COMPORTAMENTI RELAZIONALI IN COMUNITÀ

ALTRUISMO VERO E MASCHERATO

 

L’altruismo è un atteggiamento complesso, dalle molte sfaccettature poiché implica fattori e motivazioni legati alla persona che si prodiga. Non deve essere dato per scontato. A volte infatti può camuffarsi sotto motivazioni non autentiche.

 

La parola “altruismo” sembra abbondare oramai nel nostro dizionario abituale e in particolare nel contesto della vita religiosa. Siamo abituati a pensare che per il solo fatto di essere a contatto con gli altri, o perché facciamo parte di una famiglia religiosa, noi siamo “naturalmente altruisti”. A volte supponiamo che nella vita comunitaria, con le sue regole, le sue esigenze, e la ricchezza dei vissuti relazionali, la dedizione reciproca sia scontata. Ma non sempre è così.

Se da una parte il termine altruismo connota dei comportamenti interpersonali che possono indicare l’impegno esplicito e gratuito verso le persone che ci circondano, dall’altra è anche vero che, dal punto di vista psicologico, le azioni altruistiche possono sottendere dei tornaconti personali che si possono ottenere attraverso la propria disponibilità a fare del bene. La psicosociologia ci insegna che ogni comportamento relazionale vissuto all’interno di un gruppo primario, dove le persone sono legate da rapporti concreti, ha un significato di reciprocità. Questo vale per le relazioni di coppia all’interno di una famiglia come per il clima di gruppo in una classe di studenti, per le relazioni collaborative di una équipe di lavoro come per la dedizione reciproca in una comunità religiosa.

Pertanto l’altruismo è un atteggiamento complesso, dalle molteplici sfaccettature, perché implica fattori e motivazioni legati alla persona che si prodiga, ma anche fattori interpersonali e contestuali. Infatti, se da una parte esso è la tendenza ad agire per il benessere degli altri, è vero che nel fare del bene beneficiamo anche noi di qualcosa, forse di una sorta di ricompensa inconscia, una specie di autoricompensa che accompagna la soddisfazione di essere stati utili agli altri.

Accorgerci di tutto questo vuole dire affinare la nostra capacità di essere autentici nei gesti di altruismo che abbiamo nei confronti dei confratelli e delle consorelle, perché la comunità sia una vera schola amoris, dove ognuno si impegna ad amare gli altri con la stessa gratuità con cui Gesù ci ama quotidianamente.

 

SIGNIFICATI PSICOLOGICI

DELL’ALTRUISMO

 

Procurare dei favori o prestare attenzione alle persone che vivono con noi in comunità vuole dire sapere distinguere cosa accade in queste transazioni interpersonali. Con i loro comportamenti positivi le persone scambiano stimolazioni interpersonali con cui manifestano concretamente la loro dedizione reciproca. Procurare favori, dare una mano a chi si trova in difficoltà, collaborare per i servizi spiccioli della vita quotidiana, sono tipici esempi di azioni orientate al bene comunitario. Indipendentemente dal termine che preferiamo usare, e da ciò che vogliamo sottolineare, sta di fatto che ogni azione orientata al bene comune è qualcosa di molto coinvolgente, perché permette di partecipare di fatto al progetto di vita fraterna, e contribuisce alla crescita dell’intera comunità.1

Ma dal punto di vista più eminentemente psicologico, perché siamo propensi al bene comune? E perché in alcuni contesti questo “bene comune” diviene occasione di tensione interpersonale? Infatti, alcuni comportamenti altruistici sottendono dei significati intrapersonali e interpersonali che servono ad accudire noi stessi piuttosto che gli altri. Alcuni autori definiscono questo come un “altruismo egoista”,2 dove la generosità può tramutarsi in una sorta di “trappola” intrapsichica, soprattutto quando serve a soddisfare propri desideri rimasti irrisolti, e non tiene conto della verità e dell’unicità di cui l’altro è portatore. Autori come Anna Freud hanno lungamente sottolineato come alcune forme di generosità sono modi mascherati di esitamento o di mascheramento di sentimenti di aggressività che sono ancora presenti nel cuore della persona.3 A volte succede anche che interessi individuali sono subordinati a quelli di altre persone e servono per la risoluzione di conflitti interiori. Da questa prospettiva potremmo dire che molte forme di carità reciproca piuttosto che essere “caritatevoli” (cioè espressione di amore genuino) si risolvono in pietà condiscendente, ostilità sottesa, tragica colpevolizzazione. A volte quindi le persone possono essere disponibili le une verso le altre ma per ottenere soddisfazione per se stesse.

A partire dalla considerazione che nei gruppi significativi (come nel caso delle comunità religiose) possiamo distinguere tra relazioni reciproche e relazioni altruistiche, vogliamo identificare due diversi livelli con cui si esprime il nostro senso di dedizione interpersonale, per cogliere come l’altruismo sia effettivamente uno strumento per accrescere il passaggio dall’io al noi, «dal mio impegno all’impegno della comunità, dalla ricerca delle “mie cose” alla ricerca delle “cose di Cristo”».4

 

ALTRUISMO PARTECIPANTE

E COLLABORATIVO

 

La vita di ogni giorno, le regole che ogni comunità religiosa ha sembrano rendere ragione di un attivismo relazionale che impegna le persone a darsi da fare, anche nei piccoli servizi quotidiani. Anche nella vita consacrata siamo strutturalmente organizzati in un sistema relazionale in cui ci si dedica ai confratelli o alle consorelle per rendere visibile l’amore di Dio attraverso i concreti rapporti di ogni giorno. Questo flusso di stimolazioni relazionali viene regolato all’interno di un sistema organizzato a cui tutti partecipano con una dedizione reciproca che passa attraverso la struttura formale del gruppo.

La caratteristica di questo tipo di altruismo è quella di essere un altruismo senza gli altri. Non si dirige verso le persone che conosciamo e con cui condividiamo le ansie e le gioie, ma è un altruismo che si indirizza al contesto gruppale formale, fatto di regole e di norme, di orari e di regole, certamente necessarie per strutturare l’esistenza strutturale del gruppo. In questo contesto la dedizione è rappresentata dall’osservanza e dalla collaborazione nell’organizzazione comunitaria. «Quando sono presente e puntuale al momento dei pasti sento di rispettare gli altri, e di essere da loro rispettato», diceva un confratello durante una sessione sulle relazioni interpersonali. Pensiamo agli orari da rispettare, alla struttura spaziale della comunità, ai luoghi che vengono destinati per le diverse attività, ai momenti condivisi insieme. È un tipo di altruismo che non distingue ciò che si fa per gli altri da ciò che si fa per amore degli altri, perché ciò che emerge come prioritario sono le cose da fare piuttosto che le persone a cui queste cose si fanno.

Non dimentichiamo che in una comunità religiosa abbiamo bisogno di questo tipo di altruismo, perché il grup­po ha bisogno di una sua struttura formale, una sorta di contenitore che serve a strutturare il clima comunitario.

 

ALTRUISMO

FIDUCIARIO

 

Assieme all’altruismo collaborativo, che rende tutti partecipi alla struttura del gruppo, occorre tenere presente anche un altro aspetto che caratterizza la dedizione reciproca in comunità, questa volta però a un livello diverso. Parliamo di altruismo fiduciario quando le persone si relazionano tra loro in modo da consentire una identificazione delle loro azioni di dedizione reciproca. Prendiamo il caso di una consorella che fa un favore ad un’altra che può, a sua volta, ringraziarla. La dedizione della prima persona stabilisce un legame che viene sancito dalla riconoscenza della seconda. Si tratta di un legame di condivisione: condivisione di favore, di collaborazione, di conoscenze, di pericolo oppure anche di stanchezza.

La “confidenza” che si stabilisce in queste occasioni di dedizione reciproca può essere accompagnata da simpatia o empatia, se c’è un rapporto positivo tra le persone, o di frustrazione e di delusione se si tratta di un rapporto negativo. In ogni caso, comunque, si instaura una tensione dinamica nelle relazioni, soprattutto quando la conoscenza e il contatto reciproco permettono una “trasformazione” delle relazioni, per esempio quando si passa da atteggiamenti di sfiducia ad una migliore fiducia reciproca. Ecco perché si parla di altruismo fiduciario, perché ciò che si fa in favore dell’altro dipende dal livello di rapporto che le persone stabiliscono tra di loro, e che permette di scoprire le differenze reali di cui l’altro è portatore.

Dal punto di vista psicologico tale altruismo non è affatto rassicurante, perché implica sia la conoscenza e la condivisione delle cose positive e gradevoli dell’altro, e sia le cose che non riesco ad accettare di lui o di lei! In questo modo l’altruismo fiduciario ci impegna a vivere le relazioni sotto il segno dell’“incertezza”, perché non sempre l’altro corrisponde alle nostre aspettative e alle nostre idealizzazioni. Infatti, questo altruismo ci porta a fare i conti con l’altro-diverso-da-me, con il suo carattere e i suoi affanni, con i suoi entusiasmi e le sue stranezze, con la sua cultura e la sua… realtà!

Facciamo un esempio. Un confratello passa del tempo per aiutare un altro che è ammalato. Quest’ultimo, una volta guarito, riprende le sue molteplici attività e non ha più tempo per parlargli come faceva al tempo della sua malattia. Secondo la nostra definizione, il confratello ha fatto un gesto di altruismo, assistendolo nel tempo del bisogno. Se inizialmente resta “deluso” dal comportamento del confratello guarito, potrà continuare a vivere un atteggiamento di altruismo autentico nella misura in cui si accorge che l’altro non è un alter ego, una riproduzione dei suoi bisogni, ma è qualcuno che pensa e agisce in modo diverso da sé. La piattaforma relazionale che egli modella attraverso questa consapevolezza di sé e dell’altro sarà la premessa per passare dalla sfiducia (“sono deluso perché ora che è guarito non mi ascolta”) alla fiducia (“apprezzo quello che fa, ora che sta bene”).

In questo contesto l’altruismo fiduciario comporta una riduzione della distanza tra le persone, e un rafforzamento degli interessi e dei sentimenti reciproci, permettendo alle persone in relazione la creazione di un mondo intersoggettivo propositivo,5 con cui le persone sostengono l’interazione, in vista di un progetto veramente comune.

 

PER UN ALTRUISMO

EFFICACE

 

In quali condizioni possiamo dire che il gruppo comunitario contribuisce all’azione di dedizione agli altri? Per rispondere a questa domanda prendiamo in considerazione alcuni fattori che influenzano il nostro comportamento altruistico.

Anzitutto il fattore della comunicazione. Sappiamo che se i membri della comunità si parlano in maniera costruttiva, comunicano tra loro e discutono dei modi con cui manifestano la loro dedizione reciproca, è probabile che attivino le energie presenti nel contesto comunitario per essere a servizio degli altri. Una maggiore informazione e conoscenza dei confratelli e delle consorelle presenti in comunità è una premessa indispensabile per metterci a disposizione senza manipolare le relazioni.

Un secondo fattore è la coesione del gruppo. Se nella comunità ci si conosce poco, le persone possono essere riluttanti a parlare della loro situazione e del modo con cui mettere in pratica i progetti comunitari stilati sulla carta ma non sempre trasformati in vita vissuta. Più il gruppo è unito, più le persone saranno disponibili a utilizzare le proprie risorse per dedicarsi agli altri.

La conoscenza dell’ambiente comunitario permette di tenere conto del contesto circostante e di vagliare se gli altri abbiano veramente bisogno del nostro intervento, condividendo il senso di responsabilità interpersonale.

Un terzo fattore riguarda il contesto interazionale. Le persone agiscono per gli altri in base a caratteristiche individuali oppure lo fanno in base alle situazioni che vivono? A questo proposito, un superiore locale così commentava: «Quando sono fuori, i miei confratelli sono tutti bravi e ben apprezzati nelle diverse attività che svolgono, ma quando sono dentro sembra che cambino completamente personalità». Quindi, i religiosi che si comportano entusiasticamente nelle loro attività pastorali all’esterno della comunità, sono altrettanto entusiasti nei servizi altruistici della vita comune? La psicosociologia ci ricorda che il passaggio da una situazione all’altra comporta spesso una incoerenza nell’atteggiamento che le persone assumono.6 Questo però non vuole dire che le persone sono un prodotto delle circostanze che vivono. Certo, le situazioni possono influenzare il comportamento, come anche la percezione individuale, ma non bisogna dimenticare che anche i fattori personali contribuiscono al nostro essere altruisti. Così com’è importante la prima socializzazione per l’influenza che esercita sul carattere delle persone, è altrettanto vero che queste disposizioni personali possono persistere nel tempo nella misura in cui c’è un sostegno positivo nell’ambiente sociale in cui ci si trova a vivere.

Una comunità che cresce nell’altruismo è una comunità che si coinvolge in un amore che è anzitutto un dono di Dio da riscoprire nel quotidiano. «Collocate nelle diverse società del nostro pianeta – società percorse spesso da passioni e da interessi contrastanti, desiderose di unità ma incerte sulle vie da prendere – le comunità di vita consacrata, nelle quali si incontrano come fratelli e sorelle persone di differenti età, lingue e culture, si pongono come segno di un dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità» .

Non ci sono altri significati per la vita comune in comunità. Dalla scoperta di questo dono, a volte sofferto, a volte gioioso, ma pur sempre dono, deriva la gioia di un altruismo che riesce ad abbracciare la missione a cui siamo chiamati, come testimoni della carità di Dio.

 

Giuseppe Crea mmcj

 

1 Vita consecrata 51.

2 MOSCOVICI S., Psychologie sociale des relations à autrui, Nathan, Paris 1996, 83.

3 FREUD A., L’io e i meccanismi di difesa, Martinelli, Firenze 1967, 116.

4 La vita fraterna in comunità 39.

5 WISPÈ L. (Ed.), Altruism, sympathy, and helping. Psychological and sociological principles, Academic Press, New York 1978, 172.

6 GERGEN K. J. – GERGEN M.M., Psicologia sociale, Il Mulino, Bologna 1990, 287.