RILEGGENDO IL CAPITOLO DEI SALESIANI

 

UNA COMUNITÀ_PER IL NOSTRO TEMPO

 

Bisogna superare l’ingenua presunzione di poter cambiare le comunità producendo documenti. Se così fosse, avremmo già raggiunto l’obiettivo. Occorre piuttosto una forma di vita affascinante e attraente che dia il primato al profetico più che all’organizzativo, che privilegi le persone_più che le strutture.

 

Dopo tutto quanto è stato detto e scritto sul tema della comunità in questi anni sembra che non ci sia più niente da aggiungere. Ma se si considera che la comunità non è mai un progetto definitivamente compiuto, allora si comprende perché l’argomento continui a costituire una delle priorità nell’attuale riflessione .

Non è stata pertanto fatica sprecata quella dei salesiani che hanno posto proprio il tema della comunità al centro del loro 25° capitolo generale.1 Né ci sembra superflua la lettura che lo stesso rettor maggiore, don Pascual Chávez, ne ha fatto dopo la consegna del documento capitolare, intitolato La comunità del CG25: una comunità per il nostro tempo.

 

RISCHI

DA EVITARE

 

Scegliendo il tema della comunità, fin dall’inizio, già in sede di consiglio, sottolinea don Pascual, si è avuta la preoccupazione di evitare possibili rischi: il primo, quello che la congregazione si ripiegasse su se stessa, dopo essere sempre stata aperta ai laici. “Un primo rischio sarebbe stato di considerare la comunità soltanto da una prospettiva interna; concentrandosi sull’aspetto della fraternità, come se il problema più forte fosse stato quello dei rapporti interpersonali e della mancanza del loro approfondimento”. Di qui allora l’interrogativo: in che relazione porre vita comunitaria e vita fraterna?

“Ridurre il problema alla dialettica fraternità-vita comune, rileva don Pascual, mi sembra non sia mettere a fuoco il problema. Vita comune vuol dire abitare insieme, nella stessa casa e secondo le stesse norme. Per la vita comune è importante il radunarsi fisicamente. Quando invece si parla di vita fraterna si vuole sottolineare l’accoglienza delle persone, la possibilità di un vero affetto. La gioia di vivere e lavorare insieme, la partecipazione attiva di tutti alla vita del gruppo”. Ora, “se per la vita comune è importante lo stare insieme, per la vita fraterna l’importante è la profondità dei rapporti, l’aiuto e l’appoggio vicendevole, la valorizzazione e il ruolo attivo di ciascuno, la convergenza degli intenti, ecc.”.

La congregazione generale dei salesiani ha risolto il problema unendo insieme vita comune e vita fraterna: “Non si può insistere esclusivamente su uno solo dei due aspetti ponendoli in alternativa. Noi lo risolviamo con una sintesi: vita comune nella fraternità”. Pertanto, “non una pura comunione di spiriti, così da svalutare le manifestazioni della vita comune, né soltanto insistenza legale sulla vita comune ponendo in secondo ordine la fraternità”. Questo è stato quindi il primo rischio che si è cercato di evitare: la chiusura in se stessi.

Il secondo era quello dell’astrattezza, da cui aveva già messo in guardia il compianto don Vecchi il quale aveva detto: “Non vogliamo né dobbiamo ripetere una teologia già conosciuta”. Sfuggire all’astrattezza, ma senza cadere nel pragmatismo, sottolinea don Pascual, ossia andando subito all’operativo, senza produrre un pensiero che fosse alla base della riflessione sulla comunità”. Per superare questi rischi “si è considerata la situazione delle comunità e si è prodotto uno schema fatto di alcune tappe successive: partire dalla Parola, operare una verifica, analizzare la situazione delle varie comunità, conoscere i loro problemi, vivere la sintesi a cui vuole rispondere questo documento”.

Un terzo rischio era l’idealismo, nel senso che “c’è sempre il pericolo di parlare della comunità ideale”. Per evitare questo rischio si è fatto riferimento alla comunità degli Atti 4,2, cercando di descrivere le comunità così come sono, nella loro realtà, forza e fragilità. Quando si parla di ricuperare la vita comunitaria, sottolinea don Pascual, “non è un nostalgico rimando al passato, ma un invito alla fedeltà creativa, all’impegno di ciascun membro a essere corresponsabile nel creare la comunità che tutti desideriamo”. Così pure, “quando si parla di significatività, si indica quella personale che diventa impegno da profondere per arrivare al traguardo desiderato. Bisogna superare l’ingenua presunzione di poter cambiare le comunità producendo documenti. Se così fosse, avremmo già raggiunto l’obiettivo”.

 

LINEE

PORTANTI

 

Il capitolo dei salesiani, più che produrre un testo completo sulla comunità, si era proposto di mettere nelle mani un “testo utile” in cui fossero proposte alcune linee portanti a cui fare riferimento. La prima di queste linee è la flessibilità, nel senso che oggi, rispetto al passato, le situazioni di vita e di azione sono molto diverse così da “rendere impossibile un’unica definizione dell’organizzazione interna della comunità”. Le conclusione a cui era giunto il gruppo incaricato in seno al capitolo di riflettere su questo aspetto aveva concluso che non è possibile né intelligente creare un’organizzazione ideale da imporre a tutti. Basti per esempio pensare alle comunità missionarie o a quelle che gestiscono opere complesse. Per questa ragione “si è voluto offrire un quadro di riferimento tale che ciascuna comunità potesse attualizzare secondo la propria situazione e le proprie esigenze, garantendo quegli elementi che la rendono salesianamente stabile, umanamente ricca, concretamente formativa”.

Una seconda linea portante emersa è stata la concretezza, con una forte accentuazione dell’interdipendenza e della qualità delle relazioni personali. Il gruppo capitolare che ha lavorato su questo argomento ha insistito sulla “necessità di lavorare sempre con una mentalità di progetto, più che continuare a fare attività che non entrano in nessun progetto”. Inoltre ha insistito sul delicato rapporto tra opera salesiana e comunità religiosa e il bisogno di avere un progetto organico ispettoriale nel quale indicare mete, risorse esistenti e rimediabili, possibilità e tendenze, ecc. Naturalmente, commenta don Pascual, tenendo presenti alcune condizioni essenziali per giungere a conseguire gli obiettivi proposti, come la vita fraterna, la testimonianza evangelica, la presenza animatrice e l’animazione della formazione.

Una terza linea guida è la presenza. Il riferimento è a comunità in cui siano coinvolti anche i laici, e dove la comunità sia il nucleo animatore, il centro propulsore di spiritualità e di carisma. Inoltre, ed è un’ulteriore linea guida, la formazione, o meglio ha precisato don Pascual l’auto-formazione. In effetti, “si avverte che non è possibile portare avanti un nuovo modello pastorale, sostenere un nuovo corso delle cose, rispondere alle nuove sfide dei giovani, della Chiesa e del mondo, senza essersi spiritualmente rinnovati pedagogicamente aggiornati, professionalmente competenti. Questo vuol dire formazione per rinnovarsi spiritualmente e acquisire sempre più competenza pedagogica. Non si può prescindere dalla professionalizzazione del servizio che offriamo. Abbiamo bisogno di mantenerci in uno stato di auto-formazione e di formazione permanente”.

Il capitolo, a questo riguardo, ha voluto sottolineare la responsabilità del singolo religioso, il quale deve essere protagonista della propria formazione. Ciascuno, come ebbe a dire anni fa un altro rettore maggiore, ora scomparso, don Viganò, deve programmare la propria santificazione. Perciò, commenta don Pascual, “la responsabilità della propria santificazione è affidata al singolo confratello, il quale dovrebbe fare un progetto personale di vita, compito non derogabile. È un modo di prendere sul serio la propria vita spirituale, in confronto con la parola di Dio e con la più viva tradizione salesiana in piena comunione con gli altri membri della comunità che condividono gli stessi elementi portanti dello stesso programma di santità”.

Un altro aspetto che don Pascual aveva già ricordato nel discorso di chiusura del capitolo e che ora ripropone è l’attenzione alle componenti umane specie all’affettività. Durante i lavori capitolari, che tra l’altro si erano svolti nel momento in cui sui giornali era data ampia risonanza agli abusi sessuali perpetrati da parte di alcuni sacerdoti soprattutto del nordamerica, il problema era stato molto presente soprattutto quando si era parlato di formazione alla castità, di prevenzione, dell’uso dei mass media, dell’equilibrio tra attività e riposo, dell’attivismo che non solo stanca fisicamente, ma che rischia anche di svuotare lo spirito. Si era parlato di organizzazione armoniosa del lavoro comunitario e del clima di familiarità quali condizioni per colmare solitudini pericolose. “Ogni confratello, sottolinea don Pascual, deve costruire nelle comunità la maniera di rispondere alle attese profonde del cuore: quelle che si trovano nella comunione, nell’amicizia, nelle relazioni, nella naturalità di vivere la fraternità, nella serena condivisione di tutto”.

Come allora prevenire le evasioni? Don Pascual cita Bernanos il quale diceva che uno “non vive dove abita, ma dove è amato”. In realtà, prosegue il padre, “a volte nella comunità in cui viviamo non ci sentiamo amati, accolti. Si cercano allora evasioni. La comunità dove viviamo deve essere il luogo dove siamo amati”. Entra così in gioco di nuovo il problema della formazione. Il documento capitolare fa riferimento in particolare a quella umana, alla conoscenza di se stessi, all’autostima, allo sviluppo delle capacità relazionali, all’equilibrio affettivo, al lavorare in spirito di équipe”.

 

NOVITÀ

E PROPOSTE

 

Un capitolo, rileva don Pascual, non si misura soltanto dalle dichiarazioni ma dai processi che riesce a mettere in atto e che il consiglio generale dovrà poi tradurre attraverso l’opera di animazione. In questi dinamismi rientra, prima di tutto, il progetto personale “che dovrà comportare la verifica della maturazione umana, spirituale e salesiana, grazie ai processi di autoformazione”. In secondo luogo, il progetto di vita comunitaria, distinto da quello personale, “che dovrebbe valorizzare sempre più le strutture già esistenti, come il consiglio della casa, l’assemblea della comunità, la visita ispettoriale, ecc.”.

Un altro dinamismo da suscitare è quello dell’apprendimento e della pratica della lectio divina e del discernimento spirituale, pratiche ormai consolidate nella storia della vita religiosa.

In definitiva, si domanda don Pascual, quale è stata la novità del capitolo? Ripercorrendo gli ultimi trent’anni della vita della Congregazione, egli ritiene che il cambiamento promosso non sia sempre stato lineare. La resistenza più forte non si è incontrata nel rinnovamento delle costituzioni o delle strutture di governo, ma nel “rinnovamento spirituale che comporta una profonda conversione interiore”. Ormai, sottolinea il padre,“abbiamo gli otri nuovi: una nuova evangelizzazione, una nuova educazione, un nuovo modello pastorale, una nuova formazione. Poco alla volta si è prodotto anche il vino nuovo: il nuovo evangelizzatore, il nuovo educatore, il nuovo soggetto pastorale, il nuovo salesiano… La novità proviene dalle situazioni, dai contesti, dai cambiamenti della realtà, dalla visione antropologica. Oggi la preoccupazione della vita religiosa in genere, e della congregazione in particolare, non può essere quella della sopravvivenza, bensì quella di creare una presenza significativa ed efficace. È questione di profezia”. Secondo le parole del compianto don Vecchi, “ciò comporta dare vita a una presenza che sollevi interrogativi, dia ragioni di speranza, convochi persone, susciti collaborazione, attivi una comunione sempre più feconda, per realizzare insieme un progetto di vita e di azione secondo il Vangelo. Don Pascual sottolinea: “Ciò che si vuole è una forma di vita affascinante e attraente che dia il primato al profetico più che all’organizzativo, che privilegi le persone più che le strutture. Parafrasando Karl Rahner nel suo testamento spirituale, possiamo dire che il futuro della vita religiosa passa attraverso la sua forza mistica, la sua salda esperienza e trasparente testimonianza di Dio, il superamento di ogni forma di imborghesimento, atonia e mediocrità. La vita religiosa è sorta e ha senso solo come segno della ricerca e del primato di Dio. La sua missione è quella di essere “segni e portatori dell’amore di Dio”, specialmente in favore dei più bisognosi, perché essi possano fare l’esperienza che Dio esiste e li ama”.

Riferendosi al tema della rifondazione in cui è fortemente avvertito il bisogno di “vino nuovi in otri nuovi”, e soprattutto alle immagini evangeliche del sale e della luce, don Pascual ha concluso: “Semplicemente bisogna “essere” per avere significato e rilevanza; ma se il sale perde il suo sapore, o se si mette la luce sotto il moggio, o se il lievito non ha forza per fermentare, non servono a nulla. Hanno perso la ragione del loro “essere”. La forza della vita religiosa si radica nel suo carattere profetico nei confronti della cultura… ciò che ci caratterizza e ci manifesta è una forte esperienza di Dio, che cambi profondamente la nostra vita, e una comunità in cui si cominci a vivere con novità di vita”.

 

A.D.

 

1 Il capitolo è stato tenuto a Roma, dal 24 febbraio al 30 aprile 2002. Per una sintesi dei lavori cf. Testimoni n. 12, 30 giugno 2002, 9-11.