SUSSIDIO CEI “IL DONO DI SÉ”

CHI POSSO ESSERE PER IL MALATO?

 

Ai malati occorre offrire non solo doni materiali o stereotipe parole di conforto, ma se stessi. I modi di vivere questa disponibilità sono molteplici. Il modello a cui guardare è Gesù.

 

In questa nostra società del benessere, così segnata dall’individualismo, uno dei rischi che corrono tante persone è di chiudersi nel proprio piccolo mondo e di passare accanto a chi soffre senza accorgersene o persino con indifferenza. Per usare l’immagine evangelica: si comportano come il sacerdote e il levita che scorgono un povero uomo lasciato ferito e morente sul ciglio della strada, lungo il cammino che porta da Gerusalemme a Gerico, e passano oltre, fingendo di non vederlo.

Per evitare questo rischio di disimpegno e giungere invece ad assumere un atteggiamento appropriato dal punto di vista umano e soprattutto cristiano verso i malati e coloro che soffrono ci sembra utile rileggere il piccolo sussidio che l’Ufficio nazionale CEI per la pastorale della sanità, ha pubblicato in vista della giornata del malato che ogni anno si celebra l’11 febbraio, memoria della beata Vergine di Lourdes, in cui troviamo suggerimenti che vanno molto al di là della giornata in questione. Si tratta di un piccolo prezioso strumento di pastorale messo nelle mani non solo di coloro che operano nel campo della salute, ma di tutti indistintamente, poiché non c’è nessuno che nella sua esperienza di tutti i giorni attorno a sé non incontri la malattia e la sofferenza.

Indovinato anzitutto è il titolo Il dono di sé, e molto appropriati i contenuti che aiutano a «interiorizzare le parole e l’esempio di Gesù e di quanti, lungo la storia, sono stati capaci di imitarlo più da vicino».

 

OFFRIRE DONI

E FARSI DONO

 

Per vivere in maniera significativa vicino a chi soffre, afferma il sussidio, bisogna «offrire doni ed essere “dono”». Ma quali doni offrire?

Spesso, nella vita ordinaria, si è soliti portare dei regali ai malati o compiere qualche piccolo servizio allo scopo di alleviare la loro sofferenza; si trascorre anche un po’ di tempo insieme, si danno dei consigli e si pronuncia qualche parola di consolazione. Ma se ci si ferma a questo livello, i doni si riducono a qualcosa di materiale, «senza esser accompagnati dalla presenza, dalla disponibilità, dalla capacità di comprendere l’altro… In altre parole, si situano più sul piano dell’avere che su quello dell’essere». La domanda che bisogna porsi allora non è «cosa posso offrire al malato?», ma «chi posso essere per il malato?». In effetti, «i nostri doni migliori possono essere in realtà quelli con cui esprimiamo la nostra umanità: amicizia, bontà, pazienza, gioia, pace, perdono, gentilezza, amore, speranza, fiducia, ecc. Questi sono i doni dello Spirito che siamo chiamati a condividere».

Il sussidio si domanda: «Non è questo un invito a permeare della ricchezza del nostro essere ciò che facciamo per i malati o ciò che diamo loro? Il malato, infatti, non ci chiede solo da bere, di essere alleviato nella sua sofferenza, di essere medicato, pulito… ma anche di venire ascoltato, di essere aiutato a trovare un senso a ciò che sta vivendo».

Così inteso, il dono si inserisce allora all’interno di una relazione significativa, una relazione io-tu. Ma se si vuole stabilire un simile rapporto, sottolinea sempre il sussidio, bisogna giungere a considerare il malato come un mistero, nel senso che «ogni persona è portatrice di valori e di risorse che sfuggono alle osservazioni superficiali; è artefice di un progetto il cui svolgimento segue percorsi originali condizionati da tanti fattori presenti e passati… Tale condizione dell’essere umano non invita forse al silenzio, alla meraviglia, allo stupore e al rispetto?».

L’esperienza tuttavia ci dice che non è facile considerale l’altro come persona, cioè come un essere distinto da noi, ricco della propria autonomia. Anche nel mondo della salute infatti «esiste il rischio di lasciarsi guidare dal funzionale, dall’utilitaristico e dal paternalistico, racchiudendo il malato nel suo ruolo di paziente, considerandolo puro oggetto della nostra compassione, mera occasione per una affermazione di noi stessi».

Per giungere a tanto, occorre «un cammino di crescita». Bisogna cioè prendere coscienza di quanto ci è donato da Dio, dalle persone che ci sono vicine, da quanti si pendono cura di noi in particolari circostanze della vita, per poter così «educarsi al dono». Una risonanza particolare dovrebbe suscitare nell’animo l’espressione di Paolo, riferita a Gesù: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

 

CHE COSA

POSSIAMO OFFRIRE?

 

I doni migliori che possiamo offrire a chi è malato, scrive il sussidio, sono quelli che derivano dalla ricchezza della nostra persona, della nostra umanità. Il primo è il dono di un cuore ospitale. Ora, «l’essere ospitali si esprime nel creare uno spazio dove l’altro possa sostare. L’ospite si sente come a casa, rispettato nei suoi diritti, riconosciuto nella sua dignità. Nell’ospitalità ha luogo una graduale trasformazione del malato che da estraneo diventa familiare». È questo un atteggiamento interiore «essenziale per chi vuole aiutare il malato».

A rafforzare queste affermazioni, il sussidio ricorda anche alcune scene bibliche dove l’ospitalità è presentata come il luogo della rivelazione di Dio: i tre stranieri accolti da Abramo nella tenda di Mambre (Gen 18,1-15), l’episodio della vedova di Sarepta che offre cibo e riparo al profeta Elia (1 Re 17,9-24), i discepoli di Emmaus che invitano il misterioso viandante a sostare da loro perché si fa sera e che poi si manifesta come Gesù risorto allo spezzare del pane (Lc 24,13-35).

Un secondo dono da offrire è la visita. Ciò implica la capacità di uscire, di andare verso l’altro. Ancora una volta il riferimento è alla Bibbia, in cui come icona meravigliosa è ricordato l’episodio evangelico della visitazione (Lc 1,39-55). Ma nel Vangelo troviamo tanti altri episodi che descrivono questo andare verso: l’incarnazione, quale via per eccellenza con cui «Dio ha visitato… il suo popolo», come esclama il profeta Zaccaria; le numerose circostanze in cui Gesù va verso i malati, i peccatori, le persone in difficoltà; così pure la scena di Zaccheo a cui Gesù dice: «Oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5). E come ignorare l’affermazione di Gesù: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36)?

Gli operatori pastorali della parrocchia e delle istituzioni sanitarie, come ospedali, case di riposo e di accoglienza sono invitati a favorire il rapporto tra i malati, i morenti e le comunità da cui provengono. Inoltre, è chiesta «una particolare attenzione ai pazienti più abbandonati, soli, agli stranieri che mancano di ogni punto di riferimento».

Un terzo dono è quello della presenza. «Visitando un malato con cuore ospitale, noi gli facciamo dono della nostra presenza». Essa «può diventare autentico sacramento della vicinanza di Dio quando è permeata di rispetto, comprensione, fiducia, compassione, tolleranza, discrezione, gratuità, buonumore, gioia..». Sono atteggiamenti che possono esprimersi sia con la parola, «ma anche attraverso il silenzio e il contatto fisico». Scrive a questo riguardo il sussidio: «In situazioni di grande stress personale, nel quale il paziente si sente vulnerabile e isolato, nessun altro modo di comunicare è paragonabile al contatto, per quanto riguarda l’immediatezza del conforto e gli effetti tranquillizzanti. Il contatto fisico diminuisce il livello di ansia e rafforza le componenti di sicurezza e di calore. È un atto che simbolizza comprensione, conforto e interesse, e può spesso portare a un interscambio verbale».

A questi doni si aggiunge poi anche quello del servizio, che consiste nel mettere a disposizione le proprie risorse materiali, le competenze nei vari settori riguardanti l’assistenza e l’organizzazione del mondo della salute. Non bisogna inoltre dimenticare che «molti infermi non hanno la possibilità di rispondere ai bisogni più elementari; mancano, infatti, di mezzi materiali e finanziari, di alloggio». Tra i casi più dolorosi vengono citati i malati di Aids, rifiutati spesso anche dalle loro famiglie, molti terzomondiali che «senza il servizio di cuori generosi sarebbero destinati a morire sui marciapiedi».

Rientra in questo dono anche la difesa a chi soffre, sottolinea il sussidio, attraverso il coinvolgimento nella legislazione e nell’amministrazione sanitaria; è questo un modo di sviluppare una dimensione importante della vita cristiana, ossia «l’atteggiamento profetico».

Ma una delle espressioni più significative di solidarietà è il dono del sangue e degli organi. Si tratta di un autentico ed efficace “servizio alla vita”. È stato scritto: «Una goccia del tuo sangue alimenta il cuore della solidarietà». Il dono del sangue infatti è uno dei simboli più efficaci per esprimere l’amore verso gli altri. L’esempio l’ha dato Gesù, come scrive l’apostolo Pietro: «Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo» (1 Pt 1,19).

Espressione di solidarietà, anzi di comunione e di amore, è anche la donazione degli organi che, come ha dichiarato Giovanni Paolo II, quando è compiuta «in forme eticamente accettabili» costituisce uno dei «gesti che concorrono ad alimentare un’autentica cultura della vita».

A questo dono si aggiunge poi quello di camminare insieme, ossia fare un po’ di strada insieme ai malati. E ciò può assumere varie modalità. Per esempio quella dell’accompagnamento dei malati nei pellegrinaggi ai santuari mariani, in cui «il cammino geografico compiuto insieme agli infermi è simbolo anche di un percorso spirituale compiuto sia da chi è accompagnato come da chi accompagna».

Un altro modo è di aiutare a trovare la strada. In particolare, «si tratta di aiutare i malati a trovare una risposta ai persistenti interrogativi sul senso della vita presente e futura e la loro mutua relazione, sul significato del dolore, del male e della morte». In questi casi, «il colloquio deve essere umano, fraterno, aperto a tutti e rispondente alle esigenze e alle disposizioni dei malati». Nel caso dei credenti, è importante aiutarli affinché vivano la vita in Cristo e raggiungano la santità a cui sono chiamati.

Ma questo camminare insieme, suggerisce il sussidio, si può attuare anche attraverso la corrispondenza epistolare, utilizzando tutti i moderni strumenti della comunicazione sociale.

Prezioso è inoltre il dono della preghiera e della celebrazione. E questo si può fare anche quando le proprie risorse sono limitate o si è impediti di avvicinarsi ai malati e a dialogare con essi. In questi casi «il dono della preghiera è sempre possibile». Ed essa può compiere anche «il miracolo di ristabilire, attraverso la grazia del Signore, l’integrità del malato, accrescendo la sua fiducia in Dio».

Così pure le celebrazioni liturgiche dell’Eucaristia e dei sacramenti dei malati che sono un dono prezioso, soprattutto quando sono precedute dal saper servire, dall’essere in ascolto del malato.

C’è infine il dono che consiste nel dare la vita per i propri amici, che può realizzarsi in vari modi, come indica l’esempio di tanti uomini e tante donne che hanno offerto la loro vita come atto supremo di amore. Fra questi il sussidio cita san Massimiliano Kolbe, il beato Damiano de Veuster, (“Damiano dei lebbrosi”), Gianna Beretta Molla, il gruppo delle suore Poverelle di Bergamo vittime in Africa del virus ebola, ultime testimoni di quello stuolo di persone consacrate che, come leggiamo in Vita consecrata «hanno sacrificato la loro vita nel servizio alle vittime di malattie contagiose, dimostrando che la dedizione fino all’eroismo appartiene all’indole profetica della vita consacrata» (n. 83).

 

SCAMBIO

DI DONI

 

I malati tuttavia non sono solo oggetto di attenzione e di sollecitudine da parte della comunità cristiana, ma hanno anch’essi molto da offrire. Anzitutto il dono di una lezione di vita, «mostrando che anche in situazioni difficili la persona umana può riuscire a mantenere la propria integrità, scoprire nuovi valori, coltivare il fiore della serenità, crescere in spiritualità».

In secondo luogo, come afferma Giovanni Paolo II, i malati, partecipando «alle sofferenze di Cristo conservano nelle proprie sofferenze una specialissima particella dell’infinito tesoro della redenzione del mondo e possono condividere questo tesoro con gli altri». In altre parole, è la via dell’imitazione di Gesù servo sofferente, dalle cui piaghe siamo stati guariti (cf. Is 53,5), seguita da innumerevoli persone che hanno fatto del soffrire una fonte di guarigione e di salvezza per sé e per gli altri.

Il donare, scrive il sussidio, non è mai un movimento senza ritorno; il dono fatto agli altri diviene fonte di crescita anche per se stessi. E il malati hanno tante cose da offrire. Per esempio, una presa di coscienza sempre più profonda della condizione umana, fatta di grandezza e di miseria, di speranza e di abbattimento, di vita e di morte; un risveglio e un’attivazione dei sentimenti di solidarietà e di fraternità…; il rimarginarsi delle proprie ferite interiori, nel senso che l’esercizio delle opere di carità può aiutare a comprendere il senso della vita, a discernere i valori autentici e a rimarginare le ferite causate dall’egoismo e dall’indifferenza.

«Il dono che facciamo di noi stessi ai fratelli e alle sorelle che soffrono – conclude il sussidio CEI – ci avvicina a Dio, ci aiuta a comprendere il significato di essere stati creati a immagine e somiglianza del Signore, garantendo le presenza del suo amore nel nostro cuore. “Se ci amiamo gli uni gli altri – afferma san Giovanni – Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”».

A.D.