozione del laicato, libero da ogni clericalismo e senza riduzione all’intra-ecclesiale».

Non è giustificabile pertanto che i laici siano trattati, a volte, come dei «minorenni». Essi devono partecipare a tutti i livelli nella vita della Chiesa, in forza della loro vocazione. Non si può giustificare che certi parroci, per esempio, riducano indebitamente questi spazi di responsabilità e di partecipazione nei consigli pastorali e altri compiti ecclesiali. Evidentemente i laici devono vivere il loro compito primordiale nel cuore del mondo e come uomini del mondo nel cuore della Chiesa».

Bisogna perciò che la Chiesa li stimoli a recuperare spazio e forza come segno dei tempi e li spinga a essere membri attivi e responsabili nel cuore del mondo affinché in famiglia, nella politica, in fabbrica, nell’educazione, nell’arte… siano fermento di Dio per la storia, diventino presenza del Regno e trasformino la realtà socio-politica, economica e culturale secondo i criteri del vangelo.

La Chiesa ha pagato un prezzo troppo alto per l’emarginazione dei laici. Questo deve servirci di lezione per il futuro. Non si possono sperperare fiumi di energia di cui abbiamo tanto bisogno.

 

IDENTITÀ

E MISSIONE DELLA DONNA

 

Oggi le voci a favore del riconoscimento dell’identità e della missione della donna si odono sempre più forti. I movimenti femministi, nelle loro espressioni più varie, non sono altro che una voce di allarme di fronte a una situazione millenaria di dominio dell’uomo e di mancato riconoscimento dell’identità della donna. Questa è stata incaricata, assieme all’uomo, di costruire e perfezionare il mondo e il creato.

Furono e sono secoli di incubazione, di germinazione di idee che non possono tollerare né soffrire ritardi. All’inizio del millennio bisognerà risolvere il seguente dilemma: o sarà l’ora in cui la donna si esprime come tale, con tutta la sua ricchezza e verità, o sarà il momento della distorsione del femminismo che si impossesserà di criteri e valori maschili come arma di difesa e segnale di affermazione, finendo con l’essere più nocivo dell’attuale situazione.

Uno dei segni di speranza in questo cambiamento di epoca, con tutte le sue incertezze e i suoi interrogativi è il rafforzamento del ruolo della donna nella Chiesa e nella società. La donna ha fatto irruzione nella società con la lucida consapevolezza di essere soggetto storico. E questo costituisce una scoperta del suo valore e dei ruoli sociali ed ecclesiali che di fatto ha assieme all’uomo, benché, spesso, non le siano riconosciuti. Nel progetto di Dio e nel modo di agire di Gesù, la donna ha la stessa dignità dell’uomo e appare come espressione vitale del volto femminile e materno della Chiesa.

La Chiesa, una volta di più, può essere un segno per il mondo e garantire la missione profetica di avanguardia che dovrebbe avere, dando esempio del cambiamento necessario. Il papa ha scritto pagine molto illuminate nell’esortazione post-sinodale sulla vita consacrata (cf. nn. 57, 58). Ha riconosciuto «il fondamento di molte rivendicazioni che si riferiscono al posto della donna nei diversi ambiti sociali ed ecclesiali» (57) e che «è legittimo che la donna consacrata aspiri a veder riconosciuta più chiaramente la sua identità, la sua capacità, la sua missione e responsabilità, sia nella coscienza ecclesiale come nella vita quotidiana».

L’esortazione deduce da tutto questo che «la nuova coscienza femminile aiuta pure gli uomini a rivedere i loro schemi mentali, il loro modo di comprendere se stessi, di porsi nella storia e di interpretarla, di organizzare la vita sociale, politica, economica ed ecclesiale» (57). È pertanto necessario indicare alcune linee:

– la Chiesa non deve vedere le donne come spettatrici, ma deve riconoscere loro il diritto di partecipare a tutti gli ambiti di organizzazione e discussione della Chiesa, compresi naturalmente «quei processi in cui si elaborano le decisioni, specialmente nei problemi che le riguardano direttamente» (VC 58);

– deve attribuire alle donne la loro immagine di prime missionarie della buona novella nella Chiesa e nel mondo;

– deve evitare qualsiasi discorso o comportamento che sappia di maschilismo o di mancanza di considerazione della donna;

– non deve abbassare la qualità della formazione delle donne nella Chiesa;

– sul piano sociale deve denunciare con forza la schiavitù assolutamente ingiustificata ancora vigente delle numerose donne in diversi campi sociali e culturali.

 

Personalmente sogno una Chiesa che integri maggiormente le donne al suo interno, facendo propria la prassi di Gesù che predicò la buona novella del Regno circondato da discepoli e discepole (cf. Lc 8,2; 24, 9-10). Desidero vivamente che accolga la donna come dono di Dio, come gratuità e tenerezza divina, poiché in questa civiltà della violenza e dell’individualismo, essa è una riserva di umanità per la cultura della vita e della solidarietà. Ammiro la Chiesa quando si sforza di abbandonare il suo carattere millenario di dominio patriarcale, rivede tutto il problema del genere e pone il «genio femminile» al servizio della fecondità della Chiesa.

 

VERSO UNA CHIESA

SENZA FRONTIERE

 

Senza dubbio, la nostra società è pluralista. Si moltiplicano le proposte più diverse nel campo del pensiero, delle soluzioni pragmatiche a situazioni complesse in cui molti vogliono essere coinvolti. Non sappiamo gestire il pluralismo. Lo Spirito che abbatte ogni frontiera aprirà dei cammini. Le sue chiamate e la nostra docilità ci renderanno capaci di offrire un nuovo modello di ricerca continua di dialogo e accoglienza, di superamento dei conflitti che sorgono nell’ambito dell’inculturazione, di nuovi modelli di pensiero e di vita. Questo pluralismo, unito allo stile democratico, privilegia la ricerca dei consensi anziché i confronti, e questo è molto positivo.

Karl Rahner avvertiva, ormai parecchio tempo fa, che esiste il pericolo di confondere il «piccolo gregge» con il «ghetto». In mezzo a tanti milioni di uomini e donne siamo «un piccolo gregge». E lo saremo ancor di più in futuro. Tuttavia, «quanto più piccolo si fa il gregge di Cristo nel pluralismo della società contemporanea, tanto meno esso potrò permettersi di avere una mentalità di ghetto e di setta, e dovrà essere aperto verso l’esterno».

Lo Spirito conduce la Chiesa, mediante il suo dinamismo interno, a un atteggiamento di amore, di simpatia verso ogni uomo, di dialogo rispettoso e sincero, di ricerca in comune, di responsabilità e speranza, senza porsi al di sopra degli uomini che non conoscono la Chiesa o la conoscono male.

La novità del Vaticano II è consistita nel proporre diversi gradi di appartenenza alla Chiesa (cf. LG 14-16). La cosa più importante non sta nel tracciare frontiere per sapere chi è dentro e chi è fuori, ma nel costruire ponti che aiutino le persone ad aprirsi al mistero di Dio. La Chiesa non conosce frontiere. A tutti senza eccezione rivolge il suo messaggio senza imporlo a nessuno. Il lievito dell’universalismo che Gesù ha posto nelle viscere della Chiesa la fa fermentare senza cessare.

Le grandi cause della pace, dei diritti umani, della lotta contro la miseria, la violenza, il narcotraffico e altre pestilenze che minacciano di sterminarci devono trovarci tutti all’avanguardia di un gigantesco sforzo di solidarietà e di comunione per creare insieme un progetto collettivo di speranza e di futuro per tutta l’umanità. È un imperativo urgente e ineludibile. Cercando di riunire le volontà attorno a un progetto comune, la Chiesa mostrerà di essere «segno e sacramento di unità del genere umano» (LG 1). Con la sua vicinanza cordiale e la sua solidarietà impegnata con tutti gli uomini e le donne che, anche senza condividere la stessa fede, lottano per le grandi cause dell’uomo, la Chiesa dà testimonianza del «sogno» di Dio per l’umanità: vivere in comunione con lui e con tutti gli uomini e le donne.

L’ecumenismo costituisce una grande esigenza per la Chiesa di Gesù Cristo se vogliamo essere fedeli al mandato del Signore: «Che tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).

Tornare all’unità di tutti i cristiani è un imperativo indilazionabile per tutti noi. È stata la grande passione di Gesù e deve essere anche la nostra. L’aver compromesso questo desiderio del Signore ha costituito uno dei grandi peccati del secondo millennio per il quale Giovanni Paolo II ha chiesto perdono durante la quaresima del giubileo. È uno scandalo vedere i cristiani divisi quando il Signore ha chiesto che fossero una cosa sola. Su questo problema dell’unità, la Chiesa gioca la sua credibilità. È questione di vita o di morte. Certamente sono stati compiuti alcuni passi importanti nell’avvicinamento agli ortodossi e ai seguaci della Riforma, ma resta ancora molta strada da percorrere. La Chiesa non può predicare un vangelo diviso.

Un’altra grande sfida per la Chiesa è l’apertura al dialogo con le religioni non cristiane. Il famoso incontro di Assisi tra Paolo VI e i capi delle altre religioni ha aperto un cammino di speranza che deve essere intensificato in ogni circostanza.

E non solo questo. È necessario anche un dialogo con il mondo moderno e postmoderno, riconoscendo i «germi dello Spirito» che sono presenti in esso, per esempio nel movimento pacifista, femminista, ecologista, nel dialogo interculturale con le diverse culture originarie e moderne, il dialogo interreligioso, ecc. E bisognerà dialogare anche sulle nuove esigenze della persona umana per quanto riguarda il corpo, l’affettività, la sessualità (V. Codina).

 

In conclusione, animati dallo Spirito e considerando questa epoca come un tempo che Dio ci ha concesso per vivere la gioia del vangelo e testimoniarla agli altri, ci chiediamo come poterlo fare.

Di fronte alle grandi sfide che i segni dei tempi pongono alla Chiesa, penso che:

– siamo chiamati insistentemente a realizzare un nuovo modello di comunità cristiana che abbia come caratteri propri il valore della solidarietà, della giustizia e della pace, il servizio a tutti e specialmente ai poveri e abbandonati, dove si respirino arie di libertà e di autonomia di figli e non di schiavi, sulla base di una partecipazione di tutti alla missione della Chiesa, ciascuno secondo il suo carisma;

– siamo spinti a vivere una comunità alternativa in cui nessuno sparga il sangue del fratello, ma dove uno sia disposto a spargere il proprio per il fratello, vale a dire che il mondo non sia una giungla dove prevale il più forte ma un grande focolare, un «villaggio globale» in cui tutti si sentano a casa propria, dove vigono le leggi del Regno: uguaglianza, giustizia, solidarietà e riconciliazione;

– siamo spinti a creare un mondo migliore per tutti e non solo per alcuni, dove la competizione aggressiva sia sostituita dalla condivisione fraterna. Per il resto, siamo padroni delle nostre scoperte o schiavi? Con le nostre conquiste tecnologiche serviamo gli uomini e le donne del nostro tempo o le rendiamo schiavi?

– siamo consapevoli che in una Chiesa di comunione per la missione non si deve emarginare nessuno, come è avvenuto in passato. Bisogna integrare tutti, specialmente i laici, la donna e i giovani nella missione della Chiesa poiché tutti sono membri attivi di una Chiesa viva. Nel popolo di Dio tutti sono pienamente membri, con gli stessi diritti e doveri, e alla radice di ciò sta la comunione alla medesima condizione cristiana, a partire dalla quale cresce e si costruisce l’ “uomo nuovo” (personale e comunitario) nella piena dignità e libertà dei figli di Dio;

– siamo infine spinti dallo Spirito ad aprire un dialogo senza frontiere con tutti gli uomini di buona volontà nella convinzione che nessuno possiede lo Spirito ma è lo Spirito che possiede tutti noi e stimola la Chiesa a dialogare senza mai stancarsi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, aperti ai nobili ideali che sono nascosti nel cuore di ogni persona.

 

José M. Guerrero