ALLA RICERCA DI NUOVI MODELLI

 

UN’IDEA! LI ASHRAM

 

C’è forse qualcosa che lo Spirito vuol dire alla Chiesa e a noi religiosi attraverso le altre religioni? Se lo domanda p. Sebastian Painandath sj presentando l’esperienza spirituale dell’induismo classico.

 

La vita consacrata, mentre si sta interrogando sul suo futuro, è anche alla ricerca di nuovi modelli, nella consapevolezza che lo Spirito Santo è inesauribile nella sua fantasia e creatività. In questa fase forse non è del tutto fuori luogo allargare gli orizzonti della nostra ricerca e andare a vedere ciò che accade nelle altre religioni, per cercare di scoprire se c’è qualcosa che potrebbe essere fonte di ispirazione anche per noi. Viviamo del resto in un’epoca in cui lo Spirito sta abbattendo tutti i muri di separazione, quelli innalzati in nome della cultura e delle religioni, e sta guidando l’umanità verso una nuova grande comunità spirituale.

Ci pare interessante, perciò, segnalare il contenuto di un breve articolo apparso di recente sulla rivista tedesca Ordens Korrespondenz dell’Unione dei superiori maggiori, a firma del gesuita Sebastian Painandath, intitolato La vita religiosa ha un futuro nella Chiesa?, in cui viene descritta l’esperienza spirituale vissuta nell’induismo, in particolare negli ashram,1 ma non solo in essi. In questa esperienza, c’è qualche cosa che lo Spirito vuol dire alla Chiesa?

 

LE QUATTRO

FASI DELLA VITA

 

Nell’induismo classico la vita umana è suddivisa in quattro fasi, di 25 anni ciascuna, poiché secondo la tradizione dei Veda2 l’aspettativa ideale di vita dell’uomo è di cento anni. Attualmente questa suddivisione non è più così rigidamente affermata, ma sono tuttavia lo stesso molti gli indù che cercano di vivere la loro esistenza secondo l’ideale classico.

La prima fase, quella della giovinezza, è concepita come un cammino per giungere all’esperienza del divino (brahmacharya). Il giovane prende dimora presso un maestro esperto e apprende diligentemente le sacre Scritture e i valori etici, per imprimere così un orientamento significativo alla propria vita. A seconda delle proprie doti, impara anche altre arti come la medicina, l’astrologia, il tiro con l’arco, le scienze politiche, ecc. Ma in tutte queste cose, ciò che conta maggiormente è la formazione del carattere, ossia l’integrazione della persona in base all’esperienza del divino. Viene perciò attribuita grande importanza all’esercizio della meditazione, a uno stile di vita ascetico e all’autodisciplina. Tra il maestro e il discepolo si sviluppa così un intenso rapporto spirituale che dà al giovane sicurezza e orientamento.

Quando è giunto il momento della separazione, dopo una permanenza di alcuni anni, il maestro congeda così il suo discepolo: “Cerca sempre la verità; sii fedele ai tuoi doveri; difendi il benessere di tutti gli esseri; sii misericordioso, magnanimo. Onora la madre come Dio, e anche il padre, l’insegnante e l’ospite che si trattiene presso di te” (Taitiriya Upanishad, 1,11).

Nella seconda. il giovane si sposa e si dedica responsabilmente alla sua famiglia (gruhastha). Il dovere etico centrale della sua vocazione e del suo rapporto con gli altri è incentrato ora sul bene della sua famiglia. In mezzo al focolare arde il fuoco sacro, quale simbolo vivente di amore e fedeltà. Ogni giorno, al mattino e alla sera, si svolge attorno ad esso un rituale della famiglia. Lo Spirito di Dio, la cui presenza è sempre tenuta viva dal fuoco, unisce i cuori delle persone nella responsabilità e nell’attenzione reciproca.

Una volta adempiuti gli obblighi familiari – “quando al nipote spuntano i primi denti” – i genitori lasciano la famiglia. In questa terza fase, l’uomo si ritira nella solitudine del bosco (vanaprastha) oppure in un ashram, mentre la moglie vive ritirata in casa. Il tempo viene ora impiegato a riflettere sulla ricca esperienza maturata a contatto con le persone in famiglia e cercando di tendere a una profonda vita spirituale mediante l’ascesi e la meditazione. Le Scritture vengono lette di nuovo tenendo ora presenti le esperienze fatte e i doveri assolti nella società.

Se dopo diversi anni l’uomo avverte interiormente la chiamata a occuparsi dei problemi sociali, allora ritorna nella società, ma non nella propria famiglia. Assume determinati ruoli di guida come quello di insegnante, giudice, sovrano o leader della società. La ricca esperienza maturata e la riflessione fatta nel silenzio conferiscono a quest’uomo competenza e credibilità.

Quando egli ha assolto questi doveri nella società, ritorna di nuovo nella solitudine. In questa quarta fase si stacca interiormente dalla famiglia e dalla società e rinuncia a tutto ciò che lo lega al mondo (samnyasa). In piena libertà interiore, si dedica a una vita di intensa ascesi e di meditazione alla ricerca della propria realizzazione. L’interrogativo che ora lo pervade è come poter conoscere il Conoscitore.

Una volta raggiunta una certa profondità spirituale, ritorna nuovamente nella società. Può farlo come monaco itinerante che va da un luogo all’altro istruendo la gente oppure entrando in un luogo spirituale (ashram) dove accoglie le persone in cerca di un consiglio oppure chiudendosi nel silenzio. I monaci, in questa fase della vita, diventano delle guide per i giovani che si trovano ancora nella prima fase della loro esistenza, ma possono diventare anche consiglieri dei re nelle loro corti.

Nella tradizione induista tuttavia – ma anche nel buddismo – ci sono sempre stati anche uomini che dopo la prima fase non si sono dedicati alla di famiglia, ma hanno vissuto tutta la loro esistenza come eremiti, asceti o monaci.

 

GLI ASHRAM

UNA FORMA FUTURA?

 

Gli ashram sono dei luoghi spirituali dove i saggi, gli asceti o i maestri e coloro che sono in ricerca nella terza e quarta fase della loro vita amano sostare. I tratti caratteristici di un ashram sono: un’atmosfera contemplativa, uno stile di vita semplice e rigidamente vegetariano, una vita ascetica, la vicinanza spontanea alla natura e agli uomini, un’ospitalità aperta a tutti e soprattutto “un’incessante ricerca della verità” (Tagore). Al di là di ogni barriera di casta, cultura e religione, tutti coloro che vivono nell’ashram si sentono pienamente a casa loro. Il motto di base della vita dell’ashram è bene espresso in un’antica preghiera vedica: “Possano tutte le essenze guardarmi con l’occhio dell’amico, e anch’io voglio guardare ad esse con l’occhio dell’amico; potessimo anche noi guardarci gli uni gli altri con l’occhio dell’amico”.

Spesso al centro spirituale dell’ashram c’è un illuminato. Coloro che appartengono alla terza fase della vita e tornano per un approfondimento spirituale vi trovano comunità che li sostiene, un insegnamento spirituale, e soprattutto un nuovo orientamento che conduce la loro vita a una nuova fioritura.

Nelle vallate dell’Himalaya, sulle rive del Gange, e in numerosi altri luoghi tranquilli dell’India del sud si trovano oggi degli ashram con diverse accentuazioni. Da essi promanano forti impulsi spirituali per la vita sociale e molti vi si fermano per un certo tempo per equipaggiarsi spiritualmente.

 

Padre Sebastian si chiede: che cosa possiamo imparare noi cristiani da questa eredità spirituale degli indù? È un segno dei tempi, osserva, che oggi molte persone, che hanno ormai dietro di sé i propri doveri familiari, cercano un nuovo approccio alla vita spirituale e quindi anche un nuovo impegno nella società e nella Chiesa. Molti si aggregherebbero volentieri a una comunità spirituale per avere un sostegno nella loro esistenza. Un fenomeno del genere non corrisponde forse alla terza fase dell’esistenza di cui abbiamo parlato? Se questo è il caso, la Chiesa ha il dovere – anzi una grande opportunità – di accogliere seriamente queste persone che sono in ricerca di luoghi spirituali dove la loro vita, sostenuta dallo Spirito di Cristo, possa conoscere una nuova primavera. Queste persone costituiscono una ricchezza da valorizzare nell’adempimento della missione di Cristo nel mondo d’oggi. Dopo alcuni anni di intenso esercizio spirituale in comunità esse potrebbero assumere nella Chiesa e nella società dei compiti importanti, ciascuno secondo il proprio carisma.

Non potrebbe essere questo un nuo­vo modello di vita religiosa? Qui non si tratta tanto di collocarsi entro le forme e le strutture tradizionali delle comunità religiose, in vista di una loro continuazione, quanto di vivere la sequela di Cristo in una nuova maniera di grande interesse. Nella Chiesa di Cristo non possiamo semplicemente trasferire il passato nel futuro. Il futuro della Chiesa è il futuro dello Spirito di Cristo, e lo Spirito soffia dove vuole.

L’idea degli ashram, prosegue padre Sebastian, potrebbe aprire agli istituti religiosi una possibile via verso il futuro. In India ci sono oltre 50 ashram nati da un’iniziativa cattolica. Si tratta sostanzialmente di questo: di uno stile di vita semplice e credibile in base al Vangelo, di una pratica disciplinata di vita spirituale, arricchita dagli impulsi tratti dalle fonti spirituali del luogo,dello studio della Bibbia e degli scritti sacri dell’India e un conseguente dialogo con persone di altra fede, di riflettere in vista di uno sviluppo di una teologia contestuale e di un confronto sui problemi sociali ed ecologici più acuti del paese a partire da una prospettiva spirituale integrale.

Un ashram non è un’istituzione ecclesiastica in senso giuridico, ma un luogo in cui si possono vivere i valori della buona novella di Gesù tradotta in pratica. Coloro che ne fanno parte, con la loro semplicità di vita e un atteggiamento compassionevole nei riguardi degli uomini cercano di realizzare un modello credibile di comunità quale è stata annunciata da Gesù.

Al centro dell’ashram non c’è la liturgia, ma la meditazione che unisce profondamente le persone in ricerca di diverse religioni e culture. In questo senso un ashram diventa una comunità pellegrinante: ciascuno, per usare un’espressione di Giovanni Paolo II, è “spiritualmente in viaggio con altri fratelli e sorelle”.

L’ashram non è propriamente nemmeno un convento, ma un luogo dove uomini in ricerca possono fare l’esperienza spirituale di comunità e di sicurezza.

L’ashram è poco strutturato; è piuttosto concepito essenzialmente come un movimento sulle orme dello Spirito di Dio. Lasciare spazio allo Spirito di Dio: questo è l’impegno fondamentale dell’ashram. Le persone che per un certo tempo vi si fermano, tornano poi ai loro impegni con una libertà interiore e un modo di vedere più completi

È pensabile, si chiede padre Sebastian, che tante case religiose, in progressiva fase di svuotamento, possano essere trasformate in ashram e aprire le loro porte a coloro che sono in ricerca? Molti di coloro che sono nella terza fase della vita potrebbero trovare in esse un luogo dove poter trascorrere vari anni in una comunità aperta, corroborante e credibile e dove prendersi cura in maniera intensa della propria vita spirituale.

In questi ultimi anni diverse comunità religiose hanno trasformato i loro edifici in case di formazione e di esercizi. Altre hanno aperto le porte per consentire a persone in ricerca di fare per un certo tempo un po’ di esperienza di vita religiosa. Ma l’ashram, di cui abbiamo parlato, rappresenta un passo ancora più radicale. Si tratta soprattutto della scelta di uno stile di vita più semplice caratterizzato dall’ascesi e dalla contemplazione, che fondato sui valori fondamentali del Vangelo diventa una controcultura alla cultura consumistica d’oggi.

Entusiasmati dal messaggio di Gesù, coloro che sono nella terza_fase della vita hanno la possibilità di trascorrere alcuni anni in una comunità spirituale. Lo studio meditato della Bibbia e degli scritti sacri delle altre religioni e l’immersione nel mondo dell’esperienze mistiche del cristianesimo, e delle altre fedi religiose, dovranno costituire la principale preoccupazione dell’ashram, nel senso che il cristiano del futuro dovrà essere un mistico (Karl Rahner) e il dialogo dovrà diventare un nuovo modo di essere cristiani (Giovanni Paolo II). Coloro che fanno questa esperienza possono poi confrontarsi con i problemi della società e diventare strumenti di pace, salvezza e giustizia. In definitiva si tratta di una spiritualità globale e liberante che mette in grado le persone di essere cristiani maturi e credibili in una società pluralistica.

 

A.D.

 

1_Sebastian Painadath, “Hat das Ordensleben eine Zukunft in der Kirche?”, in Ordens Korrespondenz, quaderno 3, 2002, pp. 259-263.

2_Veda che in sanscrito significa “conoscenza”, è l’insieme dei testi sacri più antichi composti tra il 1500 e l’800 A.C. che la tradizione induista attribuisce alla diretta rivelazione di Brahma.