CAPITOLO GENERALE DEI CISTERCENSI OCSO

PRECARIETÀMINACCIA O GRAZIA?

 

L’ordine cistercense attraversa attualmente una fase di precarietà, anche se non mancano segni di rinnovata vitalità. Anziché preoccupare essa è sentita come una grazia, che dovrebbe aprire a profondi cambiamenti.

 

Anche i cistercensi di stretta osservanza, come tutti gli ordini e gli istituti religiosi oggi, vivono il tempo presente in una situazione di precarietà. Si trovano cioè di fronte a una mancanza di sicurezza, al rischio di una facile destabilizzazione, e a dover dipendere dalla bontà degli altri e dall’esterno, sia per quanto riguarda l’aiuto materiale sia per il personale.

È questa la conclusione a cui è giunto il XXIV capitolo generale congiunto (monaci e monache) che si è celebrato a Roma dal 4 al 24 settembre scorso, dopo aver ascoltato e studiato le relazioni delle varie comunità di ogni parte del mondo. Tutto ciò risulta chiaramente dal documento di sintesi elaborato dalle commissioni miste e che poi il capitolo ha definitivamente approvato.

Se questa è la realtà, i capitolari si sono allora chiesti se la precarietà in cui si trova attualmente l’ordine può essere considerata una minaccia o un’opportunità. E hanno risposto: invece di limitarci a dire «nonostante la nostra situazione di precarietà, c’è della speranza e della vitalità», dovremmo forse cercare una via e una visione nuova nel cuore stesso della nostra precarietà. In effetti, sono in molti a considerare la situazione attuale una grazia, un tempo di cambiamento, un momento favorevole, nel senso teologico più profondo, una liberazione nel contesto del mistero pasquale. Ci troviamo, hanno detto, in una situazione che assomiglia a quella dei nostri padri fondatori di Citeaux all’arrivo di san Bernardo. Anche noi esperimentiamo un’apertura alla novità, benché «non sappiamo esattamente quale sarà». Si avverte comunque una sete di ritornare all’essenziale, alla radicalità, alla semplicità evangelica, resa maggiormente possibile dalla fragilità delle situazioni attuali.

Ma che cosa consente di trarre vantaggio da questa condizione di fragilità? O, in altre parole: perché vogliamo sopravvivere? Si tratta di una nuova formulazione della domanda di san Bernardo: Ad quid venisti? Ad quid remanes?

La nostra convinzione, in quanto capitolo, scrive il documento di sintesi, è la seguente:

– la vita monastica è la via di salvezza che Dio ha scelto per me in questa comunità. Io sono contento e auspico che anche altri possano trovare la stessa gioia;

– la vita cistercense è un cammino di trasformazione nel Cristo nel contesto di un quadro monastico;

– Dio vuole agire attraverso di noi, affinché diveniamo l’incarnazione del suo amore nel mondo d’oggi;

– il mondo non cessa di allontanarsi dai valori evangelici. Più se ne allontana, più ha bisogno di comunità che vivano e annuncino questi valori.

In fin dei conti, la nostra preoccupazione non è la sopravvivenza dell’ordine ma la edificazione della Chiesa di Cristo Nella misura in cui siamo convinti che la nostra vita è un autentico carisma capace di far crescere degli uomini e delle donne nella comunione in Cristo, abbiamo la missione di viverla pienamente e in questo modo di trasmetterla ad altri, di generazione in generazione. Vocazione e missione coincidono.

Attualmente nell’ordine cistercense esiste una buona fecondità, come si può costatare dalle fondazioni recenti e dalla diversità dei riti liturgici. Scopriamo così, scrive il documento di sintesi, che il nostro carisma è portatore di vita, non solo in questa o quella comunità particolare, ma anche in altre comunità, in altri paesi e in altre forme di vita ecclesiale. In questo modo «trasformiamo le nostre esperienze di diminuzione e di precarietà in unione con Cristo, dando la nostra vita affinché altri possano vivere».

 

OCCORRONO

CAMBIAMENTI IMPORTANTI

 

Il capitolo si è trovato d’accordo nel dire che l’ordine si trova ormai a un punto in cui sono necessari dei cambiamenti importanti nel modo di vivere. A parte un lento declino degli effettivi e delle forze vitali, in un certo numero di monasteri, finora impercettibile, diverse comunità cominciano già a sentirsi «schiacciate» dalle strutture, in particolare dalla vastità sproporzionata degli edifici o da un’economia troppo complessa. Inoltre, la pressione per mantenere le cose «come è sempre stato» costituisce un attentato all’equilibrio cistercense. Il sovraccarico di lavoro e lo stress diminuiscono la possibilità di vivere pienamente la dimensione essenzialmente contemplativa della nostra vocazione. Spesso il peso del fardello grava sui superiori. Il documento mette in risalto anche quelle realtà che possono pregiudicare l’impegno a corrispondere alla vocazione e rileva che il riconoscerle rende possibile un cambiamento di direzione.

 

La prima realtà è una mancanza di «inculturazione cronologica». Negli ultimo trent’anni, l’ordine ha incoraggiato ciascuna delle nuove fondazioni a radicarsi nella vita della loro cultura attuale, e ciò ha contribuito alla loro fioritura. Ma, è sottolineato, finora non ci eravamo resi conto che le comunità di cultura più antica avevano anch’esse bisogno di inculturarsi nella realtà contemporanea di una società post-cristiana. Quando una comunità non si radica sempre di nuovo e continuamente nella storia di salvezza del proprio popolo, corre il rischio di diventare prima estranea, e poi anacronistica.

In secondo luogo, le commissioni incaricate di studiare i rapporti delle varie comunità, hanno verificato che un certo numero di queste sono segnate «da rapporti interpersonali distruttivi». Purtroppo le conseguenze di questi fatti non scompaiono automaticamente, anche se le persone in questione hanno lasciato la comunità. Si rende allora necessario un processo di memoria, di dialogo e di riconciliazione per rifare il tessuto della comunità.

Un terzo punto debole è l’incapacità dei superiori e dei padri immediati ad affrontare le persone o le situazioni difficili per paura di reazioni forti. Ma evitare i problemi vuol dire creare dei conflitti più gravi quando la situazione diviene intollerabile.

In quarto luogo, le comunità a volte non hanno voluto riconoscere il loro stato di precarietà, anche quando alcuni membri della comunità o altri membri dell’ordine hanno cercato di farlo presente. Questo rifiuto di vedere toglie alla precarietà la capacità di rendere possibile un ritorno all’essenziale, lasciando che sia un funesto presagio.

In certi monasteri in cui il clima relazionale è stato complesso e difficile per un lungo periodo, sono stati invitati degli esperti esterni per aiutare la comunità a uscire dalle situazioni bloccate in cui le sue risorse vitali erano, almeno in parte, corrose dai conflitti.

Certamente, osserva il documento di sintesi, adattare le strutture della vita monastica alla realtà di un personale ridotto è un passo positivo, ma non è sufficiente. Le comunità possono semplificarsi continuando poi a vivere alla stessa maniera. C’è il rischio di una certa «spiritualizzazione» della fiducia che male dissimula la semplice rassegnazione e un lento processo di morte. Si rende perciò necessario un rinnovamento più profondo.

 

UNO SGUARDO

AL FUTURO

 

All’interno dell’ordine non manca certo la vitalità, come è stato testimoniato da varie parti. Ma, scrive il documento di sintesi, per tenerla viva bisogna concentrarsi sulla formazione permanente, intesa come conversione. La comunità cioè deve vivere la propria conversione con sufficiente intensità per esperimentare essa stessa il calore dello Spirito e se vuole invitare altri a condividere la medesima vita. Non farlo significa cadere nella tristezza e nella rassegnazione. La comunità deve continuamente ritornare al vangelo e alla sua semplicità come criterio per decidere in concreto il modo con cui esprimere gli elementi essenziali della vita monastica.

Ma che tipo di formazione iniziale è necessaria in questo inizio del XXI secolo? Noi, è stato detto, cerchiamo chiaramente una formazione che penetri e si radichi nel cuore della persona, in modo tale che negli inevitabili momenti di crisi il monaco o la monaca scelgano nuovamente il Cristo cistercense. Per quanto ci riguarda, dobbiamo riscoprire e incarnare la complementarietà tra le osservanze, i valori e la comunione in modo che essi si ritrasmettono ai nuovi membri. Mettere queste tre dimensioni in opposizione tra loro significa creare confusione e insinuare il dubbio nel giovane che si trova ancora all’inizio della sua vocazione.

Per quanto riguarda i formatori, è stato ribadito il loro ruolo essenziale; devono essere prima di tutto persone che sono entrate profondamente nel processo di trasformazione monastica in Cristo e continuano a rimanervi fedeli, rendendosi così atti, mediante la misericordia di Dio, a generare altri.

E il superiore? Deve essere la persona che sta al centro della comunità, colui che vede, che percepisce la vera situazione della comunità, incoraggia i fratelli a riconoscere la loro realtà come dono di Dio, ad accettarne la responsabilità, a discernere e compiere i passi appropriati. Deve avere sufficiente fiducia nei fratelli e il coraggio di chiamare le cose per nome; deve invitarli di continuo alla conversione. È indispensabile che sviluppi le sue potenzialità umane e spirituali, affinché la comunità giunga a rassomigliargli. Ma se si vuole che il suo servizio sia efficace è altrettanto essenziale che la comunità senta la responsabilità di formare e sostenere il superiore con la sua fede e il desiderio di vivere sotto un abate.

 

GIOVANI COMUNITÀ

E LAICI CISTERCENSI

 

Durante il capitolo, scrive il documento di sintesi, si sono fatte sentire più chiaramente anche due voci nuove: le giovani comunità e i laici cistercensi.

Per quanto riguarda le giovani comunità, si è costatato che la precarietà costituisce il loro quadro naturale. Essendo prive delle strutture tradizionali e troppo fuori mano per poter collaborare con altri monasteri vicini, sono obbligate a impostare la loro vita in maniera molto semplice. Questa povertà è un’esperienza privilegiata nel senso che i membri di una comunità fragile possono scoprire da se stessi le ragioni evangeliche delle osservanze monastiche. La loro sopravvivenza non dipende dalla loro fedeltà nel seguire un programma prestabilito, ma piuttosto nell’aggrapparsi a Dio là dove egli li conduce.

È importante, leggiamo ancora, che le comunità più antiche dell’ordine abbiano a beneficiare di questa forma articolare di precarietà feconda. Lottando per mantenere a tutti i costi la loro economia tradizionale, il loro patrimonio intellettuale o estetico, esse potrebbero ostacolare il rinnovamento che veramente desiderano. Le comunità più giovani, da parte loro, devono resistere alla tentazione di riprodurre i modelli più antichi e più elaborati e rendersi conto di possedere esse stesse le risorse per la propria formazione.

L’altra voce nuova: quella dei laici associati che testimoniano il valore della tradizione cistercense quale mezzo di santificazione per il laicato. Nello stesso tempo, scrive il documento, ciò conferma la nostra fede nella vitalità del nostro carisma. È chiaro che essi non desiderano solo ricevere da noi, ma anche aiutarci in questa fase di transizione. Una domanda: non potrebbero essere annoverati tra le nuove vocazioni della famiglia cistercense?

Il documento termina segnalando alcuni temi importanti per la riflessione: qual è il valore teologico ed evangelico della precarietà? Perché l’adattamento delle strutture non è sufficiente? Cosa significa formazione all’impegno? Fino a che punto i superiori possono chiamare le cose per nome e invitare alla conversione e fino a che punto essi generano alla vita nuova mediante la preghiera e la compassione?

 

Nel corso dei lavori, i capitolari sono stati ricevuti in udienza anche dal papa che li ha esortati a conservare inalterato il loro patrimonio carismatico poiché esso «costituisce una ricchezza per l’intero popolo cristiano». Li ha inoltre incoraggiati ad accogliere l’invito di Gesù a prendere il largo, ad avanzare «senza temere nel cammino intrapreso, animati dal “buon zelo” di cui parla san Benedetto nella sua regola, nulla anteponendo a Cristo».