SEMINARIO CIIS SULL’ACCOGLIENZA

 

ALLENARE_IL CUORE AD AMARE

 

Per poter vivere in maniera libera e autentica l’accoglienza è indispensabile partire dall’amore di sé. Solo così sarà poi possibile amare il prossimo e superare gli inevitabili condizionamenti interiori che spesso ci frenano e ostacolano.

 

La Conferenza italiana degli istituti secolari (CIIS) da diversi anni sta sviluppando una tematica di carattere formativo particolarmente interessante. Nel seminario formativo che si è tenuto a Roma dal 10 al 12 gennaio scorso è stato proposto all’attenzione delle oltre 70 persone intervenute, di diversi istituti presenti in Italia, il tema dell’accoglienza, cercando di cogliere le disposizioni interiori che l’aiutano e/o l’ostacolano e gli atteggiamenti che invece la favoriscono e la promuovono.

Ad aiutarci in questo percorso è stata la professoressa Rossana Carmagnani, attualmente residente a Palermo, e impegnata da diversi anni in ambiti psicologico-formativi. La sua riflessione ha voluto condurci ad un attento discernimento per giungere a una lettura realistica di noi stessi e degli altri. Non è possibile vivere l’accoglienza degli altri se non a partire da un’accoglienza previa di ciò che siamo, della realtà più profonda che ci abita dentro, del nucleo vitale, genetico che ci distingue gli uni dagli altri; quel nucleo vitale che ci fa sperimentare la nostra personale unicità, pur in mezzo a milioni di persone.

Il segreto dell’accoglienza sta proprio qui: partire dall’amore di sé per poter amare gli altri, il prossimo con cuore libero. La realtà della persona umana aspira a una dimensione di libertà, ma spesso si trova a fare i conti con le proprie paure, ansie, timori, fobie, con la tremenda fatica di accettarsi per quello che si è e allora nascono le lotte interiori alla ricerca di un equilibrio ardentemente desiderato, ma faticosamente raggiungibile. “La logica dell’equilibrio – dice la Carmagnani – è un cammino di lotta con noi stessi, con i nostri stati d’animo; le battaglie più cruente le abbiamo combattute e le combattiamo dentro di noi”. Ciascuno di noi fa quotidianamente esperienza di questa lotta interiore alla ricerca di quella pace che ci può permettere di sperimentare un grande senso di libertà. A volte però questo anelito di pace rimane solo un sogno, una realtà lontana perché non stiamo bene interiormente e di conseguenza anche la realtà esterna ci appare un peso, non riusciamo ad accoglierla nella sua bellezza; la leggiamo filtrandola con i nostri stati emotivi, fatti di sfiducia, poca stima, paura di sbagliare, bisogni da gratificare ed è ovvio che tutto questo mondo interiore ci condiziona nei nostri rapporti relazionali.

 

NEL CONTESTO

IN CUI VIVIAMO

 

Allora da dove partire? Come muo­verci dentro questa realtà esistenziale che ci coinvolge così ampiamente? Il punto di partenza per una lettura realistica della realtà, compreso il nostro mondo emotivo, è il contesto nel quale viviamo che può essere il gruppo di vita fraterna dove si vive la propria quotidianità; può essere il proprio ambiente di lavoro e/o la propria famiglia per chi, come consacrate secolari, vivono la loro consacrazione in casa e/o in una professione specifica. Ed è a partire da questo contesto che siamo chiamati a vivere atteggiamenti di apertura incondizionati del nostro pros­simo, così come egli si presenta; “la palestra dell’amore per il prossimo è il luogo della nostra quotidianità”. È lì che ciascuno allena il suo cuore all’amore; è lì che si fa esperienza delle infinite possibilità offerte per vivere l’accoglienza ed è lì che ciascuno può leggersi nella verità per cogliere ciò che aiuta e/o ostacola ad amare il prossimo.

Tutto questo ancora non basta, il contesto è sicuramente il punto di partenza, ma bisogna domandarsi, a partire dall’esperienza, “quello che ho vissuto cosa mi ha fatto capire? Quale cammino, attraverso le nuove conoscenze, sono chiamato a fare?”. E ogni volta che mettiamo in atto nuovi cammini, nuovi percorsi, dobbiamo avere il coraggio di fermarci e domandarci onestamente: “Da che punto sono partito? Dove sono arrivato? Come ho raggiunto gli obiettivi? ”.

Questi passaggi che a volte facciamo un po’ velocemente o diamo per scontati, ci aiutano a non razionalizzare, a non ragionare troppo sulla realtà, ma, a partire dal vissuto di ciascuno, delineano, in una maniera più chiara, ciò che aiuta, ciò che ostacola nel vivere l’accoglienza dell’altro in quanto altro da noi. Per questo – sottolinea la Carmagnani – “è importante che ogni tanto ci fermiamo a domandarci e a verificare quali sono le condizioni interiori che viviamo quando siamo maggiormente capaci di accogliere, come ci sentiamo dentro. E quali sono invece le condizioni interiori che viviamo quando gli altri in qualche modo ci infastidiscono.”. Queste domande aiutano a trovare risposte, a chiamare le cose con il proprio nome, senza tante maschere o intellettualizzazioni.

 

LA FATICA

DI INCONTRARE L’ALTRO

 

Chi di noi non ha toccato con mano la fatica di andare incontro all’altro quando i nostri stati emotivi interiori sono negativi? Quanta fatica nell’accogliere l’altro quando non siamo in pace con noi stessi; quando non riusciamo ad accettarci per quello che siamo; quando non c’è desiderio di condivisione; quando il nostro cuore è ripiegato su noi stessi; quando il nostro mondo interiore è chiuso in una morsa di nervosismo da non farci vedere chi ci sta di fronte. Quante volte, anche all’interno dei nostri gruppi, delle nostre fraternità, dei nostri istituti di vita consacrata, ci troviamo a fare i conti con queste situazioni che ci impediscono di accogliere con cuore libero il prossimo più prossimo, colui che più ci è vicino. Quante volte ci è capitato, e/o ci capita, di riversare, di proiettare negli altri, l’immagine negativa che abbiamo di noi stessi; filtriamo la realtà non in base a ciò che è realmente, ma in base ai nostri stati emotivi: “Quando non ci amiamo o amiamo troppo gli altri o li amiamo troppo poco” falsiamo la realtà e la legge evangelica dell’amore “ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la mente e con tutte le tue forze e ama il prossimo tuo come te stesso”. Se non ci amiamo, se non ci riconosciamo nella verità più profonda di noi stessi, come facciamo ad amare il nostro prossimo, ad accoglierlo nella sua bellezza e totalità? Ritorna a più riprese l’importanza di lavorare personalmente e comunitariamente sull’immagine di sé perché è in base a questa che noi leggiamo gli altri e le situazioni che ci stanno attorno. “L’immagine di sé è quello stato emotivo che noi produciamo nei confronti di noi stessi; immagine che oscilla tra luce e ombre, atteggiamenti positivi e negativi; non c’è mai uno stato totalmente positivo o totalmente negativo, ciò che è certo è che ciascuno di noi ha bisogno di imparare ad accogliersi in quella unicità che ci rende figli di Dio, unici, irripetibili, non clonabili perché ciascuno è se stesso e non un altro”.

Queste affermazioni sembrano ovvie e scontate, ma nell’esperienza quotidiana gran parte delle difficoltà, problemi, fatiche personali e comunitarie, nascono qui: dall’incapacità di cogliere e di leggere quel nocciolo costitutivo che ci fa essere quello che siamo davanti a Dio e ai nostri fratelli. È anche vero che gran parte della nostra personalità cresce sotto l’influsso degli altri: genitori, fratelli e/o sorelle, insegnanti, amici e tutte quelle persone con cui la nostra vita si intreccia e, mentre siamo in fase di crescita, l’immagine di noi stessi risente molto di questa influenza o condizionamenti. Per fortuna però la nostra immagine non è vincolata per tutta la vita da ciò che gli altri hanno prodotto in noi; man mano che cresciamo siamo chiamati ad assumere una consapevolezza sempre più grande di ciò che realmente siamo. Questo deve essere il nostro sforzo continuo: liberarci dai condizionamenti della nostra storia passata, senza darle troppa cittadinanza; è vero che ha avuto la sua influenza nella nostra vita, ma non può certo determinare il nostro avvenire; il che significa imparare ad accettarla per quello che è stata e guardare avanti con serenità e fiducia, altrimenti rischiamo di rimanere imprigionati da ciò che sembra già determinato.

 

APERTURA

E DISPONIBILITÀ

 

Se si volesse fare una lettura più profonda di quello che succede dentro di noi quando siamo in grado di avere una sana autostima ci accorgiamo che l’atteggiamento che più ci accompagna è l’apertura e la disponibilità. Quando abbiamo con noi stessi una relazione pacifica, il che vuol dire ammettere con molta onestà i nostri limiti e la nostre potenzialità, riusciamo a relazionarci con il nostro prossimo in modo libero perché il suo giudizio non ci condiziona, non ci fa paura, ci sentiamo liberi dentro. La fiducia in se stessi produce automaticamente fiducia negli altri, apertura; ci porta a rischiare nelle relazioni, a metterci in gioco, a puntare al meglio di noi stessi per donarci agli altri; ci porta a non aver paura di eventuali insuccessi, anche se ci saranno.

Chi invece tendenzialmente non riconosce le proprie potenzialità, i propri talenti e fa troppa attenzione ai limiti come se questi fossero l’unica realtà che merita attenzione, allora la tendenza più frequente sarà la chiusura, l’autocommiserazione, ci si piange addosso senza muovere un passo perché si finisce sempre per guardare gli altri con occhi di rimpianto, come a persone che hanno sempre delle carte in più, sanno fare, riescono. Il più delle volte questo meccanismo ci porta ad alimentare la nostra solitudine e a pensare che non saremo mai come loro, con il rischio di entrare in un’autocommiserazione che ci chiude sempre di più. Chiusura, fuga, depressione nelle sue più svariate forme, difficoltà a mettersi in gioco, paura a relazionarsi con l’altro perché ci si sente inferiori, timore del giudizio, queste le conseguenze più immediate e le più pericolose perché alimentano sempre di più atteggiamenti di isolamento e di passività.

È evidente allora l’importanza che assume, anche e soprattutto, all’interno delle nostre realtà di vita consacrata, lavorare su di sé per una sana autostima e come questo lavoro interiore non sia per niente tempo perso, né energie sprecate.

Rossana Carmagnani ha messo in risalto come il nostro rapporto con gli altri dipenda da come noi ci percepiamo e ha delineato quattro posizioni esistenziali con cui traduciamo le nostre relazioni interpersonali.

La prima, quella che tutti sogniamo è: Io sono ok, tu sei ok, se ad accompagnare le nostre relazioni c’è questa visione positiva di noi stessi e degli altri ne deriva che con il nostro prossimo c’è comunicazione, collaborazione, apertura, equilibrio, fiducia e i problemi vengono trattati con giustizia, nel confronto reciproco, nel dialogo.

Poi c’è la seconda: “Io sono ok, tu non sei ok, dove le caratteristiche principali che emergono nella relazione con il nostro prossimo sono improntate ad arroganza, diffidenza, dogmatismo, aggressività, autoritarismo e i problemi vengono trattati giudicando, accusando l’altro con sentimenti di collera, orgoglio e di disprezzo. Ovvio che l’ac­coglienza dell’altro in quanto altro in questi termini trova già le sue chiusure e diventa terribilmente più faticosa, anche all’interno dei nostri gruppi.

Quindi la terza posizione, anche questa non così lontana dalla realtà: “Io non sono ok, tu sei ok, e produce pessimismo, inferiorità, inquietudine, timidezza e dove i problemi vengono trattati con dimissione, ci si da alla fuga, non c’è coinvolgimento, ci si sente sempre perdenti e i sentimenti più dominanti sono la paura, la vergogna, la colpa, l’umiliazione; in questa situazione non si va molto lontano.

Infine l’ultima, la più pericolosa, perché la più negativa: “Io non sono ok, tu non sei ok,” e le caratteristiche principali di questo modo di tradurre il rapporto con l’altro sono date dalla depressione, disfattismo, rassegnazione, aggressività, nervosismo e se ci sono problemi vengono trattato con lamentele, si molla la presa, vengono tremendamente ingigantiti; tutto questo è accompagnato da tristezza, derisione, disperazione. “Queste posizioni – ha affermato la Carmagnani – le pratichiamo più o meno tutte; ciò che è importante è risalire sempre alla prima che ci porta ad avere una visione positiva di noi stessi e degli altri e dove l’accoglienza del prossimo trova spazio perché ci si pone, l’uno di fronte all’altro, con atteggiamenti di reciprocità e desiderio di camminare insieme”.

Tutto questo ci aiuti a mantenere vivo, dentro il nostro cuore, un grande ideale di vita scoprendo ogni giorno la bellezza di crescere per rispondere, in modo più autentico, alla vocazione ricevuta a servizio del Regno.

 

Orielda Tomasi