L’IRAQ NON MERITA UN’ALTRA CATASTROFE

 

UN DECISO NO

ALLA GUERRA

 

Bisogna mobilitare le coscienze e non lasciare ai politici l’assoluta libertà di decidere su problemi che riguardano le sorti dell’umanità intera. Soprattutto quando si sa che gli interessi che si muovono dietro a questa guerra sono ben altri.

 

Le voci insistenti dei preparativi di guerra contro l’Iraq e l’indecisione con cui anche i paesi dell’Unione europea si stanno muovendo lasciano poche speranze che questa guerra possa essere evitata. Da mesi è in atto una vasta campagna di persuasione dell’opinione pubblica mondiale alla ricerca di sempre più ampi consensi. Sembra che ci si stia rassegnando all’inevitabile. Invece non dobbiamo rassegnarci.

È necessario mobilitare le coscienze e far leva sull’opinione pubblica affinché alzi la voce e non lasci ai politici l’assoluta libertà di decidere su problemi che riguardano le sorti dell’umanità intera. Soprattutto bisogna far pressione affinché una sciagura come la guerra non si abbatta nuovamente sul popolo iracheno, già stremato da un pesantissimo regime di dodici anni di irragionevoli sanzioni, le cui conseguenze sono ben documentate anche da coloro hanno avuto occasione di visitare in questi anni l’Iraq. Più ancora: è importante far conoscere alla gente che cosa c’è dietro a questa insensata voglia di guerra, contrabbandata come lotta al terrorismo, ma che in realtà nasconde strategie di ben altra portata.

 

ANCHE I RELIGIOSI

SI MOBILITANO

 

In questa campagna di dissenso, si sono mobilitati tanti organismi, soprattutto di ispirazione cristiana, e tanti uomini di buona volontà, a cominciare dal papa, dai vescovi delle varie parti del mondo, riviste, gruppi umanitari, commissioni justitia et pax, ecc. Fra le varie voci, ci pare doveroso segnalare anche quelle dei religiosi e delle religiose che non hanno avuto esitazione di rivolgersi direttamente al presidente americano Bush: come la commissione Giustizia e pace e integrità della creazione dell’Unione superiori e delle superiore generali (USG/UISG) che ha fatto proprie le preoccupazioni dei vescovi USA e del Consiglio di sicurezza dell’ONU. In una lettera ispirata al messaggio del papa per la Giornata della pace, del 1 gennaio basato sull’enciclica Pacem in terris” i superiori scrivono: “Esprimiamo grave preoccupazione sulla moralità della invasione programmata, con il rischio di provocare un peggiore conflitto… Temiamo che un’invasione dell’Iraq possa creare una deplorevole polarizzazione religiosa che potrebbe distruggere risultati preziosi del dialogo interreligioso. Temiamo inoltre che sia di stimolo per una rappresaglia contro la popolazione innocente dell’Iraq e di paesi lontani”.

Molto attivi si sono dimostrati in questi ultimi mesi anche i religiosi e le religiose degli Stati Uniti. Anch’essi hanno preso l’iniziativa di rivolgersi direttamente al presidente Bush per cercare di convincerlo a desistere dal suo proposito di fare guerra all’Iraq.

Tra le prese di posizione più recenti c’è quella della CMSM (Conference of Major Superiors of Men), la conferenza dei superiori maggiori dei religiosi. In una lettera a Bush, in data 8 agosto 2002, a nome di 20.000 religiosi fratelli e sacerdoti degli Stati Uniti, dopo la loro assemblea annuale a Filadelfia, i religiosi esprimono la loro grave preoccupazione per un’eventuale guerra contro l’Iraq. Non solo perché essa non avrebbe alcun requisito per essere considerata una guerra “giusta”, ma anche per le sofferenze che verrebbero inflitte alle popolazioni. “Siamo più ancora preoccupati, scrivono, per la perdita di vite e le ferite che ne deriverebbero… Siamo preoccupati dei danni che sarebbero inflitti ai civili in Iraq. Le sanzioni contro questo paese, in atto già dal 1990, hanno già arrecato un grave danno al popolo iracheno… Temiamo che un’azione militare in Iraq avrà un ulteriore impatto negativo sul popolo di questa nazione, specialmente per le morti di civili, a prescindere dal fatto che queste morti siano intenzionali o solo un danno collaterale”. La lettera conclude: “Le preoccupazioni che abbiamo, sia per la vita e la dignità umana e sia per le conseguenze politiche non sono insignificanti e noi speriamo che lei voglia prenderle seriamente in considerazione”.

Pochi giorni dopo, in data 24 agosto, a scrivere una lettera al presidente Bush è stata la LCWR (Leadership Conference of Women Religious), la conferenza delle religiose, anch’essa al termine dell’assemblea nazionale che si era tenuta a St Louis dal 17 al 21 agosto. La lettera fa parte di una peace strategy, strategia di pace, che le religiose americane stanno da tempo portando avanti, con l’appoggio di un migliaio di superiore di congregazioni, in rappresentanza di 76.000 suore degli Stati Uniti.

“Lo scopo che la LCWR si propone, scrivono, è di sottolineare quanto seriamente le suore e le responsabili che fanno parte della Conferenza prendano l’escalation di retorica a favore della guerra in Iraq promossa dall’amministrazione Bush… È per noi doveroso cercare un nuovo paradigma nel giudicare i problemi riguardanti la guerra e la pace oggi. Dobbiamo prendere sul serio la sfida evangelica di cercare, praticare e promuovere la pace mediante mezzi giusti e non violenti. Siamo convinte di avere una voce e una responsabilità solidale nell’educare, riflettere e agire secondo i principi della non violenza e incoraggiare a fare lo stesso nelle scuole, nei colleges e nelle università (gestite da congregazioni religiose femminili). Mediante il dialogo interconfessionale, l’educazione e la preghiera abbiamo la possibilità di promuovere e sostenere gli sforzi in vista della pace”.

Un’azione militare contro l’Iraq per rovesciare il governo di Saddam Hussein, osservano le suore, non solo è cosa male consigliata ma sarebbe anche inefficace. Perciò, aggiungono, “la invitiamo a potenziare gli sforzi per giungere a una soluzione politica e diplomatica dell’attuale minaccia. Noi siamo contrarie che il nostro paese si impegni in una guerra preventiva… mentre siamo favorevoli a continuare e approfondire le azioni non militari per promuovere la pace e la giustizia in questa area del mondo”.

Le due Conferenze, CMSM e LCWR, hanno inviato successivamente un’altra lettera a Bush, questa volta congiuntamente, in data 12 settembre, in cui dopo aver ribadito alcune convinzioni già espresse, sottolineano che una guerra preventiva costituirebbe un serio precedente, in particolare per le altre nazioni che si sentono minacciate dal potenziale bellico dei loro vicini e accrescerebbe in esse gli interrogativi circa il rispetto che l’America dice di avere dell’intergità degli altri paesi e della stessa legge internazionale. Inoltre un intervento militare potrebbe offrire ai paesi arabi e musulmani l’occasione per incitare la gente non solo contro gli Stati Uniti, ma anche contro i governi che collaborano con essi.

Dopo questa lettera, ne è stata inviata un’altra, sempre al presidente Bush, il 17 ottobre scorso, a firma dei presidenti delle due Conferenze, p. Canice Connors, OFMconv. per la CMSM e Mary Ann Zollman per la LCWR, in cui si afferma che la guerra costituirebbe un’iniziativa contraria alla legge internazionale e all’etica religiosa.

Ma i religiosi/e americani non si sono limitati a scrivere al presidente. Hanno inviato anche una loro delegazione in Iraq dall’8 al 22 dicembre. Il gruppo si è recato laggiù per testimoniare al popolo iracheno che non tutti gli americani sono a favore della guerra e per raccogliere le testimonianze della gente da raccontare agli americani.1

Una delle religiose che facevano parte della delegazione, sr. Campbell, direttrice di un’associazione interconfessionale per la promozione della pace e della giustizia, racconta ciò che le disse una suora domenicana responsabile di un ospedale per la maternità a Bagdad: che le madri in attesa si recano da lei per chiederle che venga loro effettuato il taglio cesareo per far nascere i bambini prima che scoppi la guerra. La suora, mentre narrava questi episodi, piangendo aggiunse: “Bush non bombarderebbe l’Iraq se potesse vedere le nostre lacrime”.

 

FALSE

E VERE RAGIONI

 

Ma cosa si nasconde dietro a questa guerra, che speriamo si possa ancora scongiurare? Margot Patterson, in un dossier pubblicato sul settimanale National Catholic Reporter2 (NCR) e intitolato Beyond Baghdad (Oltre Baghdad) con il sottotitolo Domani Baghdad. Il giorno dopo – Damasco? apre il suo servizio con questa affermazione: “Gli analisti della politica estera (americana) affermano che il cambiamento in Iraq è solo il primo passo di un piano più imponente, anzi grandioso, pensato da alcuni politici degli Stati Uniti per ridisegnare la geografia nel Medio Oriente. Lo scopo è l’egemonia americana nella regione e in realtà nel mondo. Nell’agenda oltre a giungere al controllo dell’accesso delle altre nazioni al petrolio vi è anche l’intenzione di impaurire le nazioni arabe e i palestinesi affinché abbiano a capitolare alle richieste degli Stati Uniti”.

L’autrice cita il recente libro di Anatol Lieven, un analista del Carnegie Endowment for International Peace, The Push for War, il quale scrive senza mezzi termini: “Il piano basilare e generalmente accolto consiste in una dominazione unilaterale del mondo attraverso l’assoluta superiorità militare; questo piano è stato sostenuto ed elaborato da un gruppo di intellettuali vicini a Dick Cheney e Richard Perle fin da quando è crollata l’Unione sovietica agli inizi degli anni ’90. Lieven sostiene che lo scopo immediato di un’eventuale invasione dell’Iraq è di smantellare l’arsenale delle armi di distruzione di massa di Saddam. In realtà, osserva, l’amministrazione americana mira a fare a pezzi lo stato nazionalista iracheno dominato dall’islam sunnita, per sostituirlo con una presunta “democrazia” sul modello dell’Afghanistan, costituita cioè da piccoli gruppi etnici e signori della guerra, più facili da controllare e strettamente alle dipendenza del potere militare americano e ossequiosi ai desideri degli Stati Uniti.

Lieven non è il solo a sostenere questa tesi, che anzi appare ampiamente condivisa da altri analisti. Per esempio da Phyllis Tennis, un esperto di affari mediorientali dell’Istituto di studi politici, il quale afferma che un’invasione americana dell’Iraq ha ben poco a vedere con l’eliminazione delle armi di distruzione di massa. Piuttosto, osserva, “ha che fare con il petrolio e con l’impero, per giungere a controllare le enormi risorse petrolifere dell’Iraq”. Secondo Tennis, non si tratta tanto di importare petrolio negli Stati Uniti, cosa che già si fa; il problema è il controllo, minando così alla base l’OPEC, ossia l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (uno dei pochi organismi internazionali che ancora sfuggono al potere degli Stati Uniti), e mettere le mani sull’accesso al petrolio della Germania, del Giappone e del resto dell’Europa. Ciò darebbe agli Stati Uniti un enorme potere politico ed economico sul mondo.

L’autore del dossier NCR cita anche il parere di altri esperti di politica estera secondo cui in America sta crescendo sempre di più il malessere per la stabilità dell’Arabia Saudita e aumentano coloro che considerano questo paese come un nemico. Circolano voci secondo cui il governo americano intenderebbe smantellare lo stato dell’Arabia saudita e mettere così i campi petroliferi sotto il proprio controllo, soprattutto se questo paese si mostrasse riluttante all’iniziativa americana di rovesciare il dittatore iracheno Saddam. E dopo l’Arabia saudita toccherebbe ad altri paesi, primo fra tutti l’Iran.

Tennis è del parere che la decisione di invadere l’Iraq, anche se non è ancora stata presa, ha ben poco a che vedere col fatto che gli ispettori ONU trovino o non trovino qualcosa. A suo parere la guerra è piuttosto un affare ideologico; lo scopo è di provare “la legittimità dell’unilateralismo” e far capire che il potere degli Stati Uniti non può essere sfidato.

Un altro esperto, William Pfaff, ex corrispondete per gli affari esteri del The International Herald Tribune, in un articolo per la rivista Commonweal,3 scrive che all’interno dell’amministrazione Bush esiste un gruppo di politici intossicati di messianismo nazionalista, convinti che il destino dell’America è di mettersi a capo dell’intera umanità. “È stato detto, scrive Pfaff, che è ora che l’America affermi la sua egemonia sul mondo”, e aggiunge che è da tempo che diverse lobby in America stanno facendo pressione per questa guerra. Anche secondo Stephen Zunes, professore associato di scienze politiche presso l’università di San Francisco, i prossimi bersagli di questa politica di aggressione saranno l’Iran, poi la Siria, la Corea del nord e Cuba. Ma, sottolinea l’autore del dossier, questa nuova strategia, su cui concordano numerosi esperti, comporta dei rischi enormi: un’accresciuta ostilità antiamericana nella regione mediorientale e l’aumento del terrorismo all’interno del mondo arabo.

Per rimanere all’Iraq, ed è Paul Sullivan docente di economia presso la National Defence University a parlare, i costi per rimettere piedi l’Iraq dopo la guerra si aggireranno sui 100 miliardi di dollari e forse anche più… un compito enorme, spaventoso, a parte che le truppe americane dovrebbero rimanere nel paese almeno per un decennio.

Lieven, già citato, osserva che pubblicamente i neoconservatori parlano di “democratizzare” la regione e forse molti sono sinceri, ma che diversi di essi privatamente sostengono che questa democratizzazione è impossibile. Il vero scopo piuttosto è di riprogettare tutto il Medio Oriente e di “indebolire, distruggere e intimidire gli stati inaffidabili”.

Le analisi di esperti qui riportate, anche se mai confessate pubblicamente, sembrano essere le vere ragioni di una strategia a largo raggio che si nasconde dietro al paravento della lotta al terrorismo. Le mire sarebbero ben altre. Per questo, con il papa, i vescovi, religiosi/e e tutti gli uomini di buona volontà, bisogna alzare la voce contro questa guerra, dire no agli interessi che la muovono; dire no perché per il popolo iracheno sarebbe un’altra tremenda insopportabile catastrofe. E lo sarebbe anche per il mondo intero.

 

A.Dall’Osto

 

1_Cf. fuoritesto.

2_Settimanale di laici cattolici americani, di tendenza liberale, fondato nel 1964 sull’onda del concilio.

3_Rivista di laici cattolici americani, fondata nel 1924. Tratta di religione, politica e cultura.