SPIRITUALITÀ DI FRANCESCO DI SALES

IL NOSTRO DIOÈ UN DIO DI GIOIA

 

Francesco di Sales, pur essendo vissuto in un secolo che egli definisce “di ferro”, ha posto la gioia al cuore di tutta la sua spiritualità. Causa prima e fondamentale della nostra gioia è che Dio ci ama: un messaggio quanto mai attualeanche per noi oggi.

 

In occasione del quarto centenario dell’ordinazione episcopale di san Francesco di Sales, l’8 dicembre scorso, Giovanni Paolo II, in un messaggio al vescovo di Annecy, mons. Yves Boivineau, si rallegrava per il fatto che «ancor oggi le sue opere fanno parte della letteratura classica» e ciò «è il segno che il suo insegnamento sacerdotale ed episcopale trova un’eco nel cuore degli uomini e soddisfa le loro aspirazioni profonde». E citando Paolo VI lo definiva «una delle più grandi figure della Chiesa e della storia».

«Dottore dell’amore divino, scriveva il papa, Francesco di Sales s’adoperò incessantemente affinché i fedeli accogliessero l’amore di Dio, per viverlo in pienezza, volgendo il loro cuore a Dio e unendosi a lui. Fu così che, sotto la sua guida, numerosi cristiani intrapresero la via della santità. Egli mostrò loro che tutti sono chiamati a vivere un’intensa vita spirituale, qualunque sia la loro situazione o la loro professione, poiché la Chiesa è un giardino reso variopinto da fiori infiniti, gliene occorrono dunque di diverse grandezze, di diversi colori, di diversi profumi, insomma di diverse perfezioni. Siccome tutti hanno il loro prezzo, la loro grazia e il loro splendore, e insieme, nell’unione delle loro varietà fanno una perfezione molto gradevole di bellezza».

Uno dei motivi dominanti che ricorre di continuo nelle sue opere è quello della gioia.

Ed è proprio a questo tema che è dedicato il presente nostro Speciale, in vista anche dell’ormai imminente quaresima, un tempo liturgico concepito come un cammino di conversione verso la gioia della Pasqua, nell’incontro con la misericordia di Dio che fa rifiorire i deserti e trasforma in giardino anche i luoghi più aridi.1

 

Scrive Francesco di Sales: «Sono consolato della giovialità con la quale lei vive; poiché Dio è il Dio della gioia» (XIII 16). Francesco di Sales si rivolge così a madame Brûlart. Siamo nel 1604. A un’altra signora, scrive: «Sono molto lieto che il suo spirito sia gioioso rispetto a prima e che questa gioia pervada tutte le sue conversazioni e in particolare si estenda alla domestica» (XVIII). O ancora a Giovanna di Chantal: «Madre mia, viva ricolma di gioia davanti a Dio» (XVII 220). A proposito di se stesso dirà: «Sono più lieto che mai!»…

Al tempo in cui visse Francesco di Sales c’era un mondo per sua natura atto a suscitare un bel po’ di inquietudini. Era un’epoca di guerre locali continue: avventurieri e soldati spagnoli, francesi e savoiardi scorazzavano per il paese; incendiavano i campi di grano, uccidevano il bestiame e impiccavano la povera gente. Alcuni approfittavano della guerra per «arricchirsi e ingrassare, saccheggiando tranquillamente ora questo ora quell’altro». I duelli erano quotidiani. Come le esazioni dei potenti. Francesco definisce la sua epoca il “secolo di ferro”.

È un tempo di carestie. Francesco di Sales fustiga quelle «signore che uccidono i montoni per nutrire un cagnolino pigro e codardo» (VII 68) mentre la gente è ridotta a mangiare le radici. Un tempo di epidemie di peste e di colera. Francesco di Sales si preoccupa che i preti non abbandonino il loro gregge in queste drammatiche circostanze. Non per nulla si pregava nelle litanie: «a peste, fame et bello, libera nos, Domine».

Un tempo di grandi lacerazioni: la religione anziché unire, divideva. La Savoia era uno dei punti caldi del confronto tra cattolicesimo e protestantesimo. Questa spaccatura penetrava fin nell’intimità delle famiglie. Francesco di Sales, missionario nel Chablais e in seguito vescovo di Ginevra in esilio ad Annecy, è stato di esempio nel difficile compito di aiutare la gente a vivere insieme, ad amarsi.

Un tempo di post-concilio. Francesco di Sales si è dimostrato un riformatore deciso e per questo denunciava la decadenza di numerosi monasteri e la cattiva condotta e l’ignoranza di molti ecclesiastici. Era infine il tempo del Rinascimento. Un meraviglioso ritorno alle fonti e un amalgama di idee nuove, ma che, secondo molti, metteva in questione, dolorosamente, le idee ereditate…

 

ALLE FONTI

DELLA GIOIA

 

La nostra gioia, scrive, è radicata in Dio. La causa prima e fondamentale della nostra gioia è che Dio ci ama. Nella sua opera principale, il Trattato dell’amor di Dio (TAD) Francesco di Sales espone la genesi dell’amore di Dio verso di noi e la gioia a cui ci conduce. In maniera significativa, il primo capitolo di questa opera è tutto un elogio della bellezza, la bellezza dell’amore di Dio che fa trasalire di gioia al punto che si potrebbe parlare di un “trattato della gioia”.

Dall’abisso della sua eternità, Dio nutriva per noi pensieri di benedizione. Meditava per noi meditazioni di amore (TAD 969). E la conclusione di queste meditazioni, è l’incarnazione. Francesco di Sales afferma di aver ricevuto dei lumi speciali sul mistero del Natale, la sua festa preferita. Scrive: «L’amore dell’uomo ha talmente rapito Dio da farlo andare in estasi» (TAD 866). Si può legittimamente rendere attuale l’espressione in questo modo: «L’amore dell’uomo l’ha talmente reso folle da trarlo fuori di sé, da farlo uscire da se stesso al punto di incarnarsi». L’insieme di questo capitolo è sublime. Scritto in uno stile che prefigura quello di Charles Péguy, esso risponde all’interrogativo: «Che cosa non fa questo divino amante in materia di amore?». Troviamo qui un’allusione alla celebre esclamazione di san Paolo: «per me vivere è Cristo». Francesco di Sales ha l’ardire di parafrasarla e di metterla sulla bocca del Figlio di Dio fatto uomo: «Non sono più io che vivo, ma l’uomo vive in me. Per me vivere è l’uomo».

L’amore e l’attrattiva di Dio per l’uomo sono così intensi che in lui c’è come un duplice movimento di identificazione, quasi di fusione, che Francesco di Sales riassume in un solo tratto: «Egli ci ha fatto a sua immagine e somiglianza nella creazione, egli si è fatto nostra immagine e somiglianza mediante l’incarnazione» (TAD 721).

Il culmine di questa “filantropia” di Dio (TAD 722) è raggiunta sulla croce, allorché «il Salvatore che ci conosce tutti per nome e cognome, ha offerto il suo sangue e la sua vita per tutti e ha lanciato per voi i suoi pensieri di dilezione: Padre mio, io mi faccio carico di tutti i peccati di Teotimo… Che io muoia, purché lui viva» (TAD 970). Altrove, Francesco di Sales evoca con un realismo impressionante nostro Signore il quale sull’albero della croce aveva, come la donna incinta, «la sua bontà è grande e incinta» di noi (Introduzione alla vita devota, IVD 310).

 

IL MIO DILETTO

È PER ME E IO PER LUI

 

L’amore di Dio, fonte di gioia e di fiducia: ecco l’intuizione fondamentale di Francesco di Sales, ecco in quale certezza e in quali parole si riassume la sua dottrina: «Tutto grida alle orecchie del nostro cuore: amore, amore!» (XV 173).

Non aveva che 17 anni quando a Parigi, pieno di meraviglia, fece la scoperta del Cantico dei cantici, che diventerà il suo libro da comodino. Comprese allora che la vita spirituale non si concepisce che come una storia di amore, la più meravigliosa delle storie di amore: «Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me» (Ct 6,2). Non vi dunque niente che mi riguardi, nessuna delle mie gioie che il Signore non condivida, nessuna prova che egli non porti con me, nessuna pena che non tocchi il suo cuore. Da qui proviene la mia gioia, immensa, e niente potrà alterarla.

Con la preghiera e la lettura dei vangeli nutro e ravvivo la coscienza di essere amato, riconosco il piano d’amore che il Signore ha per me e rinnovo la mia adesione gioiosa, e coraggiosa, alla volontà amante di Dio. «Fare tutto per amore e niente per forza» (XII 359).

La volontà, il disegno di amore di Dio ci vengono manifestati attraverso le ispirazioni e i buoni desideri che sorgono nello spirito. Ma Francesco di Sales diffida come della peste degli slanci spirituali e li trova persino dannosi se non si concretizzano in comportamenti immediati, poiché danno l’illusione della santità: «Non sono che dei funghi spirituali» (IVD 278).

La volontà di Dio si manifesta a noi attraverso l’intermediario che è il “nostro” prossimo, mediante coloro che ci circondano, la nostra famiglia che bisogna guardare «di buon cuore e di buon occhio» (IVD 200), «lasciandoci impiegare a loro piacimento», con il sorriso (X 276). Ma anche mediante i poveri e i diseredati che Francesco di Sales invita a visitare e a curare «con le nostre mani». La gioia fiorisce come conseguenza del dono e del servizio fatto per amore..

 

SIAMO QUELLO CHE SIAMO

E SIAMOLO BENE

 

Al di sopra di tutto, la nostra risposta all’amore di Dio si tradurrà nella maniera con cui noi viviamo la nostra vocazione. Questo termine designava allora le occupazioni inerenti alla condizione sociale di ciascuno, e Francesco di Sales l’assimila alla vocazione nello stesso tempo che l’esalta. «Dio ama la nostra vocazione, scrive alla signora Brûlart, amiamola perciò anche noi» (XII 351). L’invito del vangelo è di vivere non malgrado la nostra situazione sociale, ma attraverso di essa e i molteplici impegni che comporta. Una parola chiave, rivolta ancora alla stessa Brûlart, riassume questo invito: «Siamo ciò che siamo e siamolo bene, per fare onore al maestro operaio di cui noi siamo la sua occupazione» (XIII 53).

Francesco di Sales moltiplica gli inviti a essere gioiosamente ciò che siamo, nel compimento del nostro dovere di stato, accettandoci col nostro temperamento e i nostri difetti, nelle circostanze che costituiscono il contesto della nostra vita: salute, malattia, il carattere di coloro che ci circondano, gli avvenimenti di ogni giorno.

Queste esortazioni sono così caratteristiche da meritare qualche citazione: «Bisogna che lei sia ciò che è: madre di famiglia… e lo sia di buon cuore» (XVII 305). «Dio vuole che lei lo serva così com’è… e che ami teneramente il suo stato. Ma, vede, non bisogna pensare a queste cose solo di sfuggita: bisogna che ponga questo pensiero nel profondo del suo cuore.. e renda questa verità gradevole e accetta al suo spirito» (XIV 40). «Desideri essere fortemente ciò che è… Poche persone amano in conformità con il loro dovere e il gusto di nostro Signore. Che cosa serve costruire dei castelli in Spagna se poi dobbiamo vivere in Francia? È la mia vecchia lezione» (XIII 291). Infine, riferito a se stesso: «Non bisogna soltanto voler fare la volontà di Dio, bisogna farla gioiosamente. Se io non fossi vescovo, forse sapendo quello che so, non vorrei esserlo. Ma essendolo, non solo sono obbligato a compiere ciò che questa pesante vocazione richiede, ma devo farlo gioiosamente, e devo compiacermi in questo e trovare gradimento» (XII 349). Notiamo la quadruplice insistenza sulla gioia.

Alcuni attribuiscono a san Francesco di Sales l’espressione, effettivamente molto salesiana: «Bisogna fiorire dove Dio ci ha piantato». Ammiriamo in questa immagine la dimensione di gioia e di fioritura personale, ma anche il riflesso gioioso che si espande su coloro che ci sono vicini. Francesco di Sales scrive tenendo conto dei gusti barocchi apprezzati sotto Enrico IV e Luigi XIII e parla spesso di fiori e di giardini. Senza dubbio perché apprezza ciò che è bello, ma anche perché la sua spiritualità non è “mortifera”.

Allo stesso modo, egli ritiene che il momento della preghiera è come una passeggiata in un bel giardino, ma se si vuole che pervada tutta la giornata, deve concludersi con due o tre pensieri o risoluzioni concrete simboleggiate da un piccolo mazzo di fiori che abbiamo colto «per ricordarcene durante il resto della giornata e odorarli spiritualmente» (IVD 89).

Per simboleggiare la cordialità che riunisce i credenti in un solo corpo, egli propone di guardare «le rose che sono fatte di una grande quantità di petali rossi in forma di cuore, uniti e fissati sullo stesso gambo» (VIII 146). O ancora questa bella immagine: «La Chiesa è un giardino variopinto di un’infinità di fiori; ce ne sono infatti di diversa grandezza, di diversi colori, di diversi profumi, e pertanto, di diverse perfezioni; tutti hanno il loro valore, la loro grazia e il loro splendore, e tutti, nella fusione delle loro varietà, fanno una perfezione molto gradevole di santità» (TAD 430).

Francesco di Sales descrive anche i colori e i fiori che la carità produce: «essa rende i martiri più vermigli della rosa, le vergini più bianche del giglio, agli uni dona il viola della mortificazione, agli altri il giallo delle preoccupazioni del matrimonio» (TAD). Quest’ultima espressione, «il giallo delle preoccupazioni del matrimonio» richiede una spiegazione: Francesco di Sales ammira e stima la vocazione delle persone sposate, vissuta dalla maggior parte degli uomini, ma ne sottolinea la difficoltà e, per incoraggiarle, presenta loro come emblema un fiore dorato: le preoccupazioni.

Come si vede, egli sa molto bene che la vita non è rosa, e che la rosa ha le sue spine. La sua gioia non è euforica, non sottovaluta la dura realtà. Ricorda che il tempo dei fiori deve lasciar spazio a quello dei frutti, sapendo che la tentazione «di attaccarsi ai fiori e non ai frutti» (ES 1194) sarà sempre grande. I fiori sono spesso il simbolo dell’entusiasmo degli inizi, ma bisogna perseverare, accettare le rinunce della vita e del vangelo come il fiore che deve appassire per diventare un frutto. Per questa ragione Francesco di Sales sospira: «Quando sarà che i nostri fiori si trasformeranno in frutti?».

Nonostante tutto, è la luce e la gioia che devono prevalere come così bene si esprime in una raccomandazione a una religiosa: «Mantenga il suo cuore più gioioso possibile Ricordi che lo Sposo ha scelto questo cuore per farne il suo letto dove riposare; bisogna che sia fiorito» (XXVI 363).

 

La gioia che viene da Dio spesso è messa a dura prova dagli avvenimenti del mondo, dalle disavventure della vita, dagli insuccessi, dalla malattia e dalla morte. La mortalità infantile, per esempio, è catastrofica – il parroco di Saint-Nicolas-des-Champs, nella diocesi di san Francesco, disse di aver sepolto trecento bambini nella sua parrocchia dall’inizio del 1609 fino a quel giorno di agosto – come pure quella delle partorienti. Nella corrispondenza di Francesco di Sales sono numerose le lettere di condoglianze, piene di compassione, di fede e di speranza. Se ne può leggere una meravigliosa, scritta a Giovanna di Chantal, sconvolta per la morte improvvisa tre le sue braccia di Jeanne de Sales, all’età di 14 anni. Era la sorellina di san Francesco, la sua preferita. La madre l’aveva affidata alla baronessa di Chantal a Digione per perfezionarne l’educazione. La lettera descrive in successione le reazioni della mamma della piccola, di Jeanne de Chantal e di Francesco, i sentimenti spontanei che venivano dal cuore e quelli che venivano dalla fede (XIII 328). Nessuno più di Francesco si sente mosso a tenera compassione per i mali e le prove, ma nessuno meglio di lui sa trasformare queste croci in gioie nella fede.

La gioia che viene dall’amore di Dio è compromessa anche dalle seduzioni del mondo, dalla ribellione delle tendenze naturali o dagli assalti del maligno.

Di fronte a queste lotte sia interiori che esteriori, Francesco di Sales propone una distinzione molto illuminante e incoraggiante. Distingue le diverse parti del nostro essere: la parte inferiore che è quella della sensibilità, quella superiore che è quella della volontà e la punta sottile dell’anima o la cima dello spirito. La parte inferiore può essere tutta sconvolta, «scombussolata» sotto i colpi che le sono portati, mentre la parte superiore rimane incrollabile nella sua volontà di appartenere a Dio. Giungono le tentazioni più violente, i disgusti e le altre prove, ma questo non può nulla contro la nostra libertà, la nostra fede, la nostra gioia, il nostro amore, il nostro attaccamento a Dio. È questo uno dei punti più forti della spiritualità salesiana.

La vita cristiana può essere così paradossale; la tristezza e la gioia possono andare di pari passo, come egli ne vede l’esempio nella vita degli apostoli: «la loro tristezza è gioiosa, la loro povertà è ricca, le loro morti sono vitali e i loro disonori onorevoli» (TAD 771).

Come Maria e Giovanni al Calvario: essi rimangono fermi nell’amore nonostante il dolore e le sofferenze mortali. Come il Salvatore sulla croce: «Il suo volto non irradiava alcuna allegrezza, i suoi occhi spenti e avvolti dalle tenebre della morte non gettavano che degli sguardi di dolore». Tuttavia la sua gioia era sempre presente, quella di essere completamente nell’amore con il Padre e l’umanità: essa era sulla cima acuta della sua anima: «aveva ritirato tutta la sua gioia sulla cima del suo spirito» (TAD 791).

 

UN’UMILTÀ

GIOIOSA

 

Può capitare che il sentimento dei nostri limiti, delle nostre imperfezioni e del nostro peccato ci abbattano a tal punto da far scomparire qualsiasi gioia dal cuore. Lo stesso può avvenire quando siamo con l’acqua alla gola, privi di ogni consolazione spirituale, come scrive col suo stile così gustoso Francesco di Sales a proposito di una religiosa: «Guardate, di grazia, questa anima piena di consolazione. Essa si intenerisce alla presenza del suo Beneamato, si effonde in lui… Le mortificazioni, afferma, non mi costavano niente; le obbedienze erano per me delle gioie; ma ora che mi trovo nel disgusto e nell’aridità, non ho alcun coraggio… il gelo e il freddo mi hanno pervaso. Guardate questa povera anima: la sua scontentezza traspare perfino sul suo volto, ha un contegno cupo e malinconico e se ne va così confusa da far pietà. Mio Dio, che cos’ha? – si è costretti a dirle. Ah, che cos’ho? Sono languente… tutto mi disgusta» (VI 115).

A queste desolazioni, Francesco di Sales risponde con umorismo che «bisogna avere pazienza perché abbiamo una natura umana e non angelica» (XIII 172) e che bisogna accettare che la nostra imperfezione ci accompagni fino alla tomba. Andando oltre, afferma che le nostre debolezze e persino le nostre mancanze hanno, nonostante tutto, un lato buono, quello di farci crescere nell’umiltà, che è la base della santità. Ma insiste: un’umiltà gioiosa e generosa, che rende grazie a Dio perché egli è Dio e non un uomo, un Dio che «attira nel suo cuore la miseria dell’uomo», secondo la bella etimologia che egli dà alla parola «misericordia». E applica a se stesso questa considerazione: «Io non so come sono fatto; benché mi senta miserabile, non mi turbo affatto, e a volte ne sono gioioso pensando che sono un vero campo di lavoro per la misericordia di Dio» (XIII 366).

In conformità con la rivelazione biblica in cui i periodi di crisi sono dei momenti privilegiati nei quali Dio manifesta la sua tenerezza e la sua misericordia, Francesco di Sales invita chi è prostrato per la propria impotenza a guardare a Dio che lo guarda: «Sia gioiosa: nostro Signore la guarda, e la guarda con amore, e con una tenerezza più grande della sua “imbecillità”, termine che nel secolo XVII voleva dire debolezza» (XVIII 172).

 

DA UN DIO GIUSTIZIERE

A UN DIO DI AMORE

 

Ai tempi di Francesco di Sales, pare che gli uomini, nella loro mentalità, nei loro costumi e nelle loro istituzioni fossero duri e rudi. L’autorità paterna era sovrana, i principi facevano pesare il loro potere, l’onore veniva vendicato nel sangue, la giustizia non aveva la mano leggera. Non ci si facevano regali e soprattutto non si scherzava con la religione: l’inquisizione non era lontana, il massacro di san Bartolomeo aveva avuto luogo da poco. Lo stesso padre di san Francesco gridava: «dàgli agli eretici!», e diceva che bisognava convertirli con le cannonate. Questi atteggiamenti e comportamenti erano in parte dettati da ragioni politiche, ma erano sottostanti all’immagine che si aveva di Dio, un Dio autoritario, rivestito di potenza e di maestà, di cui si deteneva l’autorità. E, trattandosi dei calvinisti, si era convinti che, se non si fossero convertiti, sarebbero precipitati nell’inferno.

 

Quando Francesco era ancora giovane studente a Parigi, le discussioni tra teologi vertevano sulla questione della predestinazione. Molto impressionato, egli ebbe la sensazione di essere predestinato alla dannazione e cadde preda di una depressione così terribile che i compagni credettero che morisse. Il suo diario intimo conserva le tracce emozionanti di questa angoscia. Dopo lunghe e drammatiche settimane, quando infine ritrovò la serenità, aggiunse nel suo diario: Jesus non damnator, sed salvator. Attribuì esplicitamente il vero significato al nome di Gesù che vuol dire «Dio salva». Di qui la venerazione che egli aveva per il santo nome di Gesù: «Se si è arrabbiati (termine che a quel tempo voleva dire tristi), il nome di Gesù ridona gioia: la bottega è aperta!» (VII 118). Si capisce così meglio la ragione per cui suggerisce, quando si è immersi nella tristezza, di ripetere questo grido del cuore, curioso a prima vista: «Gesù, siimi Gesù!» (IVD 275). Questa esperienza di un momento di tristezza indicibile, alla fine vinta, gli consentirà di manifestare una simpatia ricolma di conforto verso coloro che ne sono vittime. La sua corrispondenza lo testimonia: «So bene di che si tratta; ho attraversato questa esperienza e ne sono uscito».

«Non bisogna conservare la paura nel cuore perché esso è il luogo dell’amore» (IX 319). Con queste considerazioni, Francesco di Sales ha grandemente contribuito a mitigare il senso della giustizia di Dio con quello della bontà e della misericordia. San Giacomo l’affermava già nella sua lettera: «La misericordia ha sempre la meglio nel giudizio» (2,13). La concezione di un Dio despota ha avvelenato l’umanità e noi non ne siamo ancora guariti (M. Zundel). Molti sono oggi sono quelli che hanno più paura di Dio di quanto non l’amino.

 

L’infanzia spirituale è un tema fondamentale nell’opera di san Francesco. Egli addolcisce il tratto un po’ severo dell’immagine della paternità affermando che Dio prova per noi un «amore paternamente materno» (XIX 17). L’immagine del bambino in braccio a sua madre, che gioca con la barba del padre, sostituisce quella comune prima di lui, del giudice e del maestro con il suo servo o il suo schiavo.

 

In una lettera a santa Giovanna di Chantal, Francesco di Sales descrive il Signore Gesù che accompagna Maria e Giuseppe in pellegrinaggio. «Egli fa loro da bastone, da mantello e da piccola bottiglia di vino, di vino, dico io, che fa gioire gli angeli e gli uomini e che inebria Dio Padre di un amore oltre ogni limite» (XIV 324). Gesù, piccola bottiglia di vino: che immagine meravigliosa! Sui sentieri della vita, come dice il cantico, l’Emmanuele ci accompagna e per sostenere il nostro morale di fronte agli ostacoli, affinché rimaniamo nella gioia, egli attinge dalla sua gioia e si dona a noi sotto forma di vino, un vino inebriante, che va alla testa!.

Siamo molto lontani da quelle vetrate e miniature che rappresentano il Figlio dell’uomo con una spada tra i denti, o da un Gesù che non avrebbe mai riso, sempre teso, tutto occupato dalla serietà della sua vita e delle miserie umane, come lo predicava Bossuet, il quale tuttavia ammirava Francesco di Sales: «Egli (Gesù) ha sì preso le nostre lacrime e i nostri dolori, ma mai le nostre gioie e le nostre risa. Non ha voluto che le sue labbra si allargassero una sola volta con un movimento che sarebbe stata un’indecenza indegna di un Dio fatto uomo» (citato da Delumeau, La Peur et le Péché, p. 330).

E siccome un libro recente ripropone il vecchio problema di sapere cioè se Gesù ha mai riso, è gustoso sentire il parere di Francesco di Sales. A suo modo di vedere, Gesù non ha mai riso, perché ciò che induce a ridere è l’aspetto comico di qualcosa di imprevisto che all’improvviso appare, e, siccome Gesù conosceva il futuro, non era mai sorpreso. Quindi egli non rideva. Fin qui il lettore rimane desolato, ma deve ascoltare la conclusione: Gesù non ha mai riso… ma sorrideva!

 

Un aneddoto raccontato a Giovanna di Chantal mostra ancora l’idea che Francesco si faceva di «nostro Signore umanato». «Mi trovavano un anno fa, circa a quest’ora, a Torino e mostrando la sindone in mezzo a un gran numero di persone, molte gocce di sudore che grondavano dal mio volto caddero sulla stessa sindone… Mia cara madre, il principe cardinale (Maurizio di Savoia, fratello del duca) si arrabbiò che il mio sudore cadesse sulla santa sindone del mio salvatore. Ma mi venne in mente di dirgli che nostro Signore non era così delicato e che egli aveva sparso il suo sudore e il suo sangue per mischiarli ai nostri, in modo da dare ad essi il premio della vita eterna» (XVI 178).

Si vede come Francesco di Sales viveva familiarmente con il Signore. Santa Giovanna di Chantal ne dà testimonianza al processo della sua beatificazione: «Egli camminava sempre raccolto in Dio. Il suo raccoglimento non era né cupo né triste e non era avvertibile se non a coloro che conoscevano il suo metodo. Circa quindici anni or sono gli chiesi se stava a lungo senza che il suo spirito ritornasse effettivamente a Dio. Mi rispose: “A volte circa un quarto d’ora”. Egli viveva veramente ciò che raccomandava: “Mettete il vostro cuore un po’ più a suo agio con nostro Signore. Egli non è tanto delicato, andate a da lui alla buona…”» (Entretiens des aversions).

 

UNO SGUARDO

OTTIMISTA

 

Francesco di Sales giunge a noi al di là dei secoli con un volto illuminato di una profonda bontà, la bontà dei forti in pace con tutti perché riconciliati con se stessi, fatta di indulgenza verso le miserie della comune umanità, ma anche di fiducia in questa immagine di Dio, redenta dal sangue di Cristo, il quale abita nel più miserabile come una speranza di riscatto.

Egli non si lascia turbare né disarmare dal triste spettacolo che troppo spesso offre l’essere umano. Uomo del Rinascimento, egli considera l’uomo come «la perfezione dell’universo» (IV 275). Esso è creato «a immagine e somiglianza di Dio»– espressione biblica che risuona come un ritornello nei suoi scritti. Certamente, c’è il peccato che «insudicia e imbratta» (X 268) l’immagine di Dio che egli dovrebbe essere, ma guardando bene vi si possono trovare ancora le tracce dell’immagine, è possibile ridargli tutto il suo splendore. Una riflessione del suo Trattato manifesta questo sguardo ottimista: «Il peccatore non è nella condizione dei demoni, la cui volontà è talmente imbevuta e pervasa dal male che non può volere alcun bene. No, Teotimo, il peccatore in questo mondo non è così: egli è a metà strada tra Gerusalemme e Gerico, ferito a morte, ma non ancora morto; infatti il Vangelo dice che era mezzo vivo; e siccome è mezzo vivo, può ancora compiere delle opere mezze vive» (TAD 873).

Francesco di Sales non è ingenuo, ma «concreto» come si dice oggi. «Se un’azione potesse avere cento volti, bisogna guardare a quello più bello» (IVD 211). «Chi può assicurare che colui che ieri era peccatore e malvagio lo sia ancora oggi?» (XIV 115). La peccatrice pubblica Maria Maddalena deve essere chiamata arci-vergine» tanto ha compensato la sua cattiva condotta con l’amore a Gesù (X 85). Egli se la prende con coloro che trovano piacere nel cercare ciò che non va: «Mi obbligate a dire che cercate le cloache e le immondizie anziché i giardini e i frutteti» (I 119). Non ignora nulla delle realtà che affliggono il mondo e delle debolezze umane presenti nella Chiesa – come testimoniano le sue visite ad limina – tanto più che, essendo egli decisamente un vescovo postconciliare, si applica a snidarle. Egli che si definisce «l’uomo più affettuoso del mondo» ne è certamente colpito, ma applica a sé la consegna: «Bisogna lasciare che le afflizioni passino dentro il cuore, ma non bisogna mai permettere loro di soggiornarvi».

 

UN SANTO TRISTE

È UN TRISTE SANTO

 

Francesco di Sales avrebbe replicato così se gli avessero parlato di un uomo di vita santa ma con un’aria sempre imbronciata. Egli stigmatizza «i volti tristi, le facce piangenti e le persone che sospirano» (VI 322). Considerando la tristezza come uno stato estremamente pericoloso, egli dedica numerose dissertazioni all’esame circa il modo di combatterla.

Eccellente consigliere spirituale, compatisce «la tristezza naturale che ha più bisogno di medici che di teologi» (XXVI 230) e la distingue dalla cattiva tristezza che viene dal maligno, il quale «siccome è triste e malinconico, e lo sarà eternamente, vorrebbe che tutti fossero come lui» (IVD 274), dando così ragione al «mondo che diffama quanto più può la santa devozione, dipingendo le persone devote con un volto depresso, triste e dimesso e affermando che la devozione provoca umori melanconici e insopportabili» (IVD 34). Bisogna purtroppo ammettere che queste riflessioni sono sempre attuali… Ecco l’occasione di dissipare il disprezzo e di dire che la vita devota non ha nulla a che vedere con la vita bigotta; a quel tempo “devoto” voleva dire “dedito”, impegnato, pronto e gioioso nella via del vangelo.

«Risvegliate spesso in voi lo spirito di gioia e di soavità e credete fermamente che è il vero spirito di devozione» (XIII 112). Vivetelo nelle incombenze quotidiane: «Rallegratevi quanto più potete facendo bene, poiché è una duplice grazia della buona opera, di essere fatta bene e di essere fatta gioiosamente» (XIV). Vivendo gioiosamente, coloro che avviciniamo avranno la grazia di «sentire un po’ di profumo del Vangelo» (VII 75).

 

Come va il piccolo mondo? È con questo umorismo che Francesco di Sales salutava i suoi familiari, informandosi amabilmente dello stato del loro cuore. Leggendo le sue opere, si è spesso portati a sorridere tanto i suoi scritti sono coloriti di umorismo. È questo umorismo, compagno abituale dell’equilibrio, di cui è pieno, che gli permette di guardare dall’alto gli avvenimenti senza lasciarsene dominare. La radice dell’umorismo è la fiducia in Dio, un Dio il quale vuole che la vita sia seria ma non tragica.

 

Francesco di Sales ha vissuto l’intera sua esistenza nell’alta Savoia e in questo splendido quadro naturale egli nutriva la sua gioia di vivere e di credere. Curioso delle cose della natura, scopriva in essa il riflesso della bellezza e della bontà di Dio. Si serviva abbondantemente delle sue osservazioni, spesso molto fini, per cantare la gloria dell’Artefice (XII 307) e per meglio comprendere il comportamento umano. Invitata i suoi corrispondenti «a non avere sempre lo spirito chiuso in se stesso, poiché sarebbe pericoloso diventare tristi e malinconici» (VI 415), a calmarsi e a rinverdire la propria anima passeggiando, «andando per i campi» (in campagna), in montagna e nei boschi che ci dicono « cose che non si trovano nei libri. Vedrete quale gioia discende dalle nostre montagne». Amava «alzarsi di buon mattino, il tempo più gradevole in cui gli stessi uccelli ci invitano alla lode di Dio; e anche perché alzarsi di buon mattino favorisce la salute e la santità» (IVD 198).

«Il mio santo è san Francesco», amava dire. Come tutti i suoi, egli beneficiava di due secoli di influsso francescano tutto impregnato di gioia. Suo padre era un Francesco, sua madre una Francesca, suo fratello un Giovanni-Francesco, fino a Giovanna di Chantal che era una Giovanna-Francesca.

 

UN MESSAGGIO

PER OGGI

 

Francesco di Sales ha saputo far giungere ai suoi contemporanei l’eco della gioia contenuta nel Vangelo. Diceva che bisognava alloqui hominem, ossia parlare all’uomo con il linguaggio del proprio tempo in modo da toccare «l’orecchio del suo cuore». Ai giovani che hanno sete di una fede semplice e gioiosa si presenta come colui che è in grado di rispondere alle loro attese. Egli ha semplificato il messaggio del vangelo e mostrato che esso era alla portata di tutti. Basta guardare Dio che ci ama e rispondervi gioiosamente, nel posto che si occupa nel mondo. Francesco di Sales resta nella storia l’inventore del cristiano che danza, che sa vestirsi e fare le spesa nel mondo.

La prova della costante irradiazione che emanava dalla sua persona e dal suo messaggio sta nell’attrattiva che egli non hai cessato di esercitare. Da san Vincenzo de Paoli che vedeva in lui l’uomo che meglio ha riprodotto il volto di Gesù sullla terra, a don Bosco, apostolo della gioventù in difficoltà e fondatore dei salesiani il quale faceva «consistere la santità nell’essere sempre gioiosi». Quindi su Giovanni XXIII il quale scriveva, quand’era seminarista: «Non m’importerebbe niente, nemmeno di diventare papa, se potessi assomigliare a san Francesco di Sales», e sarà lui a fustigare i profeti di sventura; così François Varillon, autore di La gioia di credere e la gioia di vivere, per finire con il card. Marty, nominato arcivescovo di Parigi nella tormenta del maggio 1968. Si chiamava Gabriele e aveva scelto il nome di Francesco per ammirazione del nostro santo. Egli ne era ben ispirato rivolgendosi ai giovani per l’ultimo messaggio: «Cercate nella vostra vita come Gesù vi guarda, come guarda coloro che sono attorno a voi. Non guardate al mondo con gli occhi di coloro che hanno le cateratte. Ci sono troppi salici piangenti nel mondo, siate pieni di speranza!».

In una nota in cui, alla domanda di un giovane vescovo, espone l’arte della predicazione, Francesco di Sales consiglia, tra l’altro, di ricorrere agli esempi tratti dalle vite dei santi, poiché afferma, «il vangelo è come una musica scritta, mentre la vita dei santi è questa musica cantata» (XII 306). Come è detto bene! Certuni non conoscono le note, non sanno decifrare lo spartito del vangelo, ma i santi e, tra di essi Francesco di Sales l’eseguono, lo traducono in pratica e rapiscono così il cuore di ogni uomo.

La parola finale sarà per ricordare l’amabile rimprovero rivolto agli israeliti i quali «non poterono cantare a Babilonia perché pensavano al loro paese. Io, dice Francesco di Sales, vorrei che cantassimo dappertutto».

 

François Dabin

 

1Il testo che segue è ripreso in una nostra traduzione e con un breve taglio nella parte iniziale, dalla rivista internazionale di catechesi e pastorale Lumen vitae, vol LVII, Chrétien, donc heureux?, dic. 2002, n. 4. pp 401-416.