LA CHIESA NEL LAOS

 

CONTRO_OGNI SPERANZA

 

Il 5 luglio scorso il governo del Laos ha reso pubblico un decreto intitolato Sul controllo e la protezione delle attività religiose che non ha mancato di suscitare perplessità negli ambienti cattolici e presso gli altri osservatori religiosi, soprattutto per l’eventuale applicazione che ne potrà essere fatta dall’amministrazione. L’emanazione è avvenuta – fatto forse non casuale – subito dopo una visita ufficiale effettuata dai responsabili dell’ufficio vietnamita degli affari religiosi.

Pur non trattandosi di un decreto antireligioso, a suscitare interrogativi sono soprattutto i due termini impiegati nel titolo, controllo e protezione. Si teme infatti che a stare maggiormente a cuore agli autori del testo sia soprattutto il controllo. In effetti il controllo che l’amministrazione vuole stabilire sulle religioni è molto dettagliato: va dalle strutture delle organizzazioni religiose alla costruzione degli edifici, la formazione dei quadri, le relazioni con le organizzazioni straniere, le elargizioni ricevute dall’estero, le condizioni di appartenenza individuale e l’eventuale stampa di libri o materiale religioso. In altre parole un controllo che riguarda tutte le attività e la vita quotidiana delle organizzazioni religiose.

 

Il decreto stabilisce anche quale deve essere il ruolo delle religioni nella società laotiana: “L’unico scopo delle attività di una religione nella repubblica democratica del Laos non può essere che di appoggiare e servire lo sviluppo del paese”. La politica religiosa laotiana in effetti si colloca deliberatamente sulla linea delle politiche religiose della Cina e del Vietnam che subordinano le religioni agli obiettivi definiti dallo stato.

“È chiaro, scrive la rivista Eglises d’Asie (16 sett. 2002), che il governo cerca di controllare al meglio i gruppi cristiani di protestanti evangelici; questi ultimi si sono molto sviluppati nel corso degli ultimi anni, e alcuni intrattengono stretti rapporti con le organizzazioni americane”. Per quanto riguarda i cattolici, dopo la promulgazione del nuovo decreto, i vescovi restano prudentemente in attesa di vedere quali saranno le modalità nuove messe in atto.

 

Il Laos ha una superficie di 236,800 kmq e una popolazione che supera di poco i quattro milioni e mezzo. Dal punto di vista religioso il 58% è costituito da buddisti, il 34% da animisti, mentre i cristiani sono appena il 2% e ancor meno i musulmani, che non vanno oltre l’1%.

Ex colonia francese, il paese è governato dal 1975 dal partito rivoluzionario popolare comunista, il quale una volta abbattuta la monarchia, ha instaurato nel paese un regime di tipo socialista. La costituzione approvata nel 1991 è formalmente di tipo parlamentare, ma in essa è ribadito il monopolio politico del partito rivoluzionario.

Ma qual è la situazione attuale della chiesa cattolica nel Laos? La domanda è stata rivolta al vescovo Jean Khamsé Vithavong, OMI, vicario apostolico di Vientiane, dall’agenzia Ucanews nel corso di un’intervista diffusa il 13 novembre scorso.

“Non c’è niente di realmente nuovo, ha risposto il vescovo, nella chiesa cattolica del Laos. Il ritmo della sua crescita si può a mala pena percepire. I cattolici continuano a riunirsi, a pregare e cantare sotto la guida di un “pizzico” di ministri del culto – tre vescovi, un amministratore apostolico e 13 preti e di un gruppo di catechisti più o meno ben preparati. Seguendo il ritmo delle nascite e delle morti in seno alla comunità cattolica, stimata a circa 35.000 anime, i cambiamenti avvengono in maniera naturale attraverso un umile rinnovamento spirituale in seno alla gioventù, tra i catechisti e le donne consacrate”.

Interrogato sulla portata del recente decreto governativo, il vescovo ha dichiarato che esso riflette sostanzialmente le posizioni già presenti in altri paesi socialisti. In realtà le norme erano già applicate da tempo, ma ora c’è almeno il vantaggio di avere un documento scritto a cui poter fare riferimento. “Il decreto, ha detto il vescovo, dà una risposta ai cristiani riguardo alla politica religiosa attuata dal governo da 25 anni, che consiste nel ridurre e concentrare l’espressione della fede cristiana ai suoi valori di base. Per esempio, la Chiesa nel Laos non può gestire scuole o dispensari, mentre questi costituiscono degli strumenti considerati da tutti come dei mezzi normali di evangelizzazione. In Laos le attività religiose non sono consentite che all’interno del perimetro delle chiese.

 

“Quello che cerchiamo di fare è di riunire le persone in piccoli gruppi. I gruppi sono organizzati per fasce di età: persone anziane, giovani, fanciulli, per le coppie e i catechisti. Si organizzano anche riunioni di condivisione della parola di Dio e per trattare delle difficoltà che si incontrano.

La domanda che ci si può porre a questo punto è la seguente: cosa c’è di particolare in tutto questo? La stessa cosa si fa in tante altre parti del mondo. Ma ciò che qui deve essere sottolineato è il fatto che la riunione di questi piccoli gruppi pur non avendo niente di speciale o di particolare, esprime tuttavia l’intensità di una vita di fede stimolata dalla situazione in cui noi viviamo”.

Per quanto riguarda la pratica religiosa, ha proseguito il vescovo, essa rimane stabile almeno sotto il profilo rituale e “ciò anche se numerose comunità non ricevono che raramente la visita di un prete, i cattolici continuano a riunirsi la domenica e nelle principali feste come Natale, Pasqua, l’Assunta e Ognissanti”. Se invece, ha sottolineato il vescovo cerchiamo di rispondere al “come” ossia all’aspetto qualitativo, allora bisogna porsi alcune domande: come è spiegata la fede? In che modo essa influisce sulla vita? Ha un’implicazione dal punto di vista del cambiamento sociale? Sono gli interrogativi, ha sottolineato il vescovo, che dovranno costituire la base dei nostri sforzi pastorali negli anni a venire. Ma come possiamo rispondervi? Penuria, scarsità, povertà: sono le parole che esprimono la realtà a cui dobbiamo far fronte ogni giorno in quanto Chiesa nel Laos. Una tale realtà ci rinvia agli Apostoli i quali rimanevano chiusi nel Cenacolo dopo la morte del Signore. Senza voler fare il “predicatore”, vorrei dire che lo Spirito Santo è la nostra unica speranza. Tuttavia, malgrado tutti i limiti che incontriamo, il contatto che manteniamo con i credenti delle altre religioni è sempre vivo. È un piccolo segno che la pratica della fede non è morta”.

 

È stato chiesto al vescovo come vede il futuro della Chiesa nel paese. “Umanamente parlando, ha risposto, abbiamo molto poca speranza. La mancanza di agenti e ministri pastorali si fa duramente sentire. I preti invecchiano. La formazione di quelli futuri è problematica per la mancanza di formatori qualificati e di accompagnatori spirituali. Ma la fede dei cristiani è ugualmente portatrice di speranza, e ciò incoraggia a essere cristiani, a vivere da cristiani, malgrado le difficoltà. L’avvenire sta qui. In quanto chiesa istituzionale, mancano anche le strutture di base. Solo una fede rinnovata in Cristo risorto e vivo può aiutare i credenti a riorganizzare la loro chiesa in maniera più adatta e partecipativa. Aspettiamo e vedremo!”.

Interrogato sul numero delle parrocchie del suo vicariato apostolico, il vescovo ha risposto: “Noi non abbiamo delle “parrocchie” secondo il modello delle chiese ben stabilite. Ci sono piuttosto delle comunità vive nelle località più o meno importanti. La più importante di queste riunisce sedici persone. Il vicariato conta anche quindici donne consacrate e circa un centinaio di catechisti laici che aiutano nel lavoro di evangelizzazione”.

E le difficoltà incontrate? “Sono il piccolo numero di operatori pastorali, la mancanza di persone ben formate nel campo del lavoro pastorale e dell’evangelizzazione, l’impossibilità di ottenere l’autorizzazione di far entrare missionari stranieri nel paese e la difficoltà di inviare operatori pastorali a formarsi all’estero. Tra le altre sfide c’è l’invecchiamento degli operatori pastorali e dei ministri del culto e la mancanza, da una ventina d’anni, di una formazione continua per gli attuali ministri. Ma, soprattutto, ci sono le restrizioni imposte dal regime”.