LA VITA CONSACRATA OGGI

UN RECUPERODI SENSO E QUALITÀ

 

Il giorno in cui ognuno di noi, con gli occhi fissi al Signore che viene, riuscirà a dire: «Signore: eccomi! Fa’ di me quello che vuoi» – almeno per qualche anno! – ogni comunità e l’intero istituto assumerebbero un altro volto. Così fr. Giacomo Bini ministro generale OFM.

 

Il senso della vita consacrata oggi non sta tanto nell’efficienza, ma nella trasparenza. Ciò significa che il nostro «modo di esistere», dovrà essere in grado di esprimere il nostro essere stati «conquistati» da Dio e la nostra consegna totale nelle sue mani; la capacità di parlare, di «dire» la presenza del Regno nel linguaggio dei nostri contemporanei; le caratteristiche del paradossale, della radicalità dei segni che definiscono la nostra vita quotidiana e le nostre scelte, come i voti; le dimensioni profetiche, che dovrebbero orientare l’esistenza propria e degli altri verso nuovi orizzonti, verso «altri» interessi, verso gli ultimi.

È la considerazione di fondo da cui si muove fr Giacomo Bini, ministro generale OFM, in una stimolante riflessione – che qui riprendiamo con qualche leggera abbreviazione – pubblicata in occasione della giornata della vita consacrata, il 2 febbraio scorso, sull’Osservatore Romano.1

Il 2 febbraio ormai da alcuni decenni è diventato un appuntamento spiritualmente molto importante per tutti i consacrati. È il giorno in cui siamo tutti invitati a rinnovare gli impegni della nostra consacrazione con la ferma volontà di voler rivivere oggi in profondità il dono ricevuto e viverlo con rinnovata «passione». Vale a dire, «testimoniando con gioia la vita nuova che già ci abita e che deve trasparire dallo stile concreto della nostra esistenza quotidiana; diventando segno «leggibile» di una chiamata particolare che non cessa di sedurci, «memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato, di fronte al Padre e di fronte ai fratelli» (Vita consecrata 22).

È questo – scrive fr. Bini – il primo servizio assoluto che dobbiamo alla Chiesa e al mondo. È questa la trasparenza che dovrà generare una nuova efficacia fondata sulla fecondità divina. Tutte le nostre strutture, i servizi, le attività apostoliche dovranno essere in funzione di questo nostro essere memoria viva del Vangelo di Gesù oggi; dovranno essere profondamente «significativi», teocentrici e orientati alla speranza, alla meta che ci attende. La testimonianza del futuro che già abita in noi fa dei consacrati delle sentinelle, che scorgono e annunciano la vita nuova già presente nella nostra storia. In breve, c’è bisogno di ricuperare il senso e la qualità della vita consacrata (cf. Ripartire da Cristo 12).

 

PROFETI

DI SIGNIFICATO

 

Il nostro progetto di vita evangelica – prosegue fr. Bini – non potrà mai crescere se non siamo abitati da una inquietudine causata dalle contraddizioni che oscurano la nostra vita consacrata. Siamo invitati a riflettere continuamente su queste tensioni: tra ciò che viviamo e ciò che siamo chiamati a vivere; tra le strutture di vita quotidiana e la loro capacità di «trasparenza», di significato; tra la preoccupata amministrazione delle emergenze e le proiezioni attive verso il progetto evangelico; tra le nostre esigenze locali e le urgenti necessità della Chiesa e del mondo; tra le preoccupazioni per la «sopravvivenza» e la visione del Regno a cui ogni istituto intero deve fare riferimento.

Vivere e soffrire questa tensione di fondo significa fare la verità (Gv 3,21), cercare quotidianamente di ridare significato ai nostri gesti, alle nostre parole, superando progressivamente una mediocrità troppo facilmente accettata e giustificata, così come una doppiezza che ci allontana sempre più, almeno nella pratica, da una identità profetica capace di animare una fraternità-contemplativa-in-missione. Siamo chiamati a verificare se «gli strumenti esteriori della comunione (sono diventati) apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita» (Novo millennio ineunte 43).

«Il cristiano è il nemico dell’assurdo, è il profeta del significato. Non per volontà disperata, ma nel riconoscimento che questo significato è stato testimoniato dai fatti proclamati dalle Scritture» (P. Ricoeur). È capitale e urgente, allora, ridare un senso, un significato espressivo e «ultimo» alla nostra consacrazione fondata sul Vangelo, sulla testimonianza di tanti fratelli e sorelle che hanno incarnato questo messaggio-eredità lungo i secoli. L’essere «profeti» oggi, infatti, esige la capacità di ritrovare il senso vero dei nostri gesti concreti di ogni giorno (personali e comunitari), al di là della ripetizione meccanica e regolare, per riviverli riattualizzandoli in una dinamica di ricerca e di incontro con il Signore e con gli altri. La conversione dovrà avvenire nell’«ordinario» della nostra vita.

Partendo da questo «ordinario», vissuto in fedeltà e nella verità, ci si apre verso orizzonti inediti, intuizioni che aiutano a cogliere nuovi significati negli avvenimenti della storia che viviamo.

Qui siamo al centro di tutto: si tratta di un cambiamento di mentalità e di amore. È a partire da questo nucleo che possiamo rilanciare fraternità aperte a ogni missione a cui il Signore invia; se saremo animati da questo fuoco potremo riadattare o inventare strutture capaci di facilitare il cammino di rinnovamento, fedeli a Dio e alla nostra storia (cf. RdC 12ss).

 

LASCIARE TUTTO

SENZA SCONTI

 

Solo quando non avremo più nulla da perdere, nulla da difendere, nulla da rimpiangere potremo finalmente sperimentare la verità delle parole di Gesù: «Chi perderà la sua vita per causa mia la troverà» (Mt 16,25), sapremo ricostruire una fraternità libera per il Regno, in cui i fratelli e le sorelle si rispettano e si amano nella loro diversità, per la loro ricchezza personale, senza nuocere alla comunione e senza ritardare il passo verso la ricerca del «tesoro» evangelico (cf. Mt 13,44).

L’ideale di una libertà purificata dalla povertà è la sfida tipica e carismatica a cui dobbiamo rispondere oggi, con urgenza, per il bene della Chiesa e del mondo.

Come è possibile riconsiderare le strutture per renderle più significative, più trasparenti, quando noi stessi ci presentiamo come struttura ripiegata su se stessa, impenetrabile e inamovibile? Come vivere la gioia dell’«af­fidarci» a Dio, oltre che ai fratelli e alle sorelle – come diciamo nella formula della professione – se non abbandoniamo tutto per seguire Cristo? Il giovane del Vangelo «se ne andò triste, perché aveva molti beni» (Mt 19,22). Chissà che l’assenza di entusiasmo nel vivere la nostra vocazione sia legata proprio a questa resistenza!

Il fenomeno della emarginazione progressiva e dell’isolamento, che segna così profondamente il nostro mondo, può riguardare anche le nostre fraternità; allora si richiede che la VC ridiventi testimonianza di una comunione concreta e gioiosa; si esige da tutti noi la capacità di stabilire relazioni nuove, rapporti significativi e veri con ogni creatura, di dialogare come condizione di vita per un futuro più umano e più evangelico (cf. RdC 28ss).

Tutto questo rimanda alla kenosi e richiede grande libertà. «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2,12). Dalla povertà del presepe alla solitudine della croce: questa è la strada di Dio per incontrare l’uomo, la sua epifania in mezzo agli uomini.

Per chi vuole seguire Gesù, la condizione è chiara: lasciare tutto, senza sconti o aggiustamenti. E chi vuole continuare la sua missione è invitato ugualmente a lasciare tutto e andare per mettersi a servizio di tutti, radicati nella fiducia verso il Signore. La povertà è il segno di appartenenza a lui, è la garanzia di credibilità del Regno già presente in mezzo a noi. Un segno sempre più convincente ai nostri giorni quando si tratta di una povertà vissuta in fraternità, con uno stile di vita semplice ed essenziale, espressione di comunione e di abbandono alla volontà di Dio.

È proprio un’utopia metterci tutti a disposizione del Regno, nell’obbedienza reciproca, senza arrivismi, privilegi o poteri da difendere, ma attratti unicamente da colui che ci ha chiamati e inviati?

Il giorno in cui ognuno di noi, con gli occhi fissi al Signore che viene, riuscirà a dire: «Signore: eccomi! Fa’ di me quello che vuoi» – almeno per qualche anno! – ogni comunità e l’intero istituto assumerebbero un altro volto.

Viviamo in un mondo che cambia con una rapidità incredibile: non possiamo permetterci di essere «distratti», lasciarci portare qua e là senza essere concentrati sull’essenziale, su una vita interiore custodita e continuamente rinnovata.

Dovremo entrare in una dinamica di identità, solida e stabile interiormente, per essere capaci di adattarci ai cambiamenti rapidi in mezzo ai quali viviamo; di integrarli nella nostra identità, per poterli orientare continuamente verso il significato «ultimo» (cf. RdC 20).

Si tratta di una identità «in via». Del resto il cristiano è, per definizione, un viator, vive una dinamica di conversione continua, proiettato verso la tappa finale del Regno; vive tra il «già» e il «non ancora». La VC ha sempre avuto, nella Chiesa, il ruolo e la responsabilità di ricordare a tutti i cristiani, con il proprio stile di vita, che siamo «pellegrini e forestieri in questo mondo» (san Francesco), che la nostra vita è un esodo progressivo. Sono semi di eternità che gettiamo nella storia in cui viviamo.

Il nostro passo è spesso ritardato da tante forme di dipendenze e schiavitù, da tanti orpelli dell’anima e del corpo che ci fanno dimenticare l’essenziale. Siamo chiamati, pertanto, a liberarci dal culto dell’autorealizzazione a tutti i costi, per essere più fedeli al progetto di Dio su di noi, nella vocazione specifica di testimoni del Vangelo; dall’attivismo esasperato e autoreferenziale, che porta ad un’indipendenza in cui non c’è più posto né per la creatività dello Spirito, né per l’obbedienza verso l’autorità, né per le risposte necessarie alle attese del nostro mondo; dalle paure dell’oggi e del domani, per renderci disponibili alle sorprese che Dio ci riserva, affrontando così il rischio del presente e del futuro fiduciosi nel Signore, secondo lo stile proprio della VC; dalle sicurezze, interne ed esterne, che non ci permettono di gioire della presenza attiva dello Spirito; da ogni proprietà personale che ci fa tristemente ripiegare su noi stessi come centro di tutto.

 

SENZA “MA”

E SENZA “SE”

 

La speranza che già viviamo non è un calcolo probabilistico, né una rassegnazione fatalistica, ma una intuizione e tensione interiore verso una realtà affascinante di cui già possediamo la caparra (cf. Rm 8,23). Questo riaccende in noi un rapporto di fiducia con Dio, con noi stessi e con gli altri. Da qui scaturisce uno slancio vitale e un desiderio di pienezza che unisce e anima la nostra esistenza.

La speranza è un lungo cammino di liberazione e di espropriazione: superando la paura del nuovo, e disancorandoci dal «sempre fatto così», essa ci aiuta a guardare le situazioni in profondità per cogliere, anche dietro i fallimenti più clamorosi, i segni del possibile rinnovamento, quello che «c’è ancora da fare oggi» con l’aiuto dello Spirito, senza rimpianti e ancorati ad una sana tradizione (cf. RdC 11).

La speranza cambia il cuore dell’uomo ancor prima che maturino e cambino gli avvenimenti intorno a noi; è molto più ampia delle realizzazioni immediate e può, quindi, trasformare la rassegnazione in slancio e la sfiducia in fiducia.

Chi spera è libero, disponibile, povero, e la povertà nutre la speranza che diventa come uno spazio che accoglie attivamente lo Spirito creatore. La speranza fa dell’uomo un ricercatore infaticabile e, allargando le prospettive della sua esistenza, lo rimette in cammino qualora lo stanchezza lo avesse paralizzato.

 

La Chiesa e il mondo hanno bisogno della nostra speranza viva, della dimensione spirituale della nostra esistenza che sa intuire i segni di vita al di là di ogni rifiuto, i germogli che si affacciano anche in una cultura di morte. Siamo chiamati ad allargare lo spazio della nostra tenda (cf. Is 54,2) per poter intravedere nuovi orizzonti.

Accogliere ancora l’invito a seguire il Cristo, senza «ma» e «se», lasciando spazio allo Spirito in noi, credendo, obbedendo alla sua voce e abbandonando tutto: questo è indispensabile per «ri-situare» il nostro cammino, per ri-ascoltare la chiamata e aderirvi con prontezza; per ri-centralizzare il nostro agire verso l’armonia di una vita teocentrica e missionaria, per ri-visitare e dare un significato evan­gelico all’insieme della nostra vita.

 

Un modello e una guida sicura in questo nostro itinerario ci è donato in Maria, la madre di Gesù, la madre della vita consacrata. Ella si apre al futuro sottomettendosi alla parola di Dio: «Si compia in me la tua parola» (cf. Lc 1,38); in umiltà diventa la «piena di grazia», la «casa dello Spirito Santo»; ricerca il senso della sua esistenza «conservando e meditando nel cuore» gli avvenimenti del Figlio suo, e ai piedi della croce, dove non le resta più nulla da perdere, ritrova la sua identità eterna: «Donna ecco tuo figlio» (Gv 19,26). Il cuore della Madre ora si allarga a tutti gli uomini e in tutti i tempi.

Questo «allargare lo spazio» è una condizione indispensabile. Dio ha una incredibile fiducia in noi, ma chiede la nostra collaborazione: allargare la tenda dei nostri desideri, dei nostri orizzonti, affidandoci unicamente a Lui. Il futuro appartiene a chi non ha nulla da perdere, da difendere, da trattenere. «Il futuro dell’umanità è riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (GS 31).

 

 

1Fr. Giacomo Bini, La vita consacrata: fecondare la storia con germi di eternità, in Osservatore romano, 1 febbraio 2003, 6.