42ma ASSEMBLEA GENERALE CISM

 

NUOVI PERCORSI

NUOVI LINGUAGGI

 

L’ultima assemblea generale della Cism si è interrogata a fondo sui nuovi linguaggi e percorsi che, ripartendo da Cristo, dovrebbero contraddistinguere la vita consacrata oggi: ascolto della Parola di Dio, centralità dell’eucaristia, spiritualità di comunione intrecciati con un rinnovato impegno culturale e sociale.

 

L’individuazione di nuovi percorsi e di nuovi linguaggi per comunicare il vangelo in un mondo che cambia è stato il tema di fondo della recente assemblea generale della Cism.1 Ci si è mossi molto opportunamente nel contesto degli ultimi documenti del magistero. Ripartire da Cristo, prima ancora che il titolo dell’ultima istruzione della Congregazione per gli istituti di vita consacrata, è la felice intestazione del terzo capitoletto della lettera apostolica: Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II. Non si tratta di inventare un nuovo programma, scrive il papa; il programma c’è già; lo troviamo nel vangelo e nella viva tradizione della Chiesa e si incentra su Cristo stesso; è un programma da conoscere, da amare, da vivere, che non cambia con il variare dei tempi e delle culture.

Come ben sappiamo, una prima e puntuale risposta a questo documento è venuta, in Italia, dalla Cei con gli orientamenti pastorali per il decennio in corso: Comunicare il vangelo in un mondo che cambia. Se comunicare il vangelo è e resta il compito primario della Chiesa, alla luce dell’attuale contesto socio-culturale, questo compito sarà tanto più efficacemente perseguito quanto più, nella piena accoglienza dello Spirito, i cristiani di oggi sapranno comunicare agli uomini di oggi il mistero di Dio. La spinta a “ripartire da Cristo”, a “guardare in alto”, a “comunicare il vangelo in un mondo che cambia” è stata raccolta dalla Cism quasi come una sfida, tentandone una prima risposta nella individuazione di nuovi percorsi e di nuovi linguaggi.

Forse ci saremmo aspettati, da Palermo, una più coraggiosa proiezione sul futuro della vita consacrata, in maggiore coerenza a quanto il tema dell’assemblea lasciava presagire. Ci si è più soffermati, crediamo, su una denunzia delle carenze dei “vecchi” percorsi; non per nulla, sia il presidente che il segretario generale della Cism, don Mario Aldegani e padre Fidenzio Volpi, nei loro interventi si sono rifatti intenzionalmente alle loro precedenti esperienze di superiori provinciali. Ogni volta però che ci si confronta con le proprie esperienze rilette in un attento ascolto delle reali situazioni in cui si dibatte oggi la vita consacrata, per la verità non si fa altro che porre le premesse indispensabili per cammini futuri.

 

UNA SPIRITUALITÀ

“MUTA”

 

Non va data per scontata, neppure fra noi, ha esordito don Aldegani, la disponibilità a vivere secondo lo Spirito; come si può chiamare, infatti, “vita secondo lo Spirito” una vita magari “inappuntabile” dal punto di vista della fedeltà alla regola ma priva di una visibile e gioiosa relazione con gli altri, senza una positiva passione per il mondo in cui viviamo, senza una generosa partecipazione al cambiamento? “Forse sono ancora tanto presenti, nei nostri ambienti, le tracce di una spiritualità d’altri tempi, che oltre a non aiutare a far passare nel concreto della vita il senso della consacrazione, non parla più, non dice nulla come testimonianza e come linguaggio di vangelo a chi ci incontra”.

Quante volte, ancora oggi, non solo nella vita dei singoli e delle comunità, ma perfino nei percorsi formativi, ci si imbatte in “tracce di spiritualità segnate da devozionalismo (poca bibbia, poca liturgia), individualismo e ascetismo, spiritualità di tipo ascetico-funzionale-volontaristico, che puntano su motivazioni con connotazione negativa, che fondano una morale del dovere piuttosto che della gioia e della libertà, che sono funzionali all’uniformità, alla dipendenza, all’imitazione, all’osservanza e che di fatto premiano il conformismo e l’adattamento”.

Una spiritualità di questo genere non può essere che “muta” per il nostro tempo. Una vita consacrata che non sa leggere il vangelo in stretto riferimento alle sfide del presente, una spiritualità che, come era già detto nello strumento di lavoro preparatorio dell’assemblea, punta ad una rigorosità formale ed astratta, oppure ad una esaltazione emotiva immediata, che ignora il riferimento all’uomo reale nella sua concreta esperienza di libertà, già in partenza è condannata ad una sterilità di fondo.

Non è possibile “ripartire da Cristo” senza una intensa spiritualità di comunione; con la Chiesa, anzitutto; “la vita consacrata – ha detto Aldegani – non si comprende se non nella Chiesa, non in senso generico ma concreto e quotidiano; siamo Chiesa nella Chiesa e quindi, siamo con la Chiesa nel mondo e per il mondo”; e poi con le altre vocazioni nella comunità cristiana, sulla comune vocazione alla santità, sulla reciprocità, sul mutuo scambio e il vicendevole arricchimento. Dire ecclesiologia di comunione significa dire condivisione della Parola, celebrazione dell’eucaristia, nel silenzio della preghiera, nella solennità e semplicità della liturgia, nella grandezza e ineffabilità del mistero.

Ma il culto non potrà mai essere fine a se stesso. La vita spirituale di una comunità religiosa, ha ricordato don Aldegani rifacendosi allo strumento di lavoro, “se vuole realmente rispondere alle attuali domande, non può essere qualcosa che si recinta in terreni separati dalla vita degli uomini; una vita spirituale vissuta in modo o intimistico o come fuga a dalla realtà non può che avere un significato assai scarso per la Chiesa del terzo millennio”. Ogni nostro impegno, ogni nostra pretesa di comunicare, di testimoniare il Cristo che ha dato senso alla nostra vita “non può che partire dall’ascolto dell’uomo, anche nei suoi limiti, che poi sono i nostri”.

 

TENDENZE

IN ATTO

 

Quali possono essere le tendenze in atto che stimolano la vita consacrata ad aprire percorsi nuovi e processi di cambiamento nella spiritualità? Sono le tendenze facilmente riscontrabili nella vita di tutti i giorni: disattenzione e risposte devianti di fronte ad una forte domanda di senso, di relazione e di ascolto, diffusa rimozione della ricerca dell’incontro con Dio, esaltazione di una libertà quasi assoluta del soggetto, diffuse situazioni di immaturità e conflitti interiori irrisolti in tante persone, percezione poco significativa e attraente della vita consacrata.

Vogliamo tentare una risposta efficace a queste sfide? Ecco alcuni passaggi obbligati: da una spiritualità individualista ed intimista ad una spiritualità più aperta all’ascolto della Parola, all’attenzione all’altro, ai segni dei tempi, dal vivere i voti in modo prevalentemente individualistico e soltanto ascetico ad una pratica di essi che ne faccia cogliere la valenza umana ed evangelica nell’uso dei beni, nel vivere la sessualità e la libertà, nella solidarietà, da una spiritualità moralistica, devozionale e formalistica ad una spiritualità basata sull’amore misericordioso di Dio che consacra la nostra vita e ci spinge alla missione, da una spiritualità in cui la libertà si contrappone alla verità ad una spiritualità che sia testimonianza di una libertà donata e vissuta come cordiale adesione a Cristo.

Una spiritualità disincarnata dal suo contesto storico-culturale oggi non ha più ragion d’essere. Solo se la fede genera impegno culturale può essere in grado di “incidere cristianamente nella società”; senza un tale impegno “anche la possibilità di dialogo con diverse esperienze spirituali e, più in generale con l’uomo contemporaneo, rimarrebbe fortemente impedito”. In questo senso vanno anche rivisti tutti i percorsi formativi garantendo una preparazione e una competenza anche culturale a quanti, giovani o adulti, bussano alle nostre porte; spesso il fatto che sono pochi forse “ci induce ad essere un po’ meno esigenti”; ma sia chiaro, non si tratta di formare delle élites culturali; più semplicemente si vorrebbe formare consacrati “in grado di dialogare con la parola e con la vita con il modo di oggi e di comprenderne ed intercettarne le domande di senso”.

Questa spiritualità, ancora, deve avere anche una dimensione sociale, dal momento che la comunità dei credenti non è una realtà fuori dalla storia con gli occhi rivolti solo al cielo, ma una comunità che “viene pienamente coinvolta nelle vicende di questo mondo”. Anche alle persone impegnate nella vita consacrata si richiede una spiritualità in grado di dare risposte coerenti alle diverse situazioni esistenziali. Per essere rilevanti, ha detto don Aldegani, “bisogna avere qualcosa di importante da dire su questioni che toccano la nostra competenza più profonda: la vita, la morte, le cose e Dio, la preghiera ed il senso della vita, il ricevere ed il dare, il sentirsi amati e l’amare, la realizzazione di sé e la fede”.

Una spiritualità comprensibile per il nostro tempo deve saper elaborare categorie appropriate alla mentalità secolarizzata, deve saper inventare parole nuove, deve saper dare delle risposte che non siano quelle tipiche di un “mondo sacrale”. Anche i modelli di santità non possono oggi ricalcare le piste di sempre; ci sono ancora dei modelli con dei tratti caratteristici “avulsi” dalle attuali, ordinarie aspirazioni, modelli che, in chiave devozionalistica, possono suscitare al massimo ammirazione ma non imitazione.

 

RIDIRE

LA SPIRITUALITA’

 

Di fronte alla complessa realtà attuale della vita consacrata, quello che possiamo fare, ha precisato Aldegani, è nulla più che la formulazione di alcune ipotesi sulle possibili mete e i possibili percorsi da raggiungere. Ci si dovrebbe interrogare sul fatto che ai religiosi la gente spesso chiede i servizi ma le ragioni per vivere (cioè la spiritualità vera e propria) le cercano altrove; si dovrebbe riflettere se sia maggiormente “produttivo” investire le poche forze rimaste nel puntellare alcuni tipi di opere (che non sono mai il fine), oppure reinculturare la spiritualità del carisma, ben sapendo che “identificarsi con il lavoro, oggi significa vivere il futuro con il senso di morte”. Reinculturare la spiritualità non significa soltanto diventare più spirituali ma saperla sintonizzare con “le attuali coordinate di vita”, saperla “ridire” “con il linguaggio di coloro a cui ci si rivolge non essendo sufficiente quello delle nostre origini fondative”.

La vita consacrata ha bisogno di ritrovare il suo ruolo fondamentale all’interno del popolo di Dio, ricreando luoghi ed occasioni di incontro dove si vive la ricerca di Dio, sollecitando un cammino di conversione dal “sacro” al “santo”, offrendo una immagine di sé che visibilizzi il secondo piuttosto del primo. La spiritualità non si coglie per se stessi, ma la si capisce nella misura in cui si fa la fatica di radicarla in un dato ambiente, in un dato tempo. Nel caso non fosse trasmissibile non sarebbe un’autentica spiritualità.

La vita consacrata non è la destinataria ultima di una data spiritualità ma è il tramite verso la Chiesa ed il mondo. E’ urgente allora la promozione di una spiritualità che sappia stabilire un rapporto tra la vita consacrata e quei laici che sono attratti dallo stesso carisma. I consacrati non sono “la Chiesa” ma parte costitutiva di essa. La vita religiosa va allora “impastata” (lievito) con le altre vocazioni che formano la Chiesa a partire dalla consapevolezza che non si può essere Chiesa se non vivendo immersi in una chiesa. I consacrati non devono pensarsi (come spesso accadeva nel passato) al cuore della Chiesa universale e ai margini della chiesa locale, ma in quella attraverso questa. E non basta per essere in una chiesa lavorare per essa, bisogna vivere di essa.

Se, come ha detto il papa nella Novo millennio_ineunte, non basta “parlare” di Cristo, bisogna anche “farlo vedere”, allora è giusto chiederci, precisa don Aldegani, “che cosa può o deve dire la nostra vita al mondo d’oggi”. Anzitutto deve saper testimoniare il fatto che Dio è l’Assoluto, che Dio è al primo posto nella vita di ogni uomo e di ogni donna. Dobbiamo saper testimoniare con la nostra vita che scegliendo Cristo s’incontra la felicità e la piena autorealizzazione in una radicale esperienza di comunione. I consacrati, come testimoni di speranza, devono saper dire al mondo che “Dio ci viene incontro dal futuro”, che il tempo che passa non è il consumo o la perdita di tutto, ma l’attesa paziente e laboriosa del Regno che viene. “La vita religiosa, ha scritto Enzo Bianchi, è chiamata a far vedere che la fine del mondo non è da intendersi come scacco di questa creazione, ma come trasfigurazione voluta da Dio per l’universo e per la nostra vita”.

 

NUOVA VISIONE

DEL MONDO

 

In un’assemblea finalizzata a individuare dei nuovi percorsi e dei nuovi linguaggi per comunicare, anche a livello di vita consacrata, il vangelo in un mondo che cambia, le riflessioni di Carlo Molari sono state per certi versi le più pertinenti; con la sua risaputa lucidità, in un’ampia carrellata, ha fatto scorrere davanti all’uditorio le più significative novità che non solo nel mondo scientifico e culturale ma anche in quello della vita spirituale non possono essere impunemente trascurate, pena il calo di credibilità di ogni testimonianza cristiana e religiosa. Purtroppo Molari si è fermato proprio su questa soglia, non addentrandosi più di tanto ma demandando agli esperti del settore il compito di trarne tutte le dovute conseguenze.

Oggi, ha esordito, disponiamo di tutti gli strumenti necessari per investigare l’interiorità dell’uomo e il profondo cambiamento culturale che si è realizzato con il passaggio da una visione statica della realtà ad una visione dinamica ed evolutiva. Anche il problema_della comunicabilità dell’esperienza spirituale oggi è molto facilitato per la ricchezza della terminologia relativa all’interiorità che le scienze umane hanno creato in questi ultimi secoli. Oggi siamo più attrezzati per investigare e comunicare esperienze spirituali, ma anche più consapevoli della limitatezza di tutti gli strumenti simbolici, iconici, rituali, musicali, architettonici che utilizziamo; orizzonte culturale in continuo movimento.

La visione del mondo oggi è cambiata. Nell’ambito scientifico l’evoluzionismo biologico non è più solamente un’ipotesi ma una teoria scientifica fondata su indizi seri. Anche l’universo è descritto dalla fisica in maniera completamente diversa, rispetto al passato;_esso appare il risultato di interazioni dinamiche tra campi di energia, di cui la materia non è che un_aspetto, che sorgono come perturbazioni di un unico campo fondamentale, o come tensioni nello spazio. Mai come oggi siamo riusciti a renderci conto della complessità raggiunta dal cervello umano; con i suoi cento miliardi di cellule consente alla forza creatrice di esprimersi in forme inedite di coscienza e di riflessione. La coscienza stessa poggia sulla complessità biologica e psichica del soggetto; nello stesso tempo, però, rende tutto il soggetto trasparente e semplice, cioè senza pieghe; dalla molteplicità disordinata dell’inizio siamo arrivati oggi alla semplicità della fine. Anche la complessità dello sviluppo cosmico è oggi accompagnata da una chiarezza interiore che attraverso l’umanità rende l’universo aperto alle nuove manifestazioni della coscienza.

 

NUOVI ORIZZONTI

PER LA FEDE

 

La visione del mondo che consegue a tutte queste acquisizioni, ha detto Molari, “conferisce orizzonti inediti a tutte le formule della fede e modifica alla radice tutti i loro significati”. Il secolo XX ha rappresentato un lungo percorso che ha capovolto completamente la comprensione del linguaggio umano. Siamo passati da una concezione meramente rappresentativa e strumentale, ad una prospettiva globale in cui il linguaggio appare evento totale dell’esistenza dell’uomo. Per cui il linguaggio può essere definito “la mediazione che consente all’uomo di abitare il mondo, e al credente di abitare la fede”.

La comunità ecclesiale si è così trovata nella necessità di “rivedere l’impostazione della sua attività dottrinale e pastorale”. L’annuncio del vangelo (kerigma), la catechesi (insegnamento della dottrina), la teologia (riflessione sistematica sull’esperienza di fede che alimenta l’uno e l’altra), si fondavano sulla funzione speculare delle parole e sulla convinzione della loro stabilità. Anche l’uso della Scrittura sacra e il richiamo alle formule tradizionali poggiavano su queste convinzioni. La rivelazione poteva essere identificata con i messaggi contenuti nei racconti degli eventi salvifici e con i significati delle formule che ne esprimevano l’interpretazione antica.

La consapevolezza invece delle nuove prospettive ha rafforzato la coscienza storica che caratterizzava già la modernità e ha richiesto “un nuovo approccio all’uso del linguaggio nella vita della fede”. L’emergere di una coscienza storica ha provocato una rivoluzione all’interno del pensiero teologico. La visione scientifica del mondo “ha mandato in frantumi l’antica concezione cristiana della realtà, mettendo in questione l’orizzonte all’interno del quale venivano solitamente intesi i testi biblici”.

Le conseguenze non si sono fatte attendere. Anzitutto è apparsa l’importanza di una comunità entro la quale le formule espressive dell’esperienza di fede acquisiscono e sviluppano i loro significati. Inoltre si è imposta l’esigenza di individuare nuovi criteri per fissare l’esattezza della dottrina di fede. Infine è stato necessario concepire e impostare diversamente la missione evangelizzatrice sia presso i popoli da tempo cristiani, sia presso quelli che solo da poco tempo conoscono il vangelo di Cristo.

Ora l’impegno principale dei pastori, ha detto Molari, “consiste nel creare ambiti di esperienza salvifica che consentano di far fiorire all’interno di una cultura le parole nuove della fede, vere nei loro significati ed efficaci per la comunicazione”. Come la novità dell’esperienza delle prime comunità cristiane portò a una “esplosione linguistica” sia nel genere che nello stile, analogamente una nuova esplosione linguistica dovrebbe realizzarsi “ogni volta che il vangelo viene vissuto in un contesto culturale nuovo, sia per i cambiamenti verificatisi che per l’inedito incontro con il vangelo”.

 

COME COMUNICARE

OGGI LO SPIRITUALE?

 

In un contesto di continui cambiamenti si pone inevitabilmente la domanda di come comunicare oggi, in maniera più credibile ed efficace, anche lo spirituale. “Occorre subito precisare che comunicare un’esperienza spirituale non può consistere nella semplice trasmissione di informazioni”; oggi non è possibile prescindere da un “coinvolgimento personale che induce vita e sollecita comunione”.

Analogamente allora, “comunicare una fede non consiste nella pura ripetizione di formule, bensì nel coinvolgimento di persone in una esperienza che introduce a conoscenze inedite”. La vita spirituale e l’esperienza di fede “sono attività complesse che non possono essere vissute e trasmesse con un linguaggio esclusivamente razionale”. La loro comunicazione chiama in causa necessariamente “la funzione della Parola, l’efficacia dei rituali, il messaggio delle immagini, il coinvolgimento della musica, il fascino degli ambienti e delle costruzioni”. Il linguaggio inserito nel processo di comunicazione dello spirituale, per favorire una vera conoscenza, “deve essere in grado di utilizzare tutti i registri del simbolismo umano”.

La missione della Chiesa, in quanto comunicazione della fede, non può essere perciò ridotta al semplice insegnamento delle dottrine di fede, sorte lungo i secoli, o alla spiegazione dei catechismi; essa esige “la messa in azione delle dinamiche che, per sintonia vitale, inducono quella risonanza interiore che muove alla fiducia in Dio per scelte coerenti di vita. Tutta l’attività pastorale della Chiesa deve essere animata da questa tensione comunicativa”.

Il nucleo centrale dell’esperienza spirituale, ha detto Molari, “consiste nel percepire di essere parte di un’avventura più grande, inseriti in una storia vitale molto più ricca e densa, avvolti da una energia immensa”. La santità cristiana “non è caratterizzata da una percezione morale, bensì dall’atteggiamento teologale; non ha quindi come riferimento la legge, bensì la venuta del Regno o il compimento della volontà di Dio”. Concretamente la spiritualità cristiana sta allora tutta qui: nel verificare il valore della fede vissuta da Gesù, nel testimoniare 1’autenticità delle speranze da lui suscitate, nel diffondere lo stile di amore da lui introdotto, nello scoprire, cioè, nella vita la presenza di Dio da Lui rivelato. “L’esperienza di Gesù, infatti, è stata completamente centrata in Dio, per questo la spiritualità cristiana o è teologale o non esiste affatto”.

Le tre virtù teologali stesse, fede-speranza-carità, sono l’espressione di un unico atteggiamento, che è il fiducioso abbandono in Dio esercitato in tutte le situazioni dell’esistenza, cioè nello svolgersi del tempo. “Abbandonarsi a Dio significa ascoltare la sua parola e accogliere la sua azione nello spazio/tempo della nostra vita, implica quindi la sua modulazione secondo le tre dimensioni del tempo: il passato, il presente e il futuro, a cui appunto corrispondono la fede, la carità e la speranza”.

Non è difficile comprendere allora che l’unzione battesimale è quella “fondamentale consacrazione” per cui il cristiano diventa tempio dello Spirito; in forza di questa consacrazione ogni cristiano è chiamato a vivere centrato su Dio, ad offrire cioè il proprio corpo come ambito dell’azione divina: “offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, questo è il vostro culto spirituale” (Rom 12,2). In tale modo egli cresce come figlio di Dio fino ad acquisire in forma definitiva la propria identità filiale, “il nome scritto nei cieli” (Lc 10,20).

Giunto a questo punto, era aperta la strada al relatore per un affondo (di tutte queste considerazioni) nel contesto della vita consacrata. Qui veramente si sarebbero potuti elaborare reali e non solo ipotetici nuovi percorsi e nuovi linguaggi. L’input comunque Molari l’ha lanciato, quando ha concluso dicendo che “la consacrazione attraverso i voti è una modalità concreta per vivere in modo teologale, attraverso l’obbedienza della fede, la povertà e il distacco di chi attende solo Dio (speranza), la gestione della sessualità tale da pervenire all’amore oblativo, rivelazione dell’amore di Dio (agàpe)”. Anche in tutti gli ambiti della vita consacrata è vero il fatto che l’esistenza dei figli di Dio “è il modo più efficace e concreto di dire lo spirituale”; non sono mai semplici formule verbali, né solo testimonianze o gesti esemplari; è piuttosto il modo concreto “di rendere efficace la Parola creatrice nella storia umana, di fare risuonare il “dire eterno” di Dio nel divenire delle creature”.

 

CENTRALITÀ

DELL’EUCARISTIA

 

Più volte, nel corso dei lavori dell’assemblea, né poteva essere diversamente!, si è ritornati sulla centralità della celebrazione eucaristica non solo nella vita del cristiano, ma anche e soprattutto nella vita consacrata. Il referente più autorevole al riguardo è stato sicuramente Andrea Grillo; aprendo il suo discorso “con tutta la libertà necessaria”, ha ribadito l’urgenza di “spoliticizzare” e “deprivatizzare” la religione, e cioè la spiritualità, la devozione, la preghiera, ecc., “facendola uscire da quel “ghetto” in cui, nello stesso tempo, la cultura secolare e la teologia tendono a relegarla”; solo in questo modo, proprio attraverso la “mediazione cultuale”, si potrebbe cogliere da una parte la “rilevanza quotidiana dello spirituale” e dall’altra la “rilevanza spirituale del quotidiano”.

Un approccio sub specie sacramenti, secondo il relatore, non è solo una delle fondamentali caratteristiche della vita consacrata, ma potrebbe essere oggi una risposta, più esattamente un “controcanto” da intonare con convinzione da quanti, sollecitati dalle questioni aperte, sono alla ricerca di una soluzione più adeguata e di una testimonianza più significativa di questa scelta di vita.

Non ci può essere autentica spiritualità senza una priorità su tutte, e cioè il “considerare nel loro “ordine naturale” i sacramenti che fondano la Chiesa stessa, ossia i sacramenti della iniziazione cristiana”. Oggi viviamo una situazione paradossale, derivante dalla “asincronia” con cui si è voluta rivedere la prassi di iniziazione all’eucaristia rispetto alla iniziazione alla cresima; e questa situazione si prolungherà almeno fino a quando non maturerà in tutti la coscienza che “non è possibile una vera “spiritualità” finché i percorsi ordinari di iniziazione di pressoché tutti i cristiani contraddicono la centralità definitiva dell’eucaristia, ponendo al culmine della iniziazione quel sacramento della cresima che, pur con tutta la sua importanza, resta sacramento intermedio e di passaggio, che garantisce il primo approdo alla esperienza della comunione eucaristica nella diocesi/parrocchia di appartenenza”.

La celebrazione eucaristica deve ritrovare una nuova forma di centralità; va decisamente superato sia il suo profilo obbligatorio (spesso come “ultimo” dei doveri rimasti in capo al cristiani), e sia il fatto di essere diventata ormai la celebrazione “buona per ogni momento”; la centralità dell’eucaristia deriva piuttosto dalla “sua qualità di relazione gratuita e comunitaria con il Signore Gesù, come Parola e altare, come sposo e come sacerdote, come maestro e come vittima”; non è possibile un riferimento vitale all’eucaristia senza una “graduale presa di distanza da forme di devozione eucaristica che, pur avendo meritevolmente rimediato ad una difficoltà secolare della chiesa nel mediare l’esperienza plenaria della eucaristia, oggi ne frenano gravemente una comprensione più profonda, chiudendola all’interno di prospettive eccessivamente individualistiche, intimistiche o giuridiche”. Una spiritualità che voglia essere veramente eucaristica “deve fare coraggiosamente i conti con questa deriva devozionale del rapporto con l’eucaristia che spesso ne ostacola la profonda esperienza sia da parte del clero, sia da parte dei battezzati della diocesi e della parrocchia”.

Il momento eucaristico comunitario potrà diventare veramente culmen et fons di tutta la azione liturgica della Chiesa solo però “se non assorbe tutta la esperienza di celebrazione ecclesiale”. La spiritualità, infatti, viene incrementata da ciò che è “meno che eucaristia”, proprio al fine di poter sperimentare il “di più” della eucaristia; nel tentativo di esplicitare ulteriormente il suo discorso, Andrea Grillo ha aggiunto che “come non c’è vetta senza monte e non c’è fonte senza fiume, cosi non c’è eucaristia “culmine e fonte” senza la preghiera rituale della Chiesa”. Ma questo non è possibile senza la riscoperta del “corpo che prega nel tempo” mediante una adeguata frequentazione della liturgia delle ore. Molte occasioni che oggi vengono troppo affrettatamente “occupate” da una celebrazione eucaristica, potrebbero e dovrebbero più opportunamente essere pensate come “momenti del pregare ecclesiale nel tempo”.

Senza voler dar vita a “macchine orarie di preghiera”, basta “valorizzare un registro nascosto e efficace – ma spesso solo presbiterale e solo individuale – del pregare ecclesiale, nel quale preoccuparsi di curare più la forma che non la completezza o la regolarità”; solo in questo modo sarà possibile far gustare alle comunità ecclesiali la sapienza e la grazia delle “ore di preghiera”, favorendo nello stesso tempo “una fede matura e ricca, capace poi di trovare nella espressione eucaristica tutti i tesori di cui essa abbonda”. Far incrociare proprio qui l’esperienza presbiterale con quella laicale “è una risorsa davvero grande, e nella quale la tradizione è scarsa e spesso si è interrotta da molti decenni”.

 

SALUTARI

PROVOCAZIONI

 

Alcuni interrogativi e alcune problematiche emerse nel corso dell’assemblea, sono stati opportunamente ripresi anche dal segretario generale della Cism, p. Fidenzio Volpi; è il caso, ad esempio, dei temi relativi alla “rifondazione” di un istituto religioso e alla riscoperta di una propria spiritualità, secondo gli ideali che la animano, le ragioni che la ispirano, i riferimenti storici che la informano. Tutta la storia della spiritualità sta ad insegnarci che “tradizioni di vita regolare” si sono susseguite nei secoli come risposta alle diverse esigenze religiose e alle specifiche situazioni culturali. Semmai, oggi, ci dovremmo chiedere se le diverse tradizioni spirituali derivate dalle istituzioni di “vita regolare” “facciano ancora scuola”.

Consapevole di “sollevare problematiche difficili e anche un po’ scomode”, padre Volpi ha aggiunto che oggi risulterebbe particolarmente ardua anche una semplice verifica dell’influsso della spiritualità propria nella testimonianza ecclesiale dei consacrati. Se le cosiddette spiritualità proprie rischiano di esaurire, all’interno dei nostri Istituti, la loro forza di propositività, allora “non rimane che interrogarsi sul senso di un’esperienza spirituale propria ad una tradizione carismatica”; allora dovremmo seriamente interrogarci sul come rendere nuovamente significativa questa stessa esperienza in un linguaggio comprensibile e attuale che ne comunichi i contenuti. Le nuove generazioni, non illudiamoci, “provengono da situazioni sociali e formative diametralmente opposte”; al di là dell’impatto forse più emotivo che di esperienza spirituale di ben note figure di fondatori, “il nostro modo di dire rimane un codice incomprensibile, chiuso”; occorre spesso tutto l’intero percorso formativo, e cioè un periodo di almeno sette­-otto anni, “perché il mondo spirituale della vita consacrata cominci ad assumere senso”; sempre ammesso però che, nell’iter formativo, “la spiritualità propria non risulti marginale o sia ripresentata in stereotipi di convenienza”.

Da una recente indagine della Cism, effettuata su un campione di giovani religiosi e religiose in formazione, risulta che la scoperta del carisma non solo è “successiva” alla conoscenza dell’Istituto, ma anche che “quest’ultima non è un fattore decisivo per la scelta”. Fa una certa impressione, scrive il sociologo A. Castegnaro, constatare quanti sono coloro i quali sostengono “di non aver conosciuto molto dell’istituto fino al momento in cui sono entrati”; si conosce molto poco dei suoi tratti specifici, della sua diversa configurazione rispetto ad altri istituti.

Se questo è vero, allora sorge spontanea una domanda: la spiritualità del proprio istituto fino a che punto incide nella vita spirituale del singolo? Se la visibilità di un istituto, si chiede padre Volpi, è scarsa, “che senso ha proporre ad altri quello che convince poco noi?”. Non mancano religiosi, più di quanto forse non sembri, che “hanno l’onestà di affermare che il proprium della spiritualità dell’Istituto non dice più niente da anni”, e proprio per questo i riferimenti, i percorsi, “quando ci sono”, li si cercano altrove.

Quante volte si parla oggi di recupero del carisma di fondazione; ma anche qui una inevitabile provocazione: questo recupero “ci ha realmente restituito il senso e l’esperienza di una spiritualità condivisa o è servito ad ammucchiare sugli scaffali delle nostre stanze o delle nostre biblioteche monografie apprezzate perché non lette?”. Certo, le nostre istituzioni nascono anche per condividere un’esperienza spirituale, ma “se questa trasmigra altrove nei suoi referenti e come risposta alla domanda di senso di una scelta di vita per il Signore, allora sono altri gli interrogativi che dobbiamo affrontare”; è la nostra cultura stessa a metterci spesso in questione. La cultura attuale infatti non è di sicuro favorevole ai nostri “mondi spirituali”, e così “il nostro patrimonio spirituale rischia di rimanere nel circuito chiuso del nostro mondo”.

Non basta riesumare il patrimonio storico delle nostre spiritualità, un patrimonio legato a certe categorie culturali ormai datate. Proprio per questo si dovrebbe avere il coraggio di riaffermare che “la profezia dei religiosi non la si vive solo sulle nuove frontiere della carità, dell’evangelizzazione – quasi che quest’ultime ci acquietino la coscienza – ma sul bisogno di promuovere, all’interno della vita consacrata, un rinnovato impegno culturale che consenta il dialogo fra mentalità contemporanea e fede, per favorire un’evangelizzazione della cultura intesa come servizio alla verità”; o questo servizio alla verità – attraverso il patrimonio storico delle spiritualità proprie – diventa una possibile occasione di futuro delle medesime, diversamente “coltiveremo come in serra un prodotto per un nostro uso esclusivo”.

Perché allora non focalizzare l’attenzione su una comune “strategia ecclesiale”? Perché non pensare a centri di spiritualità gestiti da religiosi in grado fornire una proposta e una cultura alternativa a quella che contraddistingue in senso negativo tanta parte della cultura contemporanea?

Perché, valorizzando la ricchezza del proprio patrimonio spirituale, gli istituti religiosi non elaborano tutte le strategie necessarie a colmare il vuoto, culturale e spirituale, della nostra società?

Anche qui, ha concluso il relatore, si tratta solo di ipotesi di lavoro; ma è certo che una spiritualità di comunione la si genera anche mediante una “intelligente valorizzazione delle risorse intellettuali e spirituali di una famiglia religiosa. Si tratta di un investimento per e nella comunione ecclesiale”.

 

ALCUNE

CONCLUSIONI

 

Se “ripartire da Cristo” è oggi qualcosa di più di un semplice slogan nella vita cristiana e in quella consacrata in particolare, allora cosa può significare se non prendere sul serio la Parola e vivere l’eucaristia come un qualcosa che ci trasforma interiormente e ci mette costantemente in questione? Se non si può ripartire da Cristo senza anche insieme annunciare Cristo, anche l’evangelizzazione allora diventa una componente irrinunciabile nella vita consacrata, in una fedeltà creativa sia alla luce del vangelo che ai propri carismi di fondazione.

Anche in futuro, come in passato, sarà però difficile operare scelte coraggiose di evangelizzazione e di cambiamento senza una adeguata spiritualità di comunione, senza provocare, con il dialogo della carità, il mondo di oggi e testimoniare operativamente come sia possibile armonizzare le diversità. La spiritualità di comunione, a sua volta, sarebbe un’utopia senza un attento e costante ascolto della parola di Dio, senza la riscoperta dell’eucaristia come fondamento della identità e della missione di una comunità religiosa. Anche in futuro, tra gli ambiti privilegiati di questa missione dovranno sempre più trovare spazio i poveri, tutte le nuove povertà e quanti sono oggi in ricerca, anche se inconsapevole, di Cristo come sorgente di verità e di libertà.

Una spiritualità di comunione comporta ancora una conoscenza e una collaborazione non solo verbale ma operativa e concreta fra istituti, movimenti ecclesiali e tutte le nuove forme di vita consacrata, in un atteggiamento di piena reciprocità e complementarietà delle vocazioni. Senza questa collaborazione e questo impegno comune sarà sempre più difficile impegnarsi efficacemente nel campo culturale e sociale, dialogare con il mondo contemporaneo, conoscerne e comprenderne i linguaggi, suscitare e intercettare le domande di verità e di senso.

I nuovi percorsi e i nuovi linguaggi, proprio in vista di una più credibile testimonianza e di un annuncio più efficace del vangelo all’uomo di oggi, sono ancora in gran parte tutti da inventare, non solo nella vita consacrata ma anche in quella ecclesiale nel suo complesso. Per certi versi, la recente assemblea della Cism quanto mai promettente nei suoi programmi, è stata, almeno in parte, una occasione mancata. La strada intrapresa comunque è quella giusta. Non c’è che da insistere e continuare, nella ferma convinzione che anche tutti i nuovi linguaggi e i nuovi percorsi, nella vita consacrata come in tutta la Chiesa, dovranno lasciarsi ispirare e ripartire sempre da Cristo.

 

Angelo Arrighini

 

1 42ma Assemblea generale, Palermo, Isola delle femmine, 5-10 novembre 2002; tema generale dell’assemblea: “Nuovi percorsi e linguaggi per “comunicare il vangelo in un mondo che cambia””. Relatori: don Mario Aldegani, “La vita consacrata oggi ha bisogno soprattutto di un rilancio spirituale”, don Carlo Molari, “Il linguaggio e la comunicabilità dello spirituale oggi”, Andrea Grillo, “Lucidità nella lettura culturale e coraggio nella esperienza sacramentale”, don Pierangelo Sequeri, “Spiritualità cristiana e spiritualità proprie: domande di senso del nostro tempo?”, p. Fidenzio Volpi, “Alcuni interrogativi”.