SIMPOSIO INTERNAZIONALE DEI BENEDETTINI

 

IL “BUON ZELO”_PIENEZZA DELL’AMORE

 

Nella regola di san Benedetto ci si imbatte di frequente nell’espressione “buon zelo”. Essa indica l’amore verso Dio e il prossimo e rappresenta il contrario degli atteggiamenti negativi come invidie, dispute, rivalità, divisioni e disordini.

 

In un momento in cui gli istituti religiosi si preoccupano di rimettere la vita spirituale al primo posto, il tema del “buon zelo” per i benedettini è tornato a essere il punto di riferimento verso cui essi fanno convergere il loro impegno di animazione e di rinnovamento. Infatti il tema è stato scelto come argomento del simposio internazionale che hanno tenuto a Roma, a Sant’Anselmo, lo scorso mese di settembre, allo scopo di studiare e approfondire ciò che san Benedetto scrive a questo proposito in particolare nel n. 72 della sua regola, e ascoltare come esso è vissuto nelle comunità nelle varie parti del mondo.

 

AMORE RECIPROCO

IN COMUNITÀ

 

È stato scelto questo argomento anche perché, come ha dichiarato una delle relatrici, sr Aquinata Böckmann, oggi viviamo in un mondo sconvolto dal terrorismo fondamentalista, in una società piena di odio e tutta protesa ad annientare e a distruggere. E anche perché è sempre più diffuso uno spirito opposto allo zelo, tipico di persone senza grandi ideali, le quali pensano di potersi salvare impigrendo nei loro agi. Perfino le comunità religiose corrono questo rischio.

Se il buon zelo trova la sua realizzazione più piena nell’amore, allora si è chiesta un’altra relatrice, Sonia Wagner, un’australiana, come può una monaca formarsi un “cuore traboccante della gioia inesprimibile dell’amore” e crescere in questo amore attraverso il rapporto con gli altri nel suo cammino monastico? E ancora: che cosa può offrire il celibato consacrato al nostro mondo attuale?

Di grande intensità sono a questo riguardo alcuni detti di san Benedetto, il quale, nel capitolo 72 della regola, rivolto ai monaci, così li esorta: “Temano Dio con amore; non antepongano assolutamente nulla a Cristo; pratichino con purezza di cuore la carità fraterna; si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore; sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali; gareggino nell’obbedirsi scambievolmente; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; si portino a vicenda un amore fraterno e libero da ogni egoismo”.

In altre parole: ognuno esiste per gli altri… per essere guidato dagli altri. “Se prendessimo sul serio queste indicazioni – ha sottolineato sr Sonia – quanti miracoli sconvolgenti accadrebbero nelle nostre comunità!”. Certamente “l’amore costa e ciò è evidente in tutte le apparenti piccole cose della vita quotidiana. L’amore esige che facciamo delle relazioni una priorità nella nostra vita. L’amore richiede che condividiamo i doni e le idee con gli altri. Non c’è da aspettarsi alcuna comunità ideale. L’amore esige che collaboriamo alla costruzione della comunità nel tempo e nel luogo in cui siamo”.

Per quanto riguarda l’amore di Dio, la strada da percorrere si sviluppa per mezzo, con e in Cristo. Il rapporto con Cristo deve perciò avere la priorità assoluta, poiché da ciò dipende la forza della vita comunitaria. Del resto san Benedetto l’aveva già ricordato: “Dobbiamo porre l’amore di Cristo prima di ogni altra cosa”; “non antepongano assolutamente nulla a Cristo”. E citando san Cipriano: “Non dobbiamo preferire nulla a Cristo perché egli non ha preferito nulla a noi”.

Un’altra dimensione dell’amore si riferisce alla priora. San Benedetto dice che la comunità deve amarla con carità “umile e sincera” e offre delle indicazioni anche su come la priora deve amare tutti i membri della comunità. La priora, afferma, deve essere un’icona di Cristo per ogni membro, senza eccezioni; non può però mai sostituire Cristo; deve sforzarsi di essere più amata che temuta e mostrare un amore uguale per tutte; deve odiare i vizi ed estirparli con prudenza e carità nel modo che ritiene più conveniente per ciascuna… come un medico esperto, deve agire con sollecitudine, discernimento e diligenza verso coloro che sono in contrasto con la comunità.

Il servizio di guida di un monastero-comunità, commenta sr Sonia, “consiste nell’animare, comprendere, insegnare, unire, guarire, assistere; nello sviluppare non solo sistemi omogenei che funzionino con efficienza, ma nel creare concretamente strutture in cui possano fiorire l’amore, la compassione, il buon zelo”. E ancora, “la priora deve essere una persona con un grande amore per la comunità, verso il gruppo concreto di donne così come sono; deve vederle come donne, non come problemi; donne dotate di talenti e di doni; donne che a volte hanno giornate nere e croci pesanti da portare; deve credere in loro quando esse non sono in grado di credere in se stesse. Questo è buon zelo”.

Ma, secondo san Benedetto, l’amore deve pervadere anche gli altri ruoli nel monastero. Per esempio, il portinaio deve rispondere alle chiamate con il calore della carità; i malati devono essere serviti da uno che li ami; gli anziani devono amare i giovani… In una parola, il servizio dell’amore deve essere una responsabilità condivisa.

 

CELIBATO

UNA QUESTIONE DI AMORE

 

Se lo zelo buono trova la sua espressione più caratteristica nell’amore, uno degli aspetti che maggiormente dovrebbe rivelarlo è certamente il celibato consacrato. Cosa può offrire esso al nostro mondo? Sr Sonia osserva che il celibato non è scelto per se stesso, ma a causa del Regno di Dio. Oggi tuttavia bisogna trovare vie più efficaci per “rendere ragione della speranza che è in noi” (cf. 1Pt 3,15). Con san Tomaso More, ha detto, occorre riconoscere che “non è questione di ragione, ma di amore”. Il celibato non testimonia nulla, ma le persone che lo scelgono sì. E ciò è tanto più importante in quanto oggi molte persone che guardano alla Chiesa per trovare un orientamento e una guida, dopo tutti gli scandali recenti, non percepiscono in essa chiari segni di amore, di generosità e di gioia.

Bisogna pertanto chiedersi: come viviamo noi questa santa realtà? La sfida davanti a cui ci si trova oggi non consiste nell’abbandonare il celibato ma “nel comprendere meglio questo aspetto della vita ed esplorare quale dono esso può portare al nostro mondo”, tenendo presente che “la fede cristiana proclama le sue verità più profonde nei paradossi” e “il celibato è uno dei paradossi della nostra fede”.

Ma forse è giunto il tempo di rivedere anche il linguaggio solitamente impiegato. San Benedetto è stato in questo un vero precursore. Raramente egli parla in modo esplicito di castità e quando ne parla lo fa nel contesto più ampio dell’amore e delle relazioni. Scrive, per esempio, che quando un novizio viene accolto, deve promettere nell’oratorio, alla presenza di tutti, stabilità, fedeltà alla vita monastica e obbedienza. Poi col tempo questi tre aspetti sono stati considerati come tre voti. Ma per Benedetto non si tratta di assumere tre obblighi distinti e chiusi in se stessi; ciò che uno promette è di “vivere pienamente la vita monastica come è vissuta in un determinato monastero e definita da una determinata regola e da una determinata priora. Non si tratta di tre responsabilità distinte assunte nuovamente, ma di tre aspetti di un unico obbligo. La castità quindi per Benedetto deve essere considerata in rapporto all’intero stile di vita, a ciò che viene chiesto al monaco e a quello che si offre in dono.

È una prospettiva, commenta sr Sonia, che corrisponde pienamente alla chiamata alla vita monastica che è una chiamata all’amore, alla vita, alle relazioni. La scelta del celibato, perciò, è una decisione per l’amore, per la vita, per le relazioni, non contro. Quindi: potenziamento, non repressione; integrazione non divisione; passione, non ossessione; opportunità non rifiuto; espansione non costrizione; impegno non fuga.

 

IMPARARE

AD AMARE

 

Per vivere il celibato consacrato bisogna quindi imparare ad amare. Tra i grandi maestri, il cui linguaggio è significativo anche per il nostro tempo, sr Sonia cita, accanto a san Benedetto, la grande monaca mistica e scrittrice del sec. XIII, Geltrude di Helfta. Benedetto nella regola parla di “stabilire una scuola di servizio del Signore”. Geltrude fa sua questa immagine e scorge in essa la possibilità di una costante crescita nell’amore, nella religione, nella semplicità e santità. La chiama “scuola di carità”, “scuola dello Spirito Santo”, “scuola di amore casto, tenero”. Tipico, per esempio, è quanto scrive a proposito delle sette ore liturgiche: “Alle lodi prega che ti sia insegnata l’arte dell’amore; a prima prega per essere condotto nella scuola dell’amore avendo Dio come insegnante e maestro; a terza chiedi di imparare l’alfabeto con cui lo Spirito scrive la sua legge di amore sul tuo cuore; a sesta di imparare a conoscere il Signore, non solo con le sillabe, ma anche con la teoria; a nona di essere accettato nella milizia dell’amore e di essere fissato da un giuramento; ai vespri di camminare nell’armata dell’amore e di trionfare sul male; a compieta di diventare dimentico del mondo e di essere consumato nell’unione di amore con Dio”.

Imparare ad amare, osserva sr Sonia, citando un articolo del gesuita William Johnston, intitolato La strada dall’odio all’amore, oggi è tanto più importante in quanto abbiamo a che fare con delle gravi crisi internazionali, come per esempio quelle dell’attacco alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, davanti alle quali è facile schierarsi dalla parte dei buoni e tacciare i terroristi come cattivi. Non si vuole sentir parlare di trattative, di dialogo, di perdono. “Ora, sottolinea sr Sonia, ciò che fa più paura è che anche i fondamentalisti islamici che hanno distrutto le torri la pensano allo stesso modo. Anch’essi sono convinti di lottare contro il male. Vogliono distruggere la società occidentale corrotta”. Johnston ritiene che la sola vera risposta risieda nel dialogo e nell’amicizia, ossia nell’amore, nel buon zelo tra le religioni: un dialogo in cui le religioni si confrontano camminando insieme verso la conversione e aiutandosi a vicenda per superare qualsiasi forma di fondamentalismo fanatico.

Il dialogo deve però cominciare dalla nostra vita comunitaria poiché oggi anche all’interno dei monasteri è possibile vivere sotto lo stesso tetto e avere pochi veri momenti di contatto. Ci sono dei fattori che “indeboliscono lo spirito”, dovuti in gran parte, come osserva Sean Sammon, superiore generale dei maristi, citato da sr Sonia, all’attività febbrile, una delle piaghe che affliggono molti di noi nel mondo occidentale: essa conduce all’esaurimento, a un narcisismo assorbente, a un pragmatismo preoccupato del lavoro, dell’efficacia, del rendimento e a un’agitazione sfrenata. Questi atteggiamenti corrispondono alla descrizione dei girovaghi che Benedetto definisce “sempre vagabondi e mai stabili”.

Se i monaci vogliono ovviare a questo pericolo “devono custodire sempre il silenzio” e preservare la propria lingua dal male. Tra l’altro, Benedetto nella sua regola ha parole molto forti contro il vizio della mormorazione e le lamentele in comunità.

Un altro rischio è il cuore diviso; è un rischio avvertito anche da Paolo il quale scrivendo ai romani, afferma: “Non faccio il bene che voglio”. Con vergogna egli sente di essere privo di amore e di sperimentare lotte, sconfitte, conflitti.

Questo, sottolinea sr Sonia, “ci invita a rivisitare le nostre intenzioni e le nostre motivazioni, ci induce a porci delle domande che possono aiutarci a crescere: qual è la mia motivazione? dov’e è il mio cuore? Sono interrogativi che ci invitano a guardare alla nostra realtà a un livello più profondo, con la “sapienza del cuore”, quella che Joan Chittister chiama contemplazione.

Un altro aspetto importante per crescere nell’amore è avere degli amici. Come scrive Evagrio Pontico, non si può essere monaci se non si hanno amici, perché “il monaco è colui che è separato da tutti e unito a tutti”. L’amicizia fa parte dell’integrità della persona umana. Chi non ha amici non è completo.

Infine occorre imparare dall’esempio che ci dona Gesù riunendo i suoi discepoli per l’ultima cena. Li riunisce nel simbolo universale dell’amicizia che è la condivisione del pasto, dello spezzare il pane e bere insieme il vino. Sappiamo, tuttavia, che il suo gruppo è lungi dal costituire un cuor solo e un’anima sola: discussioni, rivalità, cecità di fronte alla possibilità di tradirlo, preoccupazioni per i propri interessi. Cosa fa Gesù in mezzo a tutti questi conflitti e interessi? Rimane a tavola, persevera, testimonia che le lotte, le difficoltà, le gravi mancanze d’amore non costituiscono necessariamente la fine. Ricorda loro alcuni insegnamenti fondamentali: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato. Vi ho chiamato amici. Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. Non vi chiamo più servi… vi chiamo amici… Sarete miei amici se rimarrete fedeli ai miei comandamenti. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,12-16).

Con la potenza dello Spirito, sottolinea sr Sonia, anche noi possiamo fare l’esperienza di questa pienezza del buon zelo e correre, come scrive san Benedetto “con cuor dilatato e ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti”.

E termina con questa preghiera tratta dagli esercizi spirituali di santa Geltrude, in cui è condensato molto bene ciò che s’intende con il buon zelo: “Vieni, o grazioso sole dell’aurora, e con l’unzione del tuo Santo Spirito, fammi sbocciare e fiorire di nuovo. Volgi verso di te l’intera mia anima grazie all’onnipotenza del tuo amore; allora correrò nella via dei tuoi comandamenti senza fatica. Illumina la mia intelligenza grazie alla luce del tuo amore. Insegnami, guidami e formami nel più profondo del cuore. Che l’amore su di me sia come un sigillo, uniscimi a te con un legame che nulla possa indebolire né spezzare. Amen”.

 

A.D.