L’IRAQ E I CONFLITTI DIMENTICATI

PACE, MA PER TUTTI

 

Ogni anno nel mondo si combattono una quantità di guerre che sono spesso ignorate non solo dall’opinione pubblica, ma anche dai grandi mezzi di comunicazione. Sono i cosiddetti conflitti ignorati su cui la Caritas ha ora effettuato una ricerca.

 

In queste ultime settimane abbiamo assistito a un crescendo di voci che si sono alzate altissime in ogni parte del mondo per invocare la pace. Decine di milioni di persone, di ogni continente, razza, estrazione sociale e politica sono scese nelle piazze per chiedere ai potenti di questo mondo di risparmiare all’umanità un’altra catastrofe. Tra queste voci si sono distinte in particolare quelle del papa, dei vescovi e delle comunità ecclesiali, in tutte le loro componenti, che hanno accompagnato la loro richiesta non solo con le marce e le bandiere, ma anche con la preghiera e il digiuno e continuano a farlo.

Ciò significa che la sensibilità della gente contro la guerra sta diventando sempre più acuta e diffusa, soprattutto ora che la pace è messa nuovamente in pericolo. È però importante che tutto non si esaurisca nell’emotività del momento e attorno al solo problema della guerra contro l’Iraq.

Vorremmo, cioè, che questa coscienza di radicale rifiuto della guerra si allargasse e si estendesse a tutte le guer­re, interessando e smuovendo un’opi­nione pubblica che spesso è poco o male informata o addirittura strumentalizzata, in vista di precisi interessi.

Recentemente in Francia è stata effettuata un’inchiesta per verificare la copertura mediatica, attraverso cioè i mezzi di comunicazione, degli avvenimenti nelle varie parti del mondo. Il risultato è stato a dir poco sconfortante: per questi mezzi, tre quarti dei paesi del pianeta risultano terrae incognitae, terre sconosciute. E il fenomeno è destinato ad aggravarsi: la tendenza dei mezzi audiovisivi infatti è alla diminuzione del numero dei corrispondenti all’estero e questo, stranamente, proprio in un momento in cui la mondializzazione sta sempre più imponendosi come fenomeno principale e determinante per il futuro dell’umanità. Molte agenzie e uffici esteri stanno chiudendo e l’attenzione dei media tende sempre più a concentrarsi sulle realtà più vicine, interne al proprio paese. I paesi lontani, invece, risultano poco e sempre meno interessanti. Il quotidiano La croix, riportando questi dati scriveva: «La Francia segue il modello americano, con qualche anno di ritardo: ci si interessa solo di se stessi».

In Italia, come vedremo, la situazione forse è ancora peggiore. Se non ci fossero le riviste missionarie e in complesso la stampa cosiddetta minore a parlare di certe situazioni, gran parte del mondo rimarrebbe un’immensa zona d’ombra. Per esempio, chi ha saputo qualcosa dai giornali o dalla TV delle 24 guerre combattute nel mondo nel corso del 2001, delle 25 del 2000 e delle 27 dell’anno precedente?

 

RICERCA

DELLA CARITAS

 

Quanto mai opportuna perciò ci sembra la recente ricerca, benché limitata, a cura della Caritas Italiana in collaborazione con le riviste Famiglia Cristiana e Il Regno, di cui è appena uscita la pubblicazione I conflitti dimenticati (Feltrinelli, Milano) su una vasta zona grigia del mondo che attraversa i continenti e copre numerose regioni: Balcani; Caucaso, da nord a sud fino al Mar Nero (la guerra in Cecenia e la crisi curda sono solo i casi più mediatizzati); l’Asia centrale tra il mar Caspio e la Cina (con agitazioni che dall’Afghanistan arrivano al Pakistan); l’Africa sub-sahariana; zone controllate dai narco-trafficanti nell’America andina e amazzonica (Colombia, Perù, Bolivia ecc.) o nell’Asia del triangolo d’oro (Birmania, Laos e Thailandia).

L’indagine evidenzia tre obiettivi di fondo. Il primo cerca di individuare la tipologia dei conflitti armati nel mondo. Il secondo cerca di produrre una quantificazione del grado di rilevanza dei conflitti armati nell’opinione pubblica generale. Per le oggettive difficoltà di una indagine su tutti i conflitti attuali, si è limitata la rilevazione dei dati ad alcuni “conflitti simbolo” (Colombia, Guinea-Bissau, Angola, Sierra Leone, Sri Lanka); allo scopo di confronto e valutazione sono stati inoltre utilizzati come parametri di riferimento i dati sul conflitto in Palestina e nel Kosovo, ampiamente rappresentati all’interno del dibattito pubblico. Il terzo obiettivo, infine, cerca di formulare delle ipotesi interpretative sulle motivazioni della dimenticanza dei conflitti stessi.

Nel complesso, il decennio che va dalla caduta del muro di Berlino alla fine del secolo scorso ha visto 57 guerre devastare 45 diversi paesi. In massima parte si tratta di guerre civili, combattute per il controllo del governo o di porzioni di territorio. La maggioranza delle guerre combattute nel decennio scorso ha avuto luogo nei continenti africano (19) e asiatico (16). La guerra è tornata anche in Europa: nel 1993 si contavano 5 guerre lungo le periferie del vecchio continente. Dei 25 conflitti armati nel 2000, la metà superava la soglia di mille vittime nel corso dell’anno. Una tipologia di “nuove guerre” con i civili come principale bersaglio (l’obiettivo più efficace per promuovere campagne di terrore) si manifesta dopo il 1989 con conflitti a matrice etnica e nazionale lungo le periferie del pianeta.

Si tratta innanzitutto di zone in cui, esauritasi con il crollo sovietico la propria rilevanza negli equilibri internazionali, le parti si sono trovate prive di appoggio e di mezzi. Il caso dell’Afghanistan (dall’invasione sovietica alla jihad dei mujaheddin sostenuti dalle potenze occidentali, fino alla guerra tra fazioni e alla deriva dei fondamentalisti islamici Taliban con l’epilogo di risonanza globale dopo gli attentati negli Stati Uniti dell’11 settembre) è uno dei tanti esempi anche se fra i più emblematici. Aggiungiamo che la competizione per le risorse primarie, specialmente le energetiche (petrolio, gas), riveste un ruolo cruciale nella spiegazione di alcuni conflitti. Oltre a ciò emergono come fonti di conflitti la risorsa “acqua” e le riserve di minerali, pietre preziose e legname. A questo punto alcuni analisti descrivono l’ordine internazionale diviso in due mondi: da una parte la “zona di pace” (una “comunità di sicurezza” altamente sviluppata e composta da democrazie capitaliste), dall’altra la “zona di guerra”, dove il potere politico è ancora contestato con la forza. In realtà, alla luce delle modalità con cui i conflitti si manifestano, tali distinzioni appaiono sempre più dubbie e bisognose di revisione. Il carattere superficiale di una netta divisione fra “zone di pace” e “zone di guerra” è illuminato anche dal carattere globale dell’economia: vedi gli esempi dei paradisi fiscali (dove convergono proventi di investimenti delle grandi centrali finanziarie e denaro di indubbia provenienza criminosa) e delle richieste-imposizioni degli organismi finanziari internazionali, che attraverso ricette neoliberiste hanno ulteriormente contribuito a minare gli stati in via di sviluppo.

Si è a lungo discusso a proposito dello spettro di nuove guerre di religione e di supposti scontri fra civiltà. La realtà delle guerre odierne mostra come il fattore religioso può rappresentare un elemento di divisione ma anche di dialogo e contributo alla risoluzione dei conflitti. Lo scenario internazionale, dopo gli attacchi suicidi alle Torri gemelle di New York e al Pentagono, ha rivelato in realtà la strategia in base alla quale la parte del mondo islamico che ha interessi petroliferi e mezzi (finanziari, tecnologici e culturali che attingono abbondantemente al cuore del sistema internazionale) può arrivare a concepire un attacco dirompente con lo scopo di innescare meccanismi di delegittimazione delle élite moderate che governano i vari paesi coinvolti dalla campagna globale antiterrorismo.

Dietro le nebbie dell’informazione si può delineare un tentativo di cementare – grazie anche all’appoggio dei diseredati, dei milioni di “marginali” che premono nel mondo arabo e musulmano – un disegno politico antagonista, asservito a una religione d’ordine. A determinare uno stato di cose tanto esplosivo concorrono molteplici fattori: i disegni di appropriazione delle risorse strategiche globali, le collusioni fra élite politiche ed economiche, il lucido calcolo suicida del fanatismo religioso, la rapacità di signori della guerra capaci di agire su scala transnazionale, i frutti avvelenati del calcolo politico-militare della guerra fredda, l’uso indiscriminato della lotta al terrorismo in chiave di repressione sia internazionale sia interna, l’ideologia della guerra “preventiva”.

 

PERCHÉ ESISTONO

CONFLITTI DIMENTICATI?

 

La ricerca della Caritas Italiana si è focalizzata, come si diceva, su sette conflitti “simbolo”. Attraverso varie metodologie essa ha individuato alcuni fattori che possono spiegare il perché certi conflitti e non altri sono dimenticati: a) posizione geografica del paese in condizioni di conflitto (più lontano dall’Italia è il paese in questione, più l’opinione pubblica è disinteressata); b) severità del conflitto (più il conflitto è brutale e produce vittime, più attenzione suscita nell’opinione pubblica); c) durata: più il conflitto si prolunga, maggiore è la probabilità che venga dimenticato; d) rapporti culturali e storici (più legami esistono tra l’Italia e il paese in questione, più elevata è l’attenzione); e) rapporti economici particolarmente rilevanti tra l’Italia e il paese sotto osservazione; f) intervento militare internazionale: se la Nato, l’Unione Europea o l’Onu si attivano per intervenire, l’interesse dell’opinione pubblica cresce.

Comunque il 78% degli intervistati dimentica o non segue con attenzione la maggior parte dei conflitti armati e violenti che oggi affliggono il mondo. Nonostante quanto è successo l’11 settembre e dopo, la maggioranza degli intervistati ritiene che l’opinione pubblica non sia sufficientemente informata sulle guerre in corso e sulle ragioni che le determinano e questo implica un giudizio negativo sui media di cui essi si servono. Solo poco meno di 4 intervistati su 10 reputano il livello informativo diffuso nel paese del tutto sufficiente. Si avverte invece la necessità di maggior conoscenza e approfondimento sui conflitti e sulle grandi questioni mondiali (71%). Nonostante l’apparente successo di alcuni interventi armati, il 70% del campione ritiene che il ruolo della comunità internazionale di fronte a situazioni di grave conflitto debba essere quello della mediazione politica preventiva e dell’adozione di soluzioni non-violente. Solo un intervistato su dieci condivide le ipotesi militariste.

Interessante il quadro che riguarda la Chiesa cattolica: in controtendenza con quanto rilevato nelle altre parti dell’indagine complessiva, la Chiesa come istituzione e come comunità di credenti direttamente coinvolti non ha dimenticato alcuna guerra. È una controtendenza dovuta alla natura atipica della Chiesa stessa. Ciò consente alla Chiesa di poter agire a livello internazionale con strumenti di tipo diplomatico e di lanciare appelli, e contemporaneamente di assumere iniziative con l’autorevolezza di chi è direttamente presente nelle aree conflittuali. Il fatto della presenza minoritaria della Chiesa cattolica nei sette paesi monitorati, non ha modificato quantità e qualità degli interventi. La condizione di minoranza e il diversificato contesto nel quale la Chiesa si trova a operare in questi paesi ha fatto emergere progressivamente con maggiore chiarezza l’esigenza di comportamenti e iniziative di carattere ecumenico o interreligioso, e ha altresì consentito un diverso approccio teorico al tema religioni/violenza. S’intensificano e si raffinano gli strumenti di analisi che distinguono tra le cause dei conflitti armati e delle violenze di tipo etnico e la legittima affermazione delle identità religiose. Il periodo della ricerca ha coinciso poi con l’ultima fase di preparazione e con la celebrazione del grande giubileo del 2000. In questo tempo, la relazione tra centro e periferia della Chiesa cattolica si è intensificata proprio sui temi della guerra e della violenza, attorno alla riflessione della guarigione della memoria, cioè del duplice riconoscimento delle responsabilità storiche dei cattolici e della celebrazione del martirio dei cattolici stessi in molte aree conflittuali.

In conclusione la ricerca ribadisce che oggi esistono conflitti armati che colpiscono soprattutto innocenti indifesi: vedi i 2 milioni di bambini morti in guerra dal 1990 al 2000, i 6 milioni di minori feriti o invalidi nello stesso periodo, i circa 27 milioni di morti tra i civili dal dopoguerra ad oggi (il 90% del totale delle vittime) e i 35 milioni di rifugiati che oggi vagano nel mondo. Tali situazioni continuano ad essere dimenticate, semplificate o banalizzate, non solo dal cittadino indaffarato o distratto, ma anche dai mass-media e, cosa forse ancora più preoccupante, dalle istituzioni europee ed italiane. Nonostante la presente ricerca sia limitata prevalentemente all’Italia, notevoli somiglianze esistono in generale tra il nostro paese e le altre democrazie industrializzate, e in modo ancor più stretto, tra l’Italia e gli altri paesi membri dell’UE.

L’11 settembre abbiamo capito una cosa nuova: ci sono situazioni complesse che rischiano di ritorcersi contro di noi. Le guerre non portano più in casa nostra solamente persone richiedenti asilo, o i costi di operazioni/guerre umanitarie, o il disagio di usare beni “insanguinati”. Non ci si può limitare ad azioni di conservazione del proprio benessere, senza interrogarsi sulle profonde radici che sono alla base dell’instabilità a livello mondiale. Non dobbiamo dimenticare che la radice di molti conflitti trova una sua ragione di essere nelle asimmetrie che caratterizzano il pianeta dal punto di vista della tutela dei diritti, dell’accesso alle risorse, ai servizi, ecc., conseguenza anche di una certa globalizzazione che rischia di assumere aspetti di neo-colonialismo. Occorre anche tenere conto del grosso nodo qualità/verità dell’informazione: non sempre le notizie riportate dai media internazionali affrontano determinate questioni da un’ottica obiettiva e con un approfondimento qualitativo adeguato. Si corre pertanto un duplice rischio: sia di non essere informati affatto, sia di divenire bersaglio di una informazione distorta, banalizzante, approssimativa, che in un’ultima analisi diventa causa di pregiudizi e stereotipi negativi.

Oltre a questo monitoraggio sui media, occorre tener vivo il compito di educare, che spetta a tutti, in primo luogo alla scuola. Occorre educare a percorsi di cittadinanza e mondialità. E ancora, si avverte la necessità di una politica comune europea, attenta alle istanze provenienti dai paesi più poveri, e non solamente ai grandi interessi dei gruppi di potere. Non è improbabile che dopo l’11 settembre invece di “cambiare tutto” si corra invece il rischio di continuare a far leva su antichi sistemi di sicurezza basati sull’aumento della difesa armata, per garantire una sicurezza che andrebbe perseguita con ben altri mezzi. In effetti nessuno può ormai negare che tra le principali cause dei conflitti vi sia la povertà economica. Basti pensare che circa il 90 per cento dei conflitti armati successivi al 1945 ha avuto luogo nel terzo mondo.

La disuguaglianza sociale costituisce una minaccia concreta alla sicurezza della terra e rischia di produrre il combustibile per far esplodere nuove guerre. Il riequilibrio delle disuguaglianze sociali (unito alla lotta al cambiamento del clima e alla lotta alla proliferazione degli armamenti) diventa la base su cui fondare il processo di costruzione della pace.

 

Mario Chiaro