È MORTO “PADRELARDO”

HA ASCIUGATOMOLTE LACRIME

 

Il celebre religioso premostratense p. Werenfried van Straaten a 90 anni ha “compiuto la sua opera nel mondo”. Ciò che ci rimane della creatività di una vita che si rese presente ovunque venisse a sapere che Dio piange negli occhi dei suoi figli.

 

«Già da due anni ricevo dal nostro parroco una parte dei doni che regolarmente gli giungono dal Belgio. È cominciato con il lardo e ieri ho ricevuto persino un magnifico paio di scarpe. Per quanto l’espulsione mi abbia reso poverissima e la malattia mi impedisca di lavorare penso che sia mio dovere fare anch’io un sacrificio. Così mi sono levata dal dito la fede nuziale e l’aggiungo a questa lettera. Aiutate se possibile i céchi che ci hanno espulsi, così come voi ci aiutate nonostante che il vostro popolo abbia tanto sofferto sotto i tedeschi. Mio marito è morto di fame nel 1946 nel campo di Troppau: voglio tuttavia rimanergli fedele, anche senza anello, e sopportare tutte le difficoltà per la maggior gloria di Dio».

Questa pagina di autentico vangelo vissuto mezzo secolo fa è una lettera scritta a p. Werenfried van Straaten da una donna esule in Germania dai Sudeti, la regione della Boemia abitata fin dal sec. X da un gruppo di etnia tedesca e che nel 1938 venne occupata dai nazisti di Hitler, ma dalla quale dopo la seconda guerra mondiale quasi tutti i tedeschi, a opera dei céchi, vennero espulsi.

La rileggiamo oggi, a pochi giorni dalla morte del religioso premostratense, quale documento che fra gli innumerevoli che si potrebbero riportare rivela il significato pieno del servizio d’amore reso ai fratelli in una vita spesa tutta evangelicamente. La scrivente infatti ringrazia per i doni ricevuti – il lardo, le scarpe – in una situazione di estrema povertà ma si innalza poi a un’altezza di carità che dà le vertigini e che vediamo come il frutto più prezioso dell’opera di un uomo al quale bastò essere “insignito” del soprannome di Padrelardo.

Tutto cominciò, è vero, “con il lardo”, che dai primi pezzi raccolti in Olanda e in Belgio e distribuiti tra i più poveri in Germania divennero quintali e tonnellate viaggianti lungo le rotte d’Europa invase dalle rovine della guerra e in seguito superandole con il lardo trasformato in aiuti di ogni genere, alimentare e no, verso l’Asia, l’America Latina e l’Africa e verso qualsiasi luogo dove negli occhi dei poveri “Dio piange” per l’umiliazione della fame, le devastazioni della guerra, la privazione della libertà con tutto il corollario della persecuzione a causa della fede cristiana.

Nacque così, col coinvolgere sempre più numerose persone capaci di solidarietà e anche di amore evangelico senza distinzione tra amici e nemici, l’opera di Aiuto alla Chiesa che soffre fondata, diretta e amatissima da p. Werenfried fino agli ultimi suoi giorni di vita, chiusi il 31 gennaio scorso a Bad Soden in Germania.

 

CARITA’ CREATIVA

IN ATTO

 

Era il 1947, tempo nel quale correvano espressioni oggi non più in uso come, appunto, Chiesa che soffre, cortina di ferro, Chiesa del silenzio.

Padre Werenfried era giovane, essendo nato nel 1913 (il 17 gennaio a Mijdrecht nei Paesi Bassi), e approdato dall’Olanda in Belgio era entrato a Tongerlo nell’ordine religioso premostratense. Qui, avendo scelto la povertà scelse pure di “vettovagliare i poveri”: è ciò che scrisse nel presentare il libro Dove Dio piange l’allora suo abate generale p. Norbert Calmels, che amabilmente lo descrive nella mole fisica quasi gigantesca, nella bontà spontanea e generosa nonché nei tratti di una libertà poco conformistica che sarebbe sfociata nella carità creativa destinata a diventare il sigillo della sua vocazione e della sua vita.

Racconta egli stesso nel libro citato: «All’inizio della mia vita claustrale vissi così austeramente che dopo tre anni la mia salute vacillò. Il medico mi dichiarò inadatto per le missioni, per il lavoro in parrocchia e per la predicazione. In pratica ciò significava che dovevo lasciare l’abbazia. Fortunatamente l’abate non mi mandò via. Pur sapendo che cantavo troppo forte e talvolta fuori tono, mi ritenne adatto per la preghiera corale solenne, perché aveva un cuore grande e paterno. Potei così diventare sacerdote. Più tardi mi nominò suo segretario. Ho imparato molte cose dall’abate Stalmans. Una volta mi disse: “Sono contento di averti, Werenfried, ma sono anche contento di avere un solo Werenfried”. Venne poi la seconda guerra mondiale con tutto il dolore che indelebilmente è rimasto inciso nella mia memoria. Non volli parteggiare se non per l’amore e contro l’odio. In un paese oppresso dall’occupazione nemica sostenevo che i cristiani sono tenuti ad amare i loro nemici e che il defraudarli sistematicamente delle normali prove e manifestazioni dell’amore fraterno è peccato grave».

Era il vangelo fatto proprio nella sua essenza unica, che lo portò a elemosinare per il nemico sconfitto e a inventare modi sempre nuovi di rispondere secondo i tempi, animato da vivo senso ecclesiale e da concreta sintonia con i vescovi dei diversi luoghi, alle attese di Dio nelle attese dei più poveri.

Così ha fatto camminare per il mondo – destinazione le povertà più crude – mediante una fitta rete di solidarietà miliardi di dollari; è arrivato nel 2000 a sostenere la realizzazione di circa 7.000 progetti in 140 paesi a tutte le latitudini, avendo raccolto col coordinamento dei 16 segretariati nazionali dell’opera Aiuto alla Chiesa che soffre le offerte di 600.000 benefattori, i quali sono arrivati a offrire 66 milioni di euro.

 

DOVE L’AMORE

LASCIA IL SEGNO

 

Ma sono i progetti forse oggi meno noti ad aver inciso maggiormente sulle coscienze a partire dall’impegno di consolare le sofferenze della Chiesa: sono quelli che riguardano il sostegno alla fede e alla carità dei fedeli mediante, ad esempio, il bollettino L’eco dell’amore, fondato nel 1957 e sulle cui sobrie pagine sono state raccontate storie vere di un martirio sofferto a lungo in silenzio; attraverso l’aiuto con mezzi sempre più efficaci ai sacerdoti in difficoltà estreme per la stessa sopravvivenza, nel dopoguerra, con la fornitura di cibo, vestiti, medicinali; e per il ministero perché molti erano clandestini, abitavano in tuguri o erano impediti per svariate cause dolorose.

Aiutati dapprima con l’invio di biciclette poi di motociclette e in seguito di automobili camminarono per tutta l’Europa centrale i “sacerdoti col sacco in spalla” per assistere i profughi; e nelle “cappelle volanti” moltissimi fedeli rimasti senza chiese perché distrutte dalla guerra trovarono con il soccorso materiale anche il conforto di poter celebrare nuovamente l’eucaristia a lungo desiderata.

Ed è negli anni 1970 che i suoi viaggi per il mondo provocano il genio di Padrelardo in America Latina dove era stato “mandato” dal papa Giovanni XXIII: la sconvolgente realtà della Chiesa in Amazzonia, ad esempio, mette in moto le sue risorse creative ed egli riesce a far trasformare oltre 300 autocarri militari in mezzi di trasporto per i missionari che da una quarantina di diocesi poterono spostarsi più rapidamente in quegli immensi spazi per evangelizzare i poveri.

Lo stesso genio attento alle necessità estreme dei corpi e delle anime che lo commuovevano sempre come se le incontrasse per la prima volta, lo persuase a fondare nel 1966 a Bukavu in Congo (allora Zaire) assieme a madre Hadewych, canonichessa del Santo Sepolcro, l’istituto delle Suore della Risurrezione, operanti attualmente nella Repubblica Democratica del Congo, in Rwanda e in Cameroun.

Tutti i reportages dei suoi viaggi nel mondo lasciano intravedere in p. Werenfried, oltre a notevoli doti di “narratore” dal vivo, un forte senso di umanità intriso di dolcezza nella rispettosa attenzione al prossimo in tutte le situazioni anche le più dolorose in cui abbia potuto incontrarlo.

Basterebbe per coglierne tutto lo spessore, rileggere alcuni racconti di sue esperienze vissute profondamente in Africa o in America Latina o in Estremo Oriente. E basterebbe per tutti rileggere La storia della morte bionda incontrata sul volto di tanti bambini giacenti nelle capanne di Kivu, dove si era recato con madre Hadewych, «la piccola suora di ferro dal cuore d’oro che a Walungu, in mezzo al caos dell’entroterra, dirige con mano ferma convento, ospedale, scuole, capi tribù, orfani e un gregge di suore indigene».

Si può dire che p. van Straaten l’abbia visitato tutto, il mondo che piange, e vi abbia portato anche personalmente il sorriso di Dio sotto le forme più comuni comprensibili dalla gente più semplice e nelle forme più insolite per progetti di grande rilievo: come quello delle citate “cappelle volanti” che hanno anticipato – scrive il quotidiano francese La Croix in una rapida e intensa commemorazione di Padrelardo – i “battelli-chiese” «che la sua opera, cinquant’anni più tardi, ha finanziato sui grandi fiumi della Russia e offerto alla Chiesa ortodossa per favorire lungo quelle loro rive la sua missione evangelizzatrice presso città e villaggi».

L’opera Aiuto alla Chiesa che soffre è oggi riconosciuta come Associazione universale di diritto pontificio e la sua organizzazione è tale da poter garantire una continuità efficace dell’azione del fondatore.

Ma ciò che a tutti rimane di questo originale testimone la cui vita si è estesa per quasi tutto il secolo XX, “intrufolandosi” nei suoi angoli più bui, non è altro, ancora una volta, che la lucida e continua scelta – al di là dei successi e anche del tipo di considerazione ricevuta dal mondo – di attualizzare nella propria vita a vantaggio del prossimo il puro Vangelo di Gesù nelle sue esigenze più forti e meno comode.

 

Zelia Pani