L’ASCOLTO NELLA PROSPETTIVA PSICOLOGICA

 

ALLE SOGLIE_DEL MISTERO

 

La psicologia offre numerosi spunti per afferrare il senso essenziale dell’ascolto. L’apporto di questa scienza permette ampie applicazioni al contesto della vita consacrata e della pastorale.

 

Oggi la psicoterapia, anche se non ovunque o da parte di tutti, sta mettendo sempre più al centro la persona e la sua storia. Anche in campo psicologico si fa pressante l’esigenza d’un ascolto qualitativamente più attento e rispettoso dell’individualità dell’altro e del suo mistero.

Questo ascolto consente di penetrare dentro l’animo umano per vie sempre nuove, conducendo l’altro davvero alle soglie del mistero del suo io e dunque consentendo di conoscerlo meglio… Ma la cosa inedita è la scoperta che tale ascolto consente anche di conoscere meglio se stessi: per quanto questa conoscenza può esser favorita, provocata e arricchita dal confronto con l’altro e da quanto emerge in questa relazione, è un ascolto attraverso il quale l’altro ci istruisce.

Vediamo allora le condizioni di questo processo di ascolto.

 

Non si dà ascolto senza relazione

 

Anzitutto va precisata la visione antropologica entro cui nasce e ha valore la disposizione all’ascolto.

L’ascolto fa parte d’una precisa visione antropologica in cui l’uomo è soprattutto relazione e può esser compreso entro una rete di relazioni, mentre la relazione stessa è vista, da un profilo psicologico, il luogo non solo della manifestazione ma della crescita dell’io e del tu. L’uomo, in questa prospettiva, ha bisogno di qualcuno/Qualcuno che stia con lui e parli con lui. La sua celebrata ragione è sempre e solo una ragione che risponde a un appello. Nel silenzio relazionale l’uomo rischia di sfiorire come pianta senza luce, mentre nella relazione e attraverso essa accede alle soglie del mistero. L’ascolto di una parola, in tale concezione relazionale, viene a svolgere una funzione evidente di mediazione, di contatto tra l’io e il tu, che può giungere a una più o meno intensa comunione interpersonale.

Se relazione e concezione relazionale rappresentano la condizione di base dell’ascolto, la riflessione psicologica ci consente d’intravedere altre conseguenti condizioni che lo rendono possibile. Le raggruppiamo sotto quella che potremmo considerare la caratteristica fondamentale di chi vive l’ascolto nella relazione: l’homo ob-audiens.

Ob-audiens è l’uomo che ha smarrito la strada e porta una mano all’orecchio per captare tra le miriadi di onde sonore una voce, un rumore, un cenno di vita che potrebbero indicargli la direzione giusta. È colui che vive l’ascolto intendendolo come la condizione per orientarsi correttamente nell’esistenza, lungo la via della relazione.

Ecco alcune peculiarità di questo atteggiamento:

– è libero e capace d’ascolto ob-audiens solo chi ha imparato a entrare in rapporto con la diversità, con l’altro-da-sé, resistendo alla tentazione, particolarmente evidente oggi, di omologare l’altro a sé, di entrare in rapporto solo con chi gli è simile o accetta di diventarlo. E con questa diversità è in grado di stabilire un rapporto fecondo, con tutto il carico di sfida e fatica che questo comporta;

– sa di non conoscere il mistero dell’altro, ma sa soprattutto che in ogni caso sarà qualcosa di inedito per lui, qualcosa che lui non ha e che lo potrà arricchire. In un parola stima l’altro con la sua diversità, una stima che è davvero conditio sine qua non per l’ascolto effettivo. Stima come apprezzamento dell’amabilità oggettiva dell’altro (a prescindere dai suoi comportamenti), come dono e carità dello spirito verso il tu; non si ascolta colui verso il quale non si ha stima, in cui non si riconosce il mistero d’una identità che in ogni caso è unica–singola–irripetibile e dunque meritevole comunque di attenzione;

– e se di mistero si tratta chi vuol davvero ascoltare sa di non sapere, è libero da pregiudizi, non pretende imporre all’altro schemi preconcetti che finiscono per annullare la singolarità indicibile del tu, e dunque carica d’importanza la situazione dialogica, e si porrà con estrema attenzione e delicatezza ad ascoltare tutto dell’altro, non solo la parola, e ogni altro, non solo quelli del suo giro;

– chi fa così è davvero ob-audiens, poiché l’ascolto è sempre orientato verso l’obbedienza conseguente, se non vuole rischiare insignificanza e finzione. L’ascolto autentico nasce dalla serietà con cui si prende la parola altrui; la mano all’orecchio dell’homo ob-audiens esprime l’attenzione a non perder una parola per lui significativa e, al tempo stesso, dice la disponibilità obbedienziale, il dovere e la necessità dell’ascolto. In costui l’ascolto è atteggiamento costante, non operazione estemporanea. Esprime una certa priorità attribuita all’altro nei propri confronti, o quella dignità che lo rende degno d’essere ascoltato per quello che l’altro è, e non per i propri interessi, ovvero l’ascolto vero è gratuito ed esprime un salutare decentramento;

– in qualche modo, addirittura, chi ascolta si sente responsabile dell’altro, sa che quell’irriducibile mistero è ora consegnato a lui, al suo fragile ascolto, o quanto meno agisce e ascolta come se in quel momento l’altro gli fosse affidato e il tu potesse emergere e affiorare nelle sue potenzialità solo grazie alla sua capacità di ascolto e accoglienza, e magari al di là di eventuali debolezze e rigidità. Ma al tempo stesso si sente anche bisognoso dell’altro, della sua presenza e parola, del suo esserci come quell’essere particolare, risorsa che l’arricchisce, ma pure sfida che lo provoca e domanda che interpella, e in ogni caso passaggio inevitabile, perché oggettivo, per la sua realizzazione, mediazione preziosa, sul piano umano e tanto più su quello credente, per un’autentica maturazione, al di là di illusioni soggettive e narcisismi autoreferenziali.

Queste condizioni, tornando alla visione antropologica di fondo (e alla concezione di filosofi come Buber, Lévinas…), consentono davvero alla relazione di divenire il luogo ove il tu chiama l’io, lo provoca e lo fa maturare, lo riconosce e lo fa crescere, e viceversa.

Alla luce di queste condizioni potremmo dire che l’ascolto è lo spazio dell’io abitabile dall’altro; ascoltare è offrirsi (mettendo a disposizione tempo, energie, cuore, comprensione…) come spazio in cui l’altro possa muoversi con libertà, sentirsi riconosciuto e accolto nella sua verità.

 

Dalla sincerità alla verità

 

Il chiarimento di queste condizioni mi sembra che collochi l’ascolto tra le operazioni più significative dell’essere umano, rendendolo al tempo stesso tappa importante e punto d’arrivo del processo maturativo del singolo e della specie. O ciò che lo rende homo sentiens, nel senso profondo del termine. Non in quello banale e superficiale, oggi di moda, che sta conducendo l’uomo verso un inquietante fenomeno di analfabetismo emotivo e sordomutismo intrapsichico.

Ormai consumato a tutte le esperienze, l’uomo d’oggi trangugia emozioni con un’avidità che rasenta la bulimia, inseguendole per ogni via di fuga (nel pensiero magico e irrazionale della New Age, nell’occultismo e nella magia, nel paranormale come nel culto esagerato del corpo e dell’immagine, nelle vibrazioni hard degli sport estremi…), nutrendo una sorta di culto dell’eccitazione, meglio se in gruppo, e non s’accorge in tal modo di diventare sempre più insensibile, o di esser condotto verso una povertà generalizzata di sentimenti, addirittura all’anestesia della sensibilità. Come fosse “in uno stato di permanente eccitazione. Si emoziona molto, ma non sa più sentire. È allo stesso tempo sovreccitato e insensibile”.1 E dunque sempre più incapace di riconoscere i suoi sentimenti, e ignorando le sue emozioni ignora “la porta d’ingresso nella profondità dell’io”,2 è sordomuto nei confronti di se stesso, o primitivo analfabeta che s’accontenta d’esser sincero, ovvero si ferma al livello del semplice riconoscimento dei suoi stati d’animo, li rileva e registra, magari li subisce e li gratifica, a volte addirittura li esibisce imponendoli agli altri (“oggi sono nervoso, non rompetemi…”, “quella persona mi è antipatica, dunque la evito”). Tanto meno questo essere primitivo può entrare in rapporto coi sentimenti altrui, col mondo interiore dell’altro: chi usa la clava non può entrare in empatia, non conosce le sfumature, non è attento o sensibile ai toni bassi, ai significati appena accennati, non ha il pudore dell’attesa e del rispetto, del silenzio e della discrezione, né il gusto della novità o la libertà di lasciare che l’altro sia libero di essere secondo la sua propria originalità, né l’intelligenza di capire che l’ascolto dell’altro può aprire la porta del proprio io, può consentire l’accesso al mistero del proprio io!

L’homo sentiens, osserva l’analisi psicologica, è anzitutto colui che ascolta se stesso, le sue emozioni, che ha recuperato la sua sensibilità mantenendola attenta e viva, capace di accogliere ciò che è vero-bello-buono in sé e attorno a sé, e dunque anche capace di ascolto dell’altro. Più in particolare ciò significa:

– allenarsi al pellegrinaggio dalla sincerità alla verità: l’homo sentiens non s’accontenta di riconoscere ed esprimere i suoi sentimenti, non si ferma alla sincerità, ma cerca di giungere alla verità di sé, e intraprende allora ogni giorno quel percorso interiore che gli consente di scoprire cosa c’è dietro quel sentimento, o quella valutazione morale, o quella reazione dinanzi all’altro, da dove viene, cosa sta a dire di lui... Viaggio non facile e da fare sempre, dinanzi a ogni reazione emotiva;

– conoscere le proprie distorsioni percettive: frutto di questo viaggio dovrebbe essere una migliore conoscenza di se stessi, con la scoperta il più possibile precisa di quel che c’è nel cuore, delle proprie inconsistenze, resistenze, difese, rigidità, precomprensioni, ben ricordando che nulla come la relazione con l’altro-da-sé favorisce la presa di coscienza dell’io, o nulla come la reazione all’altro (anche se controllata e nascosta dentro di sé) svela aspetti inediti e a volte sgraditi dell’io;

– praticare l’ascesi della sensibilità: ognuno ha la sensibilità che si merita. La sensibilità tipica e degna dell’uomo è quella che rende attenti e capaci di commozione dinanzi alla verità-bellezza-bontà presenti in ogni essere umano, in ogni parola, in ogni domanda, in ogni fatica e sofferenza senza pretendere di leggerla solo nella perfezione o nell’assenza di limiti o nella piena visione e manifestazione. Tutto ciò comporta una certa ascesi dei sensi, esterni e interni, e anche il coraggio di una certa selettività nel nutrimento dei sensi stessi: chi pretende vedere tutto, sentire tutto, sperimentare tutto, navigare dappertutto… farà solo una grande confusione interna e non essere sensibile alla bellezza;

– imparare la leggerezza: fa parte di questa ascesi l’esercizio a sentire in profondità l’altro, la morale dell’attenzione, quella “filosofia della dolcezza” (Lacroix) che consente di “lasciar essere l’essere”, di rispettare persone e cose, di rendere leggera la nostra presenza, non invadente e supponente, cattedratica e moraleggiante, per consentire all’altro di essere e dirsi, di sfogarsi e svelarsi, di benedire e maledire;

– rallentare i ritmi: è nella calma che si compie quel pellegrinaggio verso la verità, è nella lentezza che si elaborano le emozioni, quelle che penetrano nell’anima e la fanno espandere e ritrovare se stessa, è nel dare tempo all’altro che si esprime concretamente rispetto e considerazione per lui, è nella pazienza dell’ascolto che questi si sente libero d’esprimersi;

– congedarsi dagli scopi utilitaristici: l’ascolto è attività o atteggiamento gratuito, dunque è necessario per ascoltare e capire l’altro entrare nella sfera del disinteresse e della libertà da scopi soggettivi, da atteggiamenti strumentali dell’altro o difensivi nei suoi confronti. È proprio questa libertà che consente il ripristino della contemplazione come normale modalità relazionale, esprimente il massimo grado di libertà nel rapporto interpersonale;

– rinunciare alla potenza e al possesso per adottare, invece, un atteggiamento di disponibilità, soprattutto rinunciare alla pretesa del possesso della verità, perché chi ha questa pretesa non ascolterà più niente e nessuno, perché semplicemente non ne ha bisogno, e dimentica che non siamo noi a possedere la verità, ma semmai il contrario, e proprio in questo lasciarsi possedere c’è spazio per l’ascolto libero e liberante, ricco e arricchente dell’altro.

 

Amedeo Cencini

 

1 M. Lacroix, Il culto dell’emozione, Milano 2002.

2 Ibidem.