IL PUNTO SULL’ECUMENISMO

DIALOGOCHE NON RIPARTE

 

La crisi dell’ecumenismo appare evidente. L’anno appena concluso ha registrato purtroppo un aggravamento delle difficoltà, soprattutto tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa russa.

Quali le ragioni di questa crisi?

 

Per Giovanni Paolo II «la strada verso l’unità resta in salita, con ostacoli e strettoie» (22.01.2003); per il cardinal Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità, la situazione è difficile ma non va giudicata con pessimismo; a detta invece di molti testimoni e artefici del dialogo ecumenico l’attuale stagione porta i segni di una contraddizione profonda rispetto al cammino percorso dai giorni del Vaticano II.

P. Hervé Legrand, in una puntuale e documentata riflessione (cf. Il Regno 17/2002), legge con molto equilibrio la gravità della crisi tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa russa, facendo risaltare nel contempo come, con le altre chiese ortodosse, se anche non c’è grave conflittualità visibile, non esiste tuttavia nemmeno un dialogo affettuoso e convinto. Altri, come Michel Van Parys, Olivier Clément e Vladimir Zelinskij, continuano a parlare di “inverno” ecumenico o di situazione “comatosa”. La crisi dell’ecumenismo appare evidente e l’anno che si è appena concluso ha registrato purtroppo un aggravamento delle difficoltà, soprattutto tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa russa. Cerchiamo di analizzare i motivi di questa crisi che ci rattrista ed è una ferita per tutte le chiese.

 

UNA MOSSA

CONTROVERSA

 

L’11 febbraio 2002 il Vaticano annunciava che Giovanni Paolo II aveva deciso di creare una provincia ecclesiastica latina sul territorio canonico del patriarcato di Mosca, erigendo quattro nuove diocesi, una delle quali con sede arcivescovile a Mosca stessa, metropolia del patriarcato ortodosso. Questo gesto è stato compiuto senza alcun dialogo con il patriarcato di Mosca, semplicemente utilizzando le vie diplomatiche per informare una settimana prima il ministero degli affari esteri della Federazione russa il quale, «pur non mettendo in dubbio il diritto della chiesa cattolica a darsi un’organizzazione conforme alle proprie norme canoniche, ma considerando che il fatto in questione riguarda soprattutto i rapporti tra le chiese e può provocare un serio aggravamento degli stessi, ha raccomandato alla Santa Sede di astenersi in questo momento dal trasformare le amministrazioni apostoliche in diocesi e di accomodare tale questione con la chiesa russa» (Dichiarazione del ministero degli affari esteri della federazione russa, 12 febbraio 2002). Il patriarca Alessio II e il Santo Sinodo lo stesso 12 febbraio emanavano un commento in cui manifestavano come questa decisione di Roma «aveva posto la Chiesa ortodossa russa di fronte al fatto compiuto» e perciò la giudicavano «non amichevole e negante ogni prospettiva di miglioramento delle relazioni tra le due chiese», non solo per il modo in cui era sopraggiunta ma soprattutto per il fatto in sé: l’aver costituito un’arcidiocesi metropolitana cattolica proprio dove ha sede il patriarcato ortodosso e aver dato al vescovo cattolico ivi residente il titolo di metropolita, in un luogo così simbolico e legato alla storia della chiesa russa.

Il patriarcato di Mosca non poteva dimenticare che nell’accordo tra cattolici e ortodossi a Balamand del 1993 si era giunti a questa dichiarazione comune: «Per evitare malintesi e per accrescere la fiducia reciproca, è necessario che i vescovi cattolici e ortodossi di uno stesso territorio si consultino prima di realizzare progetti pastorali cattolici che implichino la creazione di nuove strutture nelle tradizionalmente ortodosse … per evitare attività pastorali parallele che rischiano di diventare concorrenti e conflittuali» (Documento di Balamand, § 29). Per questo Mosca decise di sospendere ogni forma di dialogo con la chiesa di Roma e di annullare la visita che il cardinal Kasper era in procinto di compiere nelle settimane successive.

La crisi si è poi acuita a causa di un articolo del medesimo cardinale su Civiltà Cattolica (quad. 3642, 16 marzo 2002), nel quale il presidente del Pontificio consiglio per l’unità propone una difesa dell’operato della Santa Sede, ma anche pensa di svelare le radici teologiche del conflitto tra le due chiese e perciò accusa la Chiesa ortodossa russa di nuovo slavofilismo e di essere «ancorata a posizioni ideologiche (e perciò incapace) di iniziare un dialogo costruttivo con la società moderna e con la Chiesa cattolica». Proprio questo testo, che voleva essere uno strumento di dialogo e di chiarificazione sui problemi esistenti tra le due chiese ma che conteneva precise analisi che suonano come accuse e che fanno leggere il conflitto su un piano teologico, e quindi a un livello più grave, è stato letto dal Dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato di Mosca come «un’azione offensiva di forte critica» e nel giro di poco tempo molti patriarcati ortodossi hanno espresso la loro solidarietà alla Chiesa russa, assumendo una posizione di critica e di forte diffidenza verso la Chiesa cattolica. Gli ortodossi sono molto più sensibili dei cattolici riguardo al principio del legame tra territorio e una sola sede episcopale e si attendevano un gesto analogo, per esempio, a quello che fece Leone XIII quando, ricostituendo la gerarchia cattolica in Gran Bretagna, non istituì la cattedra episcopale di Londra (né tantomeno di Canterbury) bensì di Westminster. D’altronde ancora oggi in Albania c’è un amministratore apostolico e non è stata operata nessuna divisione in diocesi.

 

OSTACOLI DOVUTI

A DUE FATTORI

 

Quanto poi alle ricorrenti accuse di proselitismo mosse dagli ortodossi ai cattolici, questi le hanno sempre respinte come generiche e prive di indicazioni di casi concreti, finché nel luglio 2002 il metropolita Kyrill non ha diffuso una documentazione dettagliata di precisi episodi contestabili, la quale non ha però trovato finora reazioni e risposte altrettanto puntuali.

Per leggere questi eventi in una prospettiva che dischiuda orizzonti di speranza, è necessario ricordare due fattori che rendono oggettivamente difficile il dialogo. Il primo è la rinascita e l’atteggiamento della Chiesa cattolica ucraina, da sempre percepita dagli ortodossi come un’aggressione romana e una negazione della loro ecclesialità. Questa e le altre chiese uniate, soppresse con la forza dal regime sovietico, chiedono ora con insistenza la restituzione di tutti gli edifici, le proprietà e i beni che furono loro confiscati, indipendentemente dal fatto che il numero dei loro fedeli sia oggi consistentemente inferiore a quello di un tempo: «In molte parrocchie – affermano i vescovi ortodossi della Transilvania – gli ortodossi di oggi sono gli uniati di ieri, e gli uniati di ieri sono gli ortodossi dell’altro ieri». E lo stesso vale anche per l’Ucraina.

Il secondo fattore di difficoltà coinvolge in modo ancor più evidente il cattolicesimo “latino” dell’Europa centro-occidentale: si tratta della “missione cattolica in Russia”, che la chiesa ortodossa vorrebbe impedire in nome della concezione tradizionale del “territorio canonico”. Bisogna riconoscere che dall’inizio degli anni novanta molte congregazioni religiose, sia maschili che femminili, e alcuni movimenti ecclesiali cattolici sono entrati in Russia per istituire scuole e opere caritative che gestiscono attuando una presenza missionaria e non solo di cura pastorale per i cattolici già presenti nel territorio della Federazione russa. Questo è avvenuto in un certo disordine che non è restato fedele alle direttive molto chiare impartite dal Vaticano già nel 1991 e precisate dalla commissione Pro Russia del 1992. Vi è molta generosità in queste opere, ma anche mancanza di preparazione culturale, di disponibilità al confronto e alla collaborazione, di intelligenza ecumenica che ha infastidito la chiesa ortodossa. La “missione” cattolica ha assunto così una dimensione che non è certo a servizio della chiesa ortodossa e nemmeno in armonia con essa, ma che per la sua configurazione viene percepita piuttosto come una concorrenza.

Il concetto di “territorio canonico” appare oggi nozione ambigua agli occidentali, ma non si deve dimenticare che per le chiese ortodosse la religione è quella della comunità ecclesiale e che prima della libertà di coscienza c’è la tradizione, mentre per noi la religione è un fatto individuale e la libertà di coscienza appare come irrinunciabile. Le chiese ortodosse sanno che il concilio panortodosso di Costantinopoli nel 1871 denunciava l’eresia del “filetismo” (cioè l’identificazione tra fede e nazione), ma affermano nel contempo che se non si tiene conto del territorio di una chiesa come luogo della sua presenza, si trasformano le chiese sorelle in semplici confessioni, misconoscendo l’ecclesiologia della chiesa locale e della comunione tra le chiese. D’altronde la stessa chiesa cattolica invoca il principio di territorialità nella sua prassi per l’elezione dei vescovi delle chiese orientali cattoliche al di fuori del territorio patriarcale (cf. CCEO, canone 149).

 

DISSIPARE

I MALINTESI

 

Con queste premesse, è inevitabile che le dispute diventino infinite nel giudicare fatti ed episodi come opere di missione o di proselitismo: l’unica soluzione praticabile è quella di pensare, progettare e realizzare insieme ogni pastorale e ogni attività missionaria: mai una chiesa si muova senza l’altra, mai una chiesa agisca contro l’altra!

Certamente ora è urgente dissipare i malintesi, riconoscere con sincera umiltà i passi falsi compiuti, usare sapienza e prudenza per ricominciare a dialogare nella verità ma anche nella carità: solo così si potranno creare nuove vie al “dialogo della carità”. Sì, occorre una grande pazienza reciproca, una perseverante ascesi in vista di un cammino di comunione interecclesiale che non sia costantemente contraddetto dal peso e dalle dispute del passato né dai malintesi del presente. Noi ci chiediamo: perché non si incontrano vescovi cattolici e patriarcato russo ogni volta che sembra profilarsi una difficoltà?

Con le altre chiese ortodosse la situazione è solo apparentemente migliore: c’è stata sì la venuta a Roma del patriarca romeno Teoctist e di una delegazione della chiesa di Grecia, restituzione delle visite compiute da Giovanni Paolo II in quei paesi; recentemente si è recata a Roma anche una delegazione della chiesa serba, ma non si dimentichi che i viaggi del papa si erano realizzati su invito dei governi e dei cattolici locali e non delle chiese ortodosse di quei paesi. Non a caso, in più di una circostanza (Grecia, Ucraina, Bulgaria, Georgia) l’accoglienza “ecclesiale” è stata molto asciutta e formale, al punto da rivolgersi il saluto con una diplomatica stretta di mano e non con l’abbraccio di pace o da non poter nemmeno pregare insieme come fratelli. E, non a caso, anche il dialogo teologico non riesce più a ripartire: interrottosi dopo Balamand (1993) e ripreso a Baltimora (2000) solo per costatarne il totale fallimento (al punto che non si riuscì nemmeno a produrre un comunicato finale congiunto!), esso tace perché le chiese sembrano aver smarrito persino un linguaggio comune.

 

ANGLICANI

E CHIESE DELLA RIFORMA

 

Diversi, ma non necessariamente più incoraggianti, i rapporti della chiesa cattolica con il mondo anglicano e con le chiese nate dalla riforma. Con queste ultime i dialoghi teologici proseguono, almeno formalmente, favoriti da un linguaggio, una storia e un contesto socio-culturale più omogenei. Tuttavia, i paragrafi della dichiarazione Dominus Iesus concernenti l’ecumenismo e la simultanea nota riservata indirizzata dal cardinal Ratzinger alle conferenze episcopali nazionali sull’uso del termine (e della categoria teologica) di “chiese sorelle” (autunno 2000), continuano a pesare come macigni sulla strada verso l’unità. Diventa infatti difficile tornare a discutere in serenità e fiducia con chi non riconosce più la qualità ecclesiale del proprio interlocutore. Così, a una cortesia nelle forme e nei toni usati nel dialogo, fa riscontro una sostanziale impasse, aggravata dal fatto che le più forti divergenze si registrano oggi non tanto a livello teologico o dogmatico (dove effettivamente decenni di dialogo e confronto hanno prodotto risultati significativi, basti pensare alla Dichiarazione sulla giustificazione siglata con i luterani nel 1999) quanto piuttosto a livello etico: le diverse posizioni nei confronti dell’omosessualità, l’atteggiamento verso i divorziati, le nuove frontiere della bioetica…

Ricco di prospettive ma anch’esso contrastato il dialogo con la Comunione anglicana. La nomina del nuovo primate, il gallese Rowan Williams, è foriera di prospettive feconde: uomo profondamente radicato nella Bibbia e nella tradizione patristica, il nuovo arcivescovo di Canterbury ha una lunga esperienza personale di dialogo ecumenico, soprattutto con il mondo ortodosso, ed è inoltre estremamente attento alle nuove sfide che attendono il cristianesimo nella sua missione di annuncio del Vangelo agli uomini e alle donne di oggi. Anche la ripresa dei dialogo bilaterale ufficiale (la cui commissione, nota con la sigla ARCIC II, ha già prodotto diversi documenti su tematiche importanti come il ministero di Pietro e l’esercizio del primato) è stata affiancata dalla costituzione di un altro organismo (IARCCUM) maggiormente dedito ad approfondire la comunione di vita e di missione tra cattolici e anglicani. Sono però lungi dall’essere risolte le difficoltà sorte e accentuatesi in questi anni attorno all’ordinazione delle donne da parte anglicana, alla sempre più accentuata autonomia rivendicata da alcune chiese della Comunione anglicana e alla non facile gestione dei passaggi di anglicani alla chiesa cattolica.

Anche qui, splendori e miserie del vissuto della nostra fede si intrecciano: il problema di fondo dell’ecumenismo rimane, ancora una volta, la comune fatica ad accettare la “debolezza” della chiesa, debolezza che significa custodire il tesoro della fede in vasi d’argilla, non conoscere altro che il Cristo crocifisso e contare solo sul Signore risorto e sulla sua parola. Siamo sempre più convinti della verità di quell’ammonizione che Matta el Meskin faceva nel 1968 riguardo al dialogo tra le chiese: «L’ecumenismo è un’azione necessaria ma che va sempre verificata sull’obbedienza al Vangelo e sul cammino di santità che i singoli cristiani e le chiese fanno nella storia. Quanto più risplende il Vangelo tanto più di fatto si fa comunione tra le chiese: ogni contraddizione alla santità impedisce l’autentico ecumenismo, ogni maggior fedeltà al Vangelo lo promuove e lo realizza efficacemente».

 

Enzo Bianchi