CONCILIO VATICANO II E VITA RELIGIOSA

 

UN CAMMINO_ANCORA INCOMPIUTO

 

La vita religiosa in seguito al concilio ha percorso un lungo cammino ma, a 40 anni dal suo inizio, si trova ancora in una fase di transizione. Per superarla, i religiosi devono tornare a Cristo, cuore della loro vocazione,_e al Vangelo vissuto “sine glossa”.

 

 

Quarant’anni dall’inizio di quell’avvenimento straordinario per la Chiesa che è stato il concilio Vaticano II (1962-65) è una data da celebrare. Nessuno in quel momento poteva misurare l’impatto che esso avrebbe avuto. Si sentiva di essere davanti a un nuovo inizio, ma la realtà ha abbondantemente superato l’immaginazione. Oggi, a distanza di quarant’anni, possiamo misurare l’ampiezza del movimento che esso ha messo in moto, anche se il rinnovamento conciliare non è ancora concluso. È stata davvero una nuova Pentecoste e una nuova primavera per tutta la Chiesa e per tutti i suoi settori, come aveva auspicato e previsto Giovanni XXIII.

In questa sede vogliamo prendere in considerazione l’impatto, passato e presente, che il concilio ha avuto sulla vita consacrata e in particolare su quella che chiamiamo apostolica. Si tratta di un settore limitato della vita ecclesiale e tuttavia non si può sottrarsi all’impressione che il Concilio è stato come un ciclone che ha sfondato le porte di un ambiente bloccato da anni, un vento che si abbatte gagliardo (At 2,2) e ripulisce dalla polvere ogni angolo della casa, un vento così forte che presto da parte di certi ambienti si è cominciato ad averne paura e si è corsi ai ripari per contenere quella corrente di rinnovamento. Ma la forza del concilio ha continuato a lavorare all’interno della vita consacrata e a tutt’oggi possiamo dire che quell’aria di novità non si è ancora spenta.

Il cammino della vita religiosa dal concilio ad oggi si presenta come un esodo, un processo di rinnovamento, una liberazione. La strada intrapresa si è fatta lunga e oggi ci troviamo in una transizione di cui ci sembra di non vedere più la fine. Forse a noi, come a Mosè, non sarà concesso di entrare nella terra promessa. La intravediamo dall’alto del monte Nebo delle nostre speranze senza potervi entrare. Che è successo? Forse la nostra fede non è stata abbastanza viva, forse anche noi, come il condottiero del popolo eletto, abbiamo dubitato davanti alla roccia della contesa (cf. Nm 20,12), forse, più semplicemente, il cammino è oggettivamente lungo e complesso al di là delle previsioni. Arriveremo un giorno alla terra promessa?

 

LA STRADA

SI È FATTA LUNGA

 

Il popolo eletto ci è arrivato. E nella memoria della tradizione biblica è rimasta la nostalgia di quel tempo di esodo trascorso nel deserto ed è diventato una spiritualità del deserto così che i profeti della tradizione deutoronomistica, volendo riportare il popolo alla fedeltà all’Alleanza, rievocano il tempo dell’esodo e del deserto come un tempo di grazia speciale. Sarà così anche per noi?

Malgrado le paure e i tentativi di concludere artificialmente questo cammino, dobbiamo riconoscere che il tempo del deserto è il più consono alla ricerca della volontà di Dio e del suo regno, che è sempre al di là di ogni nostra comprensione e realizzazione: quando crediamo di intravederlo, ci rendiamo conto che Dio è sempre oltre. Ricercare Dio è il nostro compito di pellegrini sulla terra. Non è forse un destino giusto e anche affascinante? Dio ci ricorda che l’identità della vita religiosa non sarà mai del tutto svelata e raggiunta prima che sia la fine. Non c’è da meravigliarcene, perché il Regno è escatologico.

 

Come ogni liberazione, il rinnovamento della vita religiosa richiedeva un esodo, si doveva lasciare la forma di vita religiosa preconciliare, regolata dall’esperienza secolare, per incamminarsi verso una forma nuova. Il rinnovamento parte dall’ispirazione centrale del concilio: ritrovare la verità della chiesa e sulla chiesa e il suo mistero. È ciò che si propone la costituzione dogmatica Lumen gentium (1964) insieme con la costituzione pastorale Gaudium et spes (1965). A partire dalle prospettive di una nuova ecclesiologia che considera la chiesa come sacramento della comunione (cf. LG 1), “sacramento universale di salvezza” (LG 48 e GS 45), “mistero” iscritto nell’infinito mistero della comunione trinitaria, e chiesa aperta al mondo e al servizio del mondo, i religiosi sono pensati dal concilio come una memoria e una profezia del Regno per il mondo, segno di una realtà invisibile promessa da Dio ma non ancora realizzata nella sua pienezza. È la nuova prospettiva della vita religiosa presentata dal VI capitolo della Lumen gentium e, più dettagliatamente, dal corrispondente decreto Perfectæ caritatis (1965).

Il concilio ha esplicitamente collegato i religiosi al mistero di Gesù Cristo “seguito con maggior libertà e imitato più da vicino” (PC 1) e al mistero della Chiesa, per metterli al servizio del mondo. E ha offerto un criterio di rinnovamento che è alla base dell’aggiornamento conciliare. Lo troviamo articolato chiaramente nel decreto Perfectæ caritatis n. 2: la fedeltà dinamica all’uomo e al nostro tempo, al Cristo e al Vangelo, alla Chiesa e alla sua missione nel mondo, alla vita religiosa e al carisma del proprio istituto.

La vita consacrata è un “dono divino” offerto alla chiesa per la sua missione (LG 43) che conduce chi lo riceve a “donarsi a Dio sommamente amato così da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all’onore di Dio” che è il servizio dell’umanità. La vita religiosa è un dono che permette un servizio più libero in vista della realizzazione del Regno. La vita religiosa diventa così un “segno” rivolto a tutti i cristiani per ricordare loro di compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana, un segno che “rende visibile per tutti i credenti la presenza già in questo mondo dei beni celesti”, una testimonianza della “vita nuova ed eterna”, imitazione e ri-presentazione della “forma di vita assunta dal Figlio di Dio e proposta ai suoi discepoli” (LG 44).

Il concilio chiude così un periodo di separatezza della vita religiosa per metterla più chiaramente al servizio del mondo. I religiosi non saranno più caratterizzati dalla volontà di andarsene dal mondo (la fuga mundi) per ricercare nella solitudine o nella vita monastica la propria santificazione. Essi sanno che la santità cristiana è un impegno che si compirà solo alla fine. Non c’è quindi uno “stato di perfezione”, ma un cammino profetico di conversione. La vita religiosa si deve svolgere nel mondo, con il mondo e per il mondo (cf. LG_41/396), perché è al mondo che essa si rivolge come un segno, un appello al vangelo e un cammino per seguire Cristo .

 

LE TURBOLENZE

POSTCONCILIARI

 

Il concilio sembrava aver aperto una strada tanto coerente e attraente quanto normale, se non addirittura scontata. Ma non è stato così. Prendere sul serio quelle prospettive ha comportato per la vita consacrata cominciare un aggiornamento e un rinnovamento che la ha portata verso prospettive nuove, vaste, inattese e cariche di conseguenze. La strada che va da Evangelica testificatio (1971) di Paolo VI, che già intravede i rischi di un aggiornamento sbilanciato secolarmente (n. 2), fino all’esortazione apostolica Vita consecrata (1994) di Giovanni Paolo II, è segnata da speranze e da paure.

Il cammino del rinnovamento è passato per stagioni aperte e piene di ottimismo e di futuro che ritroviamo in documenti come Religiosi e promozione umana e La dimensione contemplativa della vita consacrata (1980) ed è poi sfociato in Mutuæ relationes (1980), un documento ricco e pieno di prospettive che sviluppa i rapporti tra chiesa locale e vita religiosa. Paradossalmente è proprio da questo documento che prende le mosse una nuova stagione di difficili relazioni e di sospetto da parte di un certo numero di vescovi e della curia romana nei confronti della vita religiosa e del suo aggiornamento.

Ormai l’aggiornamento della vita religiosa promosso dal concilio cominciava a tradursi in scelte operative e coraggiose a livello di comunità, si pensi alle comunità inserite negli ambienti popolari, alla scelta dei poveri, all’impegno nel campo della giustizia e della pace, alle scelte “politiche”, alla teologia della liberazione che stava rinnovando profondamente la missione della vita religiosa ma che disturbavano quelli che, dentro e fuori la chiesa, si sentivano oggetto di contestazione evangelica da parte dei religiosi. Scomodati da queste scelte, vescovi e autorità civili ricorrevano alla Santa Sede chiedendole di “normalizzare” la vita religiosa.

Ai religiosi si attribuivano molti dei problemi della chiesa in transizione e si chiedeva al papa di intervenire per porre fine all’evoluzione conciliare della vita religiosa e per chiarire la presenza dei religiosi all’interno della chiesa. È questa l’intenzione espressa dalla lettera di Giovanni Paolo II all’episcopato degli Stati Uniti d’America dal titolo emblematico, La cura pastorale dei religiosi (1983), insieme con l’istruzione della Congregazione per i religiosi sugli Elementi essenziali sugli istituti dediti all’apostolato (1983).

I primi anni 1980, iniziati con la deposizione di p. Arrupe, furono segnati dal cambio di direzione della Congregazione dei religiosi con l’allontanamento del card. Eduardo Pironio, sostituito dal card. Jérôme Hamer op. Gli anni 1980 furono anni vivaci, segnati, almeno all’inizio, da una grande creatività e coraggio, ma anche, da una parte, da una progressiva paura dei vescovi che vedevano con preoccupazione l’emergere di una vita religiosa militante e, dall’altra, dei religiosi che si sentivano sospettati di percorrere cammini non evangelici e di essere al rimorchio delle ideologie allora in voga. Non si dimentichi che questi anni coincisero con la condanna della teologia della liberazione e la promulgazione del Codice di diritto canonico proposto come il documento conclusivo del concilio.

Il sinodo sulla vita religiosa (1994) nel tempo della sua preparazione e celebrazione insieme con il suo documento conclusivo Vita consecrata, pur con le inevitabili sbavature e incompletezze, segna un momento di consolidamento del rinnovamento conciliare. Il papa, ribadendo i cammini aperti dal concilio e accogliendo le esperienze positive del dopo concilio, riconduce la vita consacrata fino alla confessio Trinitatis. E invita, nello stesso tempo, a continuare la riflessione e l’approfondimento “del grande dono della vita consacrata nella triplice dimensione della consacrazione, della comunione e della missione …[in vista di trovare] ulteriori stimoli per affrontare spiritualmente e apostolicamente le sfide emergenti” (n. 13).

Non possiamo dire di essere al rinnovamento compiuto, ma ormai la strada è tracciata e il rinnovamento procede silenziosamente. I religiosi hanno capito che tocca a loro vivere e continuare il rinnovamento con pazienza e con costanza senza lasciarsi più prendere dalla voglia di risultati immediati. Il ridimensionamento numerico della vita consacrata li pone davanti a un futuro che a occhio umano potrebbe incutere paura. Ma a poco a poco entra l’idea che il rinnovamento della vita religiosa non è solo ristrutturazione, ma comporta una riqualificazione e, addirittura, una rifondazione della vita religiosa.

Oggi si sente che davanti a noi c’è un futuro che attende una nuova vita religiosa. I modelli tradizionali hanno fatto il loro tempo, dicono i superiori generali dell’USG, ne attendiamo di nuovi. Se la vita religiosa non verrà mai meno nella Chiesa, tutti siamo chiamati oggi ad aiutarla a esprimere forme nuove. Non lamentiamoci troppo di essere rimasti in pochi, ricordiamo la storia di Gedeone e dei suoi trecento uomini con cui Dio ha realizzato la sua opera (cf. Gdc 7,2.8).

 

TRE ESODI

NECESSARI

 

“L’aggiornamento della vita religiosa, dice il concilio, comporta il continuo ritorno alle fonti della vita cristiana e allo spirito primitivo degli istituti e nello stesso tempo l’adattamento degli istituti stessi alle mutate condizioni dei tempi” (PC 2/706). Il rinnovamento conciliare è andato avanti sotto l’influsso dello Spirito Santo e la guida della chiesa, secondo il principio della fedeltà dinamica all’uomo e alla storia, a Cristo e al Vangelo, alla Chiesa e alla sua missione, alla vita religiosa e al carisma del proprio istituto (PC 2/707-711).

Come abbiamo visto, il rinnovamento conciliare ha portato la vita religiosa a mettere in discussione le forme storiche in cui si era andata strutturando, ad abbandonare ambienti, stile di vita e opere nate e cresciute spesso in regime di autarchia, per collocarsi più visibilmente nel mondo per seguire con maggior verità il Cristo che annuncia il vangelo del Regno ai poveri.

Il cammino continua e prosegue quell’esodo che la vita consacrata ha dovuto intraprendere per uscire dalle sue forme passate verso la sua verità. Questo cammino di liberazione, che dobbiamo proseguire, conduce la vita religiosa verso tre direzioni, verso il mondo, verso le periferie e verso il Vangelo.

Dal chiuso dei conventi verso il mondo

La vita religiosa non è nata per staccarsi dal popolo di Dio, ma per contestare la mondanità della chiesa costantiniana assimilatasi ai poteri di questo mondo. Ma per un processo di sacralizzazione delle strutture ecclesiali ha finito per separarsi dal mondo in una forma di separatezza che la isolava in se stessa e la rendeva in qualche modo straniera a questo mondo. Abitazione, vestito, orario, tipo di lavoro, stile di vita, tutto finiva per sottolineare la differenza e l’estraneità della vita religiosa nei confronti del resto della chiesa e del mondo. Se la vita religiosa voleva essere un richiamo e un segno per il mondo, non poteva certo confondersi con esso, ma non doveva neppure abbandonarlo (fuga mundi) o esserne così lontana che finalmente non aveva più maniera di essere un segno per lui.

In una chiesa “sacramento universale di salvezza” per il mondo, al servizio del mondo, anche i religiosi sono invitati ad assumere un nuovo rapporto con esso. Ecco allora che i religiosi cominciano a rientrare nel mondo. Riaprono le porte dei loro conventi ed accolgono la gente che cerca Dio e una spiritualità più specifica. Si mescolano di nuovo con la gente nel lavoro secolare, si impegnano in opere di tipo sociale insieme con i laici, individuano lavori e nuovi impegni specificamente loro nel cuore delle masse …

Questo porterà molti religiosi/e a stabilire delle piccole comunità immerse nel mondo, a mettersi più direttamente nel servizio pastorale, a lasciare la proprie terre per raggiungere quelle che un tempo di chiamavano le terre di missione per annunciare il Vangelo ai non cristiani o per dare una mano alle nuove chiese locali.

Dal centro verso la marginalità

L’affermazione del concilio che la chiesa è Chiesa dei poveri (LG 8), chiesa che vive nel mondo contemporaneo (GS) insieme ai successivi appelli di Medellin e poi di Puebla fa comprendere ai religiosi, in America Latina prima e poi ovunque, che per essere fedeli al vangelo del Regno essi devono fare un’autentica e reale “opzione” per i poveri. Non si tratta di fare un’opzione esclusiva o escludente i ricchi, ma di entrare nel mondo di coloro che non contano e di rimanere nel cuore delle masse marginali e impoverite per impegnarsi insieme a loro nel processo della loro liberazione.

Ragioni di coerenza e di missione insieme con il desiderio di vivere la verità del voto di povertà, portano molti religiosi/e a lasciare uno stile di vita borghese, e le opere tradizionali, come le scuole e gli ospedali che servono soprattutto la popolazione benestante per andare a lavorare nelle periferie delle città, là dove non c’è nulla se non la miseria e la povertà. È questa stessa scelta dei poveri che spinge i religiosi a solidarizzare con il loro destino e a lottare con loro per superare le situazioni di ingiustizia. A partire dal lugar social dei poveri e dal loro punto di osservazione possono giudicare la realtà del mondo contestando le decisioni dei “potenti”, le scelte del potere civile e ecclesiastico.

Decisi a lavorare non per i poveri, ma con i poveri, i religiosi scelgono la pastorale dell’inserimento nelle periferie povere. È facile capire che queste scelte non possono lasciare indifferenti gli istituti religiosi, la chiesa e i poteri civili. Già Evangelica testificatio metteva in guardia dagli eccessi, dalla “tentazione di un’azione violenta”, nello stesso tempo che invitava i religiosi ad ascoltare il “grido dei poveri” (n. 17). Non si può non ricordare quei religiosi che hanno dato la vita per questa opzione preferenziale per i poveri in America Latina, ma anche negli altri continenti. Oggi questa scelta non è più oggetto di discussione e Vita consecrata (n. 82) parla dell’opzione dei poveri come di un logico sviluppo della scelta evangelica e della povertà religiosa.

Dalle devozioni al Vangelo

Da una vita religiosa che si rifaceva più alle costituzioni e ai documenti interni che alla stessa parola di Dio, e che privilegiava più le devozioni tipiche delle congregazioni che la liturgia e la parola di Dio, il concilio con la sua costituzione dogmatica Dei Verbum ha riproposto il valore fondante della parola di Dio nella vita della chiesa.

Il rinnovamento conciliare della vita religiosa ha fatto riprendere in mano ai religiosi la sacra Scrittura come mezzo per la formazione e per la preghiera. Dopo un lungo esilio dalla vita ecclesiale, la parola di Dio è ritornata ad essere, oltre che l’anima della preghiera liturgica, l’oggetto della lectio divina e il “luogo” d’incontro della comunità che insieme ascolta la Parola vivente, centro e fondamento della vita religiosa. Questa rinnovata attenzione alla parola di Dio nella vita religiosa ha avuto come secondo effetto di mostrare che la vita religiosa non si fonda più sul “proprio” di una congregazione, ma sulla base comune di ogni vita cristiana, sul battesimo, sui sacramenti, sulla liturgia, sulla comune chiamata alla santità. Vediamo infatti che le nuove forme di vita consacrata privilegiano l’ascolto della Parola, il Vangelo.

La vita religiosa ritornava così ad essere quello che avrebbe dovuto sempre essere: una strada di conversione, un percorso verso la santità cui tutti sono chiamati, una strada per diventare cristiani, perché alla fine questo è quello che conta. La vita religiosa si presenta oggi come un itinerario di discepoli, che non si sentono affatto migliori degli altri, che semmai sentono una responsabilità maggiore, perché noi “abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi “ (1Gv 4,16). Non ci sono precedenze o privilegi, non c’è che un solo statuto: essere discepoli secondo la vocazione di ciascuno e il carisma della propria famiglia religiosa.

 

TRA SLANCI

DI FERVORE E PAURE

 

Durante questi anni dalla conclusione del concilio la vita religiosa ha percorso con coraggio queste vie del rinnovamento e ha cercato onestamente di fare questi esodi. Non possiamo nasconderci che il rinnovamento non è ancora compiuto e forse è meglio così. La situazione ci mette sotto gli occhi un quadro di luci e di ombre, risultato di molto coraggio e generosità misti a momenti di paura e di scoraggiamento. Siamo ancora sulla strada.

Non sono mancati momenti in cui l’autorità della Chiesa ha tirato le briglie e in quel momento abbiamo reagito male credendo di essere stati mal interpretati. Ma alla conclusione vediamo che tutto è servito a ricuperare l’essenziale. C’è stata molta sofferenza, come sempre quando si lotta per le cose che contano. Certuni, anche nella gerarchia, hanno pensato che i religiosi cercassero il potere e la loro affermazione, che volessero staccarsi dalla comunione della chiesa, che seguissero un magistero parallelo, che si lasciassero strumentalizzare o accaparrare da ideologie di sinistra e in certi casi hanno cercato di bloccare il rinnovamento.

Un certo numero di religiosi sono andati in crisi, perché non hanno retto il passo del cambiamento o perché si sono lasciati portare al di là del segno, altri perché non hanno avuto o sentito il sostegno della comunità, altri perché si sono sentiti in contraddizione insanabile con la realtà ecclesiale e le sue componenti. La crisi è stata crisi di persone, ma anche di opere e di strutture che dovevano andare in crisi.

 

CIÒ CHE ANCORA

RESTA DA FARE

 

Oggi, a quarant’anni dal concilio, i religiosi sono certamente più coscienti della loro identità e della loro missione, hanno riscritto, attualizzandole, le loro costituzioni, la loro maniera di pregare, la loro formazione specifica, hanno aperto campi nuovi di lavoro… hanno fatto molto, ma si rendono anche conto che c’è ancora del cammino da fare. Anzi per certi aspetti si direbbe che la vita religiosa è più in crisi che nel passato. Il modello attuale della vita religiosa, infatti, non attira le generazioni attuali. Il drastico ridimensionamento numerico degli istituti lo mostra all’evidenza. Ogni tanto si cerca di accreditare una ripresa delle vocazioni introducendo nel conto generale le cifre delle nuove chiese nei paesi emergenti, dimenticando che la vita religiosa in queste nuove chiese è destinata a subire presto o tardi la crisi dell’occidente.

Siamo in mezzo al guado. Quando abbiamo cominciato la traversata, il passo era sciolto e siamo stati portati avanti dall’entusiasmo e dalla fiducia, ma, arrivati al punto in cui siamo, sentiamo la pressione della corrente che ci rallenta, col risultato che ci sembra di riuscire ad andare più avanti. E allora comincia a farsi sentire la stanchezza e la paura che il fiume ci porti ineluttabilmente via. Fuori della metafora, le difficoltà e le incertezze, insieme con le paure non ci hanno ancora fatto desistere, ma si sentono molto pesantemente.

Le crisi personali, pur ridotte di numero oggi rispetto a qualche anno fa, ci sono ancora e ad esse si aggiungono le crisi dei giovani religiosi che dopo tanta preparazione entrano nel servizio e dopo poco tempo (si parla oggi della “crisi dei cinque anni”) lasciano la vita religiosa e contribuiscono a far sentire a tutti il peso del momento presente, tanto che qualcuno parla di una specie di depressione collettiva.

 

Per mantenere l’immagine del guado, oggi, noi sentiamo tutta la pesantezza di essere in mezzo alla corrente. Vediamo infatti dei fenomeni che pur essendo delle opportunità per il rinnovamento, sono, nello stesso tempo, caratterizzati da un’ambiguità che suscita sconcerto e paura al momento in cui si scontrano con le forme antiche tuttora persistenti nella vita religiosa. Per esempio l’affermazione del valore della persona con tutta la problematica attuale della soggettività, che richiede rispetto, riconoscimento e affermazione, difficilmente riesce a coniugarsi armonicamente con le strutture precedenti dove rischia di diventare autoreferenzialità e individualismo.

Il processo di secolarizzazione, che pur ha fatto un grande servizio alla vita religiosa liberandola da sovrastrutture sacrali non rispettose della persona, rischia di farla cadere in un secolarismo che svuoterebbe il cuore stesso della vita religiosa.

I nuovi paradigmi teologici hanno cambiato la comprensione di certi elementi della vita religiosa, come la consacrazione, i voti, l’ascesi, il rapporto sacro/profano e hanno costretto la vita religiosa a cercare una nuova sistemazione interna, ma non sono riusciti a imporsi ovunque e a farsi accettare da tutti.

Le nuove prospettive conciliari, come ad es. il ruolo dei laicato nella missione della Chiesa, la nuova visione della sessualità e del matrimonio, il nuovo modo di essere presente della Chiesa nella società civile e nelle opere, la nuova teologia delle religioni, hanno aperto spazi nuovi e ampie prospettive alla vita religiosa. Ma nello stesso tempo hanno anche messo in crisi quei religiosi che si erano identificati con le opere dell’istituto e che erano impreparati alla nuova situazione. Lo stato e la Chiesa hanno occupato spazi che erano propri dei religiosi lasciando questi ultimi senza motivazioni per continuare come religiosi.

Oggi c’è un altro fenomeno, la globalizzazione, che potrebbe essere occasione per una migliore apertura missionaria della vita religiosa nel mondo, ma che invece rischia di essere una trappola che invischia la vita religiosa nel particolarismo e nel consumismo, impedendole quella cattolicità e radicalità che la dovrebbero invece caratterizzare come segno del Regno nel mondo.

Per quello che si riferisce alla vita religiosa femminile, la nuova coscienza dei propri diritti offre alla donna nella chiesa una inedita e nuova capacità di essere e di

rispondere alle sfide della vita nella missione della Chiesa

e tuttavia vediamo che molto spesso proprio questa rinnovata coscienza della propria potenzialità genera un malessere e l’impossibilità di rivendicare un ruolo nuovo.

 

RESISTERE E PERSEVERARE

PER PREPARARE IL FUTURO

 

Per tutte queste ragioni il momento attuale nel cammino del rinnovamento conciliare è caratterizzato da una situazione di incertezza, di debolezza e di precarietà. In mezzo al guado è inevitabile sentirsi insicuri ed avere la sensazione di essere trascinati via dalla corrente. Fuori dell’immagine, questo è il tempo in cui possono venire tanti dubbi sulla propria identità e missione.

In realtà oggi l’identità religiosa rischia di venire confusa con le molte esperienze, le molte proposte e i tentativi. Nello stesso tempo la sua missione sembra non godere più di quella considerazione di cui godeva in passato. Si direbbe che essa stia perdendo colpi a vantaggio di movimenti e associazioni che si dimostrano più maneggevoli e adattabili alle nuove situazioni.

Resistere in questa fase di transizione della vita religiosa non è facile, ma è necessario, perché se un modello si sta esaurendo, il nuovo modello che vogliamo consegnare alle generazioni future dipende dalla resistenza di oggi e, più ancora, dalla qualità della fede e del fervore della nostra vita personale e comunitaria.

Alla luce di questo rinnovamento ancora incompiuto e davanti a un modello che non attira più, non possiamo eludere la domanda: perché la vita religiosa non attira più? Che cosa manca? Chi siamo? E quale missione dobbiamo assumere? Oppure saremo condannati a rincorrere il cambiamento per essere attuali e significativi oppure c’è qualcosa di più stabile e universalmente valido che ci qualifica?

Oggi è necessario ritrovare e mantenere l’elemento essenziale della vita religiosa: essere consacrati a Gesù Cristo. Richiamiamo un’intuizione del compianto p. Roger-Marie Tillard: per ridare senso alla vita religiosa, i religiosi devono ritornare al cuore della loro vocazione, Gesù Cristo. Essi si sono fatti religiosi non per fare delle opere (scuola, ospedale missione ad gentes o altro …), ma per essere con Gesù Cristo, affascinati da lui. In altre parole: si deve ritornare al Vangelo, vissuto sine glossa, ridargli priorità sulle stesse costituzioni che pure rimangono valide. Bisogna ritrovare il cammino dei discepoli, quello della fede, quello del Regno.

Ci basterà il Vangelo? Il rischio è serio, perché se un medico cristiano perde la fede, può ancora continuare a fare il medico, ma se un religioso perde la fede, cade in una serie di contraddizioni tali che, se si prende sul serio, non gli rimane molto di suo e non può più fare molto come religioso.

La nostra identità va ritrovata in quell’identità profonda dell’uomo che non viene mai meno, in Dio, nel suo regno, nel Vangelo. Per questa ragione, in un mondo che soffre una profonda crisi di identità, fino a cadere nella nevrosi, i religiosi rinunciano proprio a quelle scelte che, secondo il mondo, consolidano l’identità (libertà/potere, denaro/avere, amore/discendenza) “per mettere in luce la vera identità e la vera vocazione di ogni essere umano”, Dio e il suo regno.1

 

RITORNARE A CRISTO

E AL VANGELO

 

Dicevamo che l’attuale modello di vita religiosa è arrivato ad esaurimento. Finora la vita religiosa ha tentato di rinnovare il modello ereditato dal passato e l’ha fatto attraverso i capitoli speciali, la nuova redazione delle costituzioni, la riqualificazione del personale in vista delle opere, la ristrutturazione e la rifinalizzazione delle opere, ma senza staccarsi dal modello ereditato. Abbiamo parlato di riacculturazione, rifondazione, ma abbiamo fatto solo del trasformismo.

Per questo il rinnovamento non è ancora compiuto e non siamo ancora usciti dalla crisi. Questi anni sono stati utili ed abbiamo imparato delle cose nuove, ma siamo rimasti agli aspetti istituzionali o spirituali (nel senso popolare della parola) senza ritrovare quella ispirazione profonda capace di rinnovare la vita religiosa nel suo complesso. La crisi continua, ma forse è proprio qui – paradossalmente – la speranza!

Sta succedendo a noi come al popolo d’Israele. Con il crollo di Gerusalemme, non solo la Città santa e, in particolare, il tempio sono stati distrutti, ma lo stesso popolo si è trovato in esilio. Ma è stato proprio in questa situazione di radicale riduzione (Teilhard de Chardin la chiama “passività di diminuzione”)2 che il “resto d’Israele” è stato riportato alle sue radici, ha “riconosciuto” nel suo Dio Jhwh, il Dio dell’esodo. E mentre fino allora aveva messo la sua sicurezza negli ordinamenti politici, sociali e istituzionali, ora riconosce che la sua sicurezza è in Dio e solo in Dio (Ez 36,36). È nell’esaurimento del vecchio modello della vita religiosa che è nascosta la speranza del futuro.

Così è successo anche a Elia. Dopo aver vinto la sua battaglia con i profeti e i sacerdoti di Baal sul monte Carmelo, Elia si trova perseguitato a morte dalla regina Gezabele, ha paura e deve fuggire (1 Re 19,1-18), ma nella fuga nel deserto riflette su se stesso, si scoraggia sentendosi solo e chiede addirittura di morire. Dio lo porta nel deserto e là lo soccorre perché possa arrivare fino all’Oreb, il monte di Dio e dell’alleanza. Lo chiama: “Che fai?” Ed Elia: “Hanno abbandonato l’alleanza, sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita ”. Così Dio lo conduce all’incontro con lui e là Elia riprende la sua missione. Ha dovuto essere ridotto a nulla per riconoscere che non è quello che lui sa fare, ma quello che Dio fa che salva lui e il popolo.

Anche Francesco d’Assisi, vissuto in situazioni simili all’attuale, si è trovato davanti a modelli di Chiesa e di vita religiosa che giravano a vuoto. Durante il “capitolo delle stuoie”, quando i frati gli chiedono di lasciarsi guidare dai suoi fratelli come insegnavano le Regole monastiche di quel tempo, Francesco ribadisce e rivendica la validità della sua scelta: “Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che mi nominiate altre Regole, né quella di sant’Agostino né quella di san Bernardo o di san Benedetto”.3 Francesco comprende che la soluzione non sta nel riproporre o nell’adattare un modello antico, ma nel ritorno al Vangelo sine glossa.

Conversione al Vangelo e ritrovata centralità dell’esperienza spirituale da rileggere secondo il Vangelo: ecco quello che farà ritrovare alla vita religiosa la sua verità e la farà ripartire verso il mondo sui cammini della missione. La riscoperta del Vangelo insieme alla centralità di Gesù Cristo ci assicura di non cadere nell’intimismo né in una spiritualità disincarnata, ma ci riporta, in fedeltà all’incarnazione, alle sfide del mondo di oggi e ad una nuova missione.

 

DAL MORALISMO

AL RINNOVAMENTO COMUNITARIO

 

Ritornare sui nostri passi verso il Vangelo comporta che la vita religiosa riveda le componenti fondamentali del nostro progetto comunitario di vita: identità, voti, comunità, missione e rapporto con il mondo. Se questa revisione degli elementi della vita religiosa si facesse prima di aver ritrovato il Vangelo, si correrebbe il rischio di fare una revisione di tipo sociologico o anche teologico.

Ma c’è anche un altro rischio che è sempre in agguato: se questo ritorno al Vangelo rimanesse a livello personale, compreso come una pia esortazione che ciascuno prende per sé, senza che tocchi la struttura delle comunità, non si sfuggirebbe al rischio dello spiritualismo e del moralismo. Quello che ciascuno ha colto dovrebbe essere condiviso in comunità. Allora potrà nascere qualche cosa di nuovo, perché il ritorno sui propri passi a partire dal Vangelo ritrovato, farà nascere uno stile di vita evangelico, in cui verranno rimessi in causa i singoli, ma anche la comunità.

Finché non si fa questa condivisione del patrimonio personale a livello di comunità, non si esce dalla presente situazione di crisi della vita religiosa. Per condividere in comunità questo patrimonio bisogna essere coscienti del problema e risvegliare la coerenza della comunità. Questo a sua volta si esprimerà in nuove opere in risposta alle nuove povertà. In questo modo verranno ricuperate alcune intuizioni del rinnovamento degli anni 1970-80 che rischiano di essere dimenticate: che la vita religiosa è, in se stessa, essenzialmente apostolica e che la missione ha bisogno di una riqualificazione spirituale.

L’impatto comunitario del ritorno al Vangelo diventa verifica della qualità di vita evangelica delle nostre comunità, del progetto comunitario di vita e del compito del superiore che non potrà più avere soltanto un ruolo di organizzatore, ma che dovrà essere un animatore della comunità; diventa soprattutto verifica della qualità della comunità che non potrà più essere una comunità isolata o chiusa in se stessa che consuma il progetto di vita religiosa dentro di sé, ma una comunità che rimane aperta a tutti, centro di convergenza e di animazione, luogo di silenzio, di ascolto, di ricerca, di discernimento, e non solo una struttura istituzionale.

 

IL CAMMINO FUTURO

E I SUOI RISCHI

 

Il cammino che ci resta da percorrere è ancora lungo e impegnativo e domanda un atteggiamento di vigilanza. Se vogliamo continuare a usare l’immagine del guado, dobbiamo resistere in mezzo alla corrente senza distrazioni. La vigilanza deve diventare attenzione a non confondere l’essenziale con l’accessorio, quello che è permanente con quello che è destinato a cadere e a finire. Questa vigilanza non si lascia vincere dalla paura che nasce dall’incertezza o dalla stanchezza dell’attesa. come le vergini della parabola delle lampade nella notte.

Ma in questa stagione ci possono essere altri rischi: il primo è che l’istituto si chiuda su di sé e sui propri problemi in una forma di narcisismo collettivo. In questo tempo vale il principio evangelico “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà” (Mc 8,35). Bisogna quindi accettare di passare per la logica dell’ ars moriendi mystica, vincendo la paura del rischio e la tentazione della conservazione che conduce a non rischiare mai. Spesso noi imitiamo il terzo servitore della parabola dei talenti che, per paura, ha conservato quello che aveva invece di correre il rischio della creatività.

Nella stessa linea bisogna evitare un secondo rischio: quello di imboccare strade che sembrano essere risolutive dei problemi attuali, ma che alla fine mirano solo alla conservazione dell’istituto e non alla promozione del Regno. Anzitutto una pastorale vocazionale che a causa dell’ansiosa ricerca dei risultati, esclude un accurato discernimento vocazionale. In secondo luogo l’illusione della missione che si cerca per un’ansiosa ricerca di vocazioni là dove esse sono, per ora, ancora numerose, pensandole come la salvezza dell’istituto. Quest’ansia di vocazioni fa dimenticare dettagli che sono importantissimi, come il rispetto delle persone, della cultura, della crescita della chiesa locale.

Oggi c’è un’altra prassi mistificatoria: accogliere nell’istituto, in forme varie e diverse, i laici affinché ne condividano la spiritualità. L’intenzione che spesso è buona e che può essere una buona maniera di promuovere e formare il laicato, viene inconsciamente adulterata dal bisogno di rimpiazzare i religiosi mancanti.

E infine si nota in questo tempo un eccesso di attenzione agli aspetti istituzionali e di autocelebrazione dell’istituto, per es. le feste per la beatificazione o la canonizzazione dei fondatori e dei religiosi, l’enfasi data alla celebrazione delle nuove professioni, dei giubilei, degli anniversari di presenza in un dato luogo.

 

La strada del rinnovamento non è ancora conclusa, siamo ancora in mezzo al guado, ma non abbiamo alcun diritto di disperare. Il nostro Dio è un Dio che si fa presente in Gesù Cristo. La sua incarnazione (Fil 2,5-11) è la strada su cui siamo chiamati a camminare per essere noi stessi, autentici discepoli, figli di Dio al servizio del mondo di oggi. Il Signore della storia e lo sposo della Chiesa è ancora in mezzo a noi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20) ed è la sorgente della nostra gioia pur in mezzo ai problemi di questo momento.

Quello che noi dobbiamo fare è una cosa sola: non temere e continuare ad avere fede e fiducia in colui che è con noi, nella stessa barca. Il guado non ci fa paura anche se è diventato un mare, anche se ci dobbiamo rimanere a lungo. Basta che ci lasciamo guidare dalla Parola che conosce il cammino e arriveremo, quando egli vorrà, alla fine di questa lunga transizione.

 

Gabriele Ferrari sx

 

 

1_Radcliffe Timothy, Que votre joie soit parfaite, Paris 2002, 128.

2_Pierre Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, Milano 1968, 78.

3_Dalla Leggenda perugina n. 114, in Fonti Francescane, Edizioni Francescane, Assisi 1990 [1673], 860.