DOPO LO SPARTIACQUE DELL’11 SETTEMBRE 2001

 

LE NUOVE
VIE DELLA PACE

 

L’insicurezza pervade le persone e ognuno che sia straniero o musulmano è visto come un potenziale nemico. Ma la nostra fede nel Dio della bontà e della pace, creatore di tutti, ci scuote dal torpore della violenza inevitabile e ci invita a cercare insieme le vie della pace.

 

La riflessione che vogliamo fare si situa in un contesto storico particolare, segnato da forti tensioni e da intensi bagliori di guerra. Gli scenari che quotidianamente si aprono sotto i nostri occhi sono tali da ingenerare una certa assuefazione all’idea di coinvolgimenti bellici sempre più estesi: è un rischio di cui tener conto. La data dell’11 settembre è divenuta uno spartiacque: da quel giorno l’umanità dell’occidente è scossa da un sussulto che non conosceva da decenni, la paura “terrorismo” contrassegna la vita quotidiana di molti e là dove si decidono le sorti delle nazioni si proclama che il conflitto armato è la soluzione inevitabile.

Di fatto, le politiche mondiali – o almeno quelle messe in atto da chi alza più forte la sua voce perché, per il suo potenziale economico e militare, si sente autorizzato a farlo – si volgono, con una insistenza superiore a quella del recente passato, più verso lo scontro che verso la ricerca di soluzioni dialogiche e di intese politiche. Il medio oriente, da sempre ago della bilancia di molte tensioni internazionali di cui ha talvolta pagato le spese, è travagliato da una spirale di violenza di cui non si vede la fine; si vede piuttosto un’esasperata catena di attentati e quindi di morti, di dolore, di rabbia, di vendetta fomentata da ulteriori ritorsioni. La situazione irrisolta nell’Afghanistan e la minaccia della nuova guerra contro l’Iraq interrogano, in maniera inquietante, sulla volontà che muove gli uni e gli altri a non proporre nessun altra possibilità che lo scontro tra le culture (S. Huntington) e l’uso delle armi.

L’insicurezza pervade le persone e ognuno che sia straniero o musulmano è visto come un potenziale nemico.

La nostra fede nel Dio della bontà e della pace, creatore di tutti, ci scuote dal torpore della violenza inevitabile (o meglio, presentata tale) e ci pone di fronte alla necessità di camminare insieme.

 

LA PACE

NELL’INCONTRO CON DIO

 

La nostra vocazione è essere pacifici: «Sono veri pacifici quelli che di tutte le cose che sopportano in questo mondo, per amore del Signore nostro Gesù Cristo, conservano la pace nell’anima e nel corpo».

Quella che qui si prospetta è un’esperienza totalizzante di comunione con il Signore Gesù: l’intera persona è armonizzata, riconciliata, quali che siano gli eventi in cui è coinvolta. L’amore del Signore nostro Gesù Cristo ne è la radice e la motivazione. Non si tratta di irenismo a buon mercato, anzi: è opera che lo Spirito Santo realizza insieme con l’umiltà e la pazienza, ovvero con la disponibilità a servire e a com-patire. Difatti, è Francesco stimmatizzato, che vive cioè l’esperienza totale – anima e corpo – del Crocifisso, che riconosce Dio non solo come la fonte, ma come la realtà stessa della pace: «Tu sei la pace».

Questa scoperta, teologica e cristologica, resa esperienza di vita, trabocca in annunzio: Francesco non può non condividere il tesoro trovato e questo affina in lui un atteggiamento dialogico, positivo e propositivo, sempre rispettoso. L’altro, chiunque egli sia, è figlio del Padre celeste, è uno per il quale Gesù Cristo ha dato se stesso; quindi è un fratello.

La pedagogia suggerita da Francesco per aprire una relazione pacifica e pacificatrice con i “ladroni” a Monte Casale riflette questa fede certa; e lascia intuire a noi prospettive di lettura della nostra presenza nel mondo segnato dal sospetto e dalla paura.

 

In un eremitaggio situato sopra Borgo San Sepolcro, venivano di tanto in tanto certi ladroni a domandare del pane. Costoro stavano appiattati nelle folte selve di quella contrada e talora ne uscivano, e si appostavano lungo le strade per derubare i passanti.

Per questo motivo, alcuni frati dell’eremo dicevano: «Non è bene dare l’elemosina a costoro, che sono dei ladroni e fanno tanto male alla gente». Altri, considerando che i briganti venivano a elemosinare umilmente, sospinti da grave necessità, davano loro qualche volta del pane, sempre esortandoli a cambiar vita e fare penitenza.

 

La situazione descritta è emblematica, comunque traducibile nel mondo globalizzato. Uomini rintanati nel bosco si procurano da mangiare facendo del male ad altri. Le reazioni suscitate sono diverse: c’è chi si oppone loro, forte del principio (rubare è male), c’è chi talvolta condiscende, considerando che sono persone nel bisogno (hanno fame e domandano umilmente). Oggi forse si potrebbe pensare a una terza reazione: cercare di eliminare i ladri, cosicché non facciano più del male. Resta la contrapposizione tra i ladri e gli altri.

Ognuna di queste reazioni si giustifica con motivazioni “ragionevoli”; ma, come ricordavano i delegati europei di Giustizia, Pace e Salvaguardia del creato nel messaggio inviato al termine del loro incontro ad Assisi, è preoccupante «lo stabilizzarsi di una cultura manichea, che divide il mondo in buoni e cattivi e che dà ai buoni la legittimazione di eliminare i cattivi».

Il processo che sta caratterizzando il momento attuale è definito globalizzazione o mondializzazione. Si tratta di un fenomeno prodottosi con rapidità, che probabilmente ci ha trovati sprovveduti nel valutare rischi ed opportunità. Quella che un sociologo chiama la “società-mondo”, «ha la sua struttura di comunicazioni (aereo, telefono, fax, internet) già multiramificata ovunque; ha la sua economia, di fatto mondializzata, ma dove mancano i controlli di una società organizzata; ha la sua criminalità (mafie, in particolare di droga e prostituzione); ed ora ha ormai il suo terrorismo» (Edgar Morin). Dopo gli attentati a New York dell’11 settembre 2001, è emerso un nuovo tipo di conflitto, e un nuovo genere di nemico viene indicato come il pericolo contro cui coalizzarsi. Non è un avversario con il quale poter trattare o interloquire, non lo si affronta sul piano politico, ma si dichiara che l’unica possibilità di soluzione è il suo annientamento ottenuto ad ogni costo, in uno sforzo bellico di durata imprevedibile e di molteplice localizzazione, poiché il “nemico” ha tanti volti. C’è chi parla di “guerra asimmetrica”, “a-dialettica”. La paura è lo stato d’animo pervasivo che caratterizza la vita dei popoli raggiunti da venti di guerra o minacciati di attentati. Il nemico, in definitiva, può essere ovunque e chiunque. Si tratta di una situazione molto pericolosa, poiché, accettando l’analisi e la diagnosi attualmente diffuse, si cade con facilità in valutazioni esclusivamente emotive di ciò che si sta vivendo, e ancora una volta non si è aiutati a ricercarne le cause originarie. È ormai evidente che pesanti interessi economici sottostanno alle iniziative di aggressione, da qualunque parte intervengano.

Occorre comprendere innanzitutto quale bisogno muove a gesti atroci di violenza.

E occorre aiutarci a formare una mentalità positiva nei confronti dell’essere umano in quanto tale, la cui stima reale è fondata sulla filiazione divina: altrimenti è negata in partenza la possibilità di comporre i conflitti risolvendo i disagi che stanno a monte.

Francesco ce lo mostra praticamente.

 

ESSERE STRUMENTI

DI DIALOGO

 

Ed ecco giungere in quel romitorio Francesco. I frati gli esposero il loro dilemma: dovevano oppure no donare il pane a quei malviventi? Rispose il santo: «Se farete quello che vi suggerisco, ho fiducia nel Signore che riuscirete a conquistare quelle anime». E seguitò: «Andate, acquistate del buon pane e del buon vino, portate le provviste ai briganti nella selva dove stanno rintanati, e gridate: – Fratelli ladroni, venite da noi! Siamo i frati, e vi portiamo del buon pane e del buon vino –. Quelli accorreranno all’istante. Voi allora stendete una tovaglia per terra, disponete sopra i pani e il vino, e serviteli con rispetto e buon umore. Finito che abbiano di mangiare, proporrete loro le parole del Signore. Chiuderete l’esortazione chiedendo loro per amore di Dio, un primo piacere, e cioè che vi promettano di non percuotere o comunque maltrattare le persone. Giacché, se esigete da loro tutto in una volta, non vi starebbero a sentire. Ma così, toccati dal rispetto e affetto che dimostrate, ve lo prometteranno senz’altro.

E il giorno successivo tornate da loro e, in premio della buona promessa fattavi, aggiungete al pane e al vino delle uova e del cacio; portate ogni cosa ai briganti e serviteli. Dopo il pasto direte: – Perché starvene qui tutto il giorno, a morire di fame e a patire stenti, a ordire tanti danni nell’intenzione e nel fatto, a causa dei quali rischiate la perdizione dell’anima, se non vi ravvedete? Meglio è servire il Signore, e lui in questa vita vi provvederà del necessario e alla fine salverà le vostre anime –. E il Signore, nella sua misericordia, ispirerà i ladroni a mutar vita, commossi dal vostro rispetto ed affetto».

 

Francesco suggerisce ai frati di entrare in dialogo con i “ladroni” con passi successivi: andare incontro a loro là dove si trovano, portare loro ciò di cui hanno bisogno, rivolgere loro la parola. In altre parole, occorre escludere ogni pre-giudizio, ogni precomprensione negativa, così da proporsi in modo amabile, rispettoso, “cortese”, non aggressivo.

Ricordo, a proposito, le parole che Giovanni Paolo II pronunciò in piazza san Francesco ad Assisi, il 27 ottobre 1986: «Mossi dall’esempio di san Francesco e di santa Chiara […] noi ci impegniamo a riesaminare le nostre coscienze, ad ascoltare più fedelmente la loro voce, a purificare i nostri spiriti dal pregiudizio, dall’odio, dall’inimicizia, dalla gelosia e dall’invidia. Cercheremo di essere operatori di pace nel pensiero e nell’azione, con la mente e col cuore rivolti all’unità della famiglia umana».

 

GLOBALIZZAZIONE

DELLA SOLIDARIETÀ

 

Il nostro mondo globalizzato conosce contrapposizioni pianificate, con un’estensione e una virulenza pari a quella dell’accresciuto avanzamento della tecnologia. Lo stabilizzarsi di logiche di conflitto e l’aprirsi di sempre nuovi scenari di guerra ci dicono come sia faticoso, e possa apparire arduo se non talvolta utopistico, lo sviluppo di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità. Perciò abbiamo bisogno, oltre che di una fedeltà incrollabile alla nostra vocazione originaria, di una grande sensibilità di fronte alle innumerevoli sfide nuove; abbiamo bisogno di coraggio per intraprendere nuove vie. E questo specialmente per il fatto che la nostra vita secondo il vangelo e la nostra proclamazione del Signore risorto ci rendono testimoni del mondo che deve venire. Si tratta di avere uno sguardo pieno di amore e contemplativo sulla realtà, sulle speranze e paure e minacce che segnano il cuore dei nostri contemporanei; di camminare verso e con loro, verso e con i poveri e i deboli; di avere il coraggio di riflettere radicalmente sui modelli di pensiero esistenti, istituzioni, opere e strutture nella Chiesa e nella nostra famiglia religiosa, poiché non è sempre così chiaro se siano coerenti con le esigenze radicali del vangelo delle beatitudini. Si tratta di essere presenti nel nostro mondo come contemplativi e missionari contemporaneamente, attivi e in tutto fraterni, se vogliamo essere segni e strumenti di pace in un mondo senza pace e strutturalmente ingiusto, così come in un ambiente e in una creazione sfruttati e privati della dignità. Siamo – e quindi dobbiamo essere – i portatori di una nuova cultura della solidarietà. Una tale cultura nasce dalla convinzione che lo Spirito di Dio opera in ogni essere umano; dalla convinzione che ogni fratello è un dono. Tale cultura, inoltre, è il segno distintivo di una famiglia a carattere universale, come quella francescano-clariana, la quale riconosce la propria identità nella sempre rinnovata apertura alla missione.

Francesco ci invita a liberare i nostri gesti e le nostre parole dalla paura, e quindi a non difenderci, a non minacciare l’altro, a non esprimerci in termini di (presunta) superiorità. Dobbiamo essere quelli che siamo, ovvero minori, «soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio». Il dialogo ne è un’espressione e le indicazioni di Francesco sono preziose al riguardo, per noi oggi.

Siamo persone di dialogo se sviluppiamo la disponibilità ad ascoltare le ragioni dell’altro e a non darne un’interpretazione previa, nella convinzione che non esiste chi abbia il monopolio della verità, a meno che non ci si voglia ergere a detentori e arbitri del potere e delle ricchezze. Ma in tal caso, la pace è esclusa a priori.

L’alterità è elemento di cruciale importanza, che ci porta a riconoscere l’altro al di là della nostra identità, senza ridurlo a noi stessi, ai nostri interessi, ai nostri sogni, alla nostra cultura. L’altro, così, non è un giocattolo nelle nostre mani. Nasce, pertanto, un ascolto attento e rispettoso, senza squalificare l’altro, solo perché è diverso da me o da noi. È necessario saper ascoltare per ben servire! Rinunciamo a essere padroni assoluti della verità. Rinunciamo a inquadrare tutto e tutti in ciò che è solamente relativo nel mio o nel nostro mondo culturale.

Ritengo che siamo tenuti a formarci non solo al dialogo, ma ad una esistenza che sia essa stessa dialogica. Per ciò che intendo dire, mi pare significativa la testimonianza di Martin Buber, resa a Berlino nel 1929, all’indomani di un massacro di ebrei a Hebron ad opera di arabi: «In Palestina noi non abbiamo mai vissuto con gli arabi, ma accanto agli arabi. La coabitazione di due popoli sulla stessa terra diviene fatalmente opposizione, se non si sviluppa nella direzione di un essere-assieme. Nessun cammino permette di tornare a una pura e semplice coabitazione. È invece ancora possibile incamminarsi verso lo stare assieme, anche se numerosi ostacoli si sono accumulati su questa via». La nostra vita di fraternità è lo spazio di esperienza e di proposta di questo stare assieme, e per noi lo è nell’obbedienza e nell’amore al Signore Gesù che ci ha rivelato: «Voi siete tutti fratelli». Gli altri hanno il diritto di voler vedere in noi una parabola di dialogicità, e quindi di riconciliazione, di accoglienza reciproca. Sappiamo realmente accoglierci, pregare insieme, lavorare insieme, comunicare autenticamente: in una parola, viviamo relazioni improntate alla reciprocità e alla complementarietà? Ciò con cui ci scontriamo, anche nella nostra vita familiare quotidiana, sono le sottili e talvolta persistenti forme di violenza, magari non appariscenti, ma capaci di ferire in profondità. «Fermare con le piccole forze di un essere umano la potenza della violenza significa costruire e rafforzare la pace per tutti» (A. Solzenicyn).

 

FARE

IL PRIMO PASSO

 

Il cammino verso la pace consiste nel realizzarla dentro se stessi, attingendovi la forza per prendere l’iniziativa e perseverare nell’andare incontro all’altro per primi; poiché nelle situazioni di stallo, il cammino verso il dialogo consiste nell’offrirlo senza porre condizioni. Troppi conflitti oggi stanno incancrenendosi perché si pretende solo dagli altri il primo gesto di pace, o meglio di non offesa, e non ci si preoccupa di creare le condizioni affinché ciò sia possibile. Oppure si segue la logica dell’attacco preventivo quale deterrente di un possibile attacco offensivo. In realtà, «il prezzo per la costruzione di una cittadinanza globale attraverso la fraternità universale non è la rinuncia alla sicurezza, ma la rinunzia al rapporto di sudditanza che nasce dal vincolo perverso che lega reciprocamente e drammaticamente vinti e vincitori» (G. Tumminello).

Vi è un secondo aspetto: non solo andare incontro all’altro, ma creare luoghi di incontro con l’altro. I fatti dell’11 settembre 2001 e ciò che ne è seguito ha creato un clima in cui le sensazioni prevalgono sulla conoscenza, e ne derivano giudizi superficiali e semplicistici riguardo alla cultura e alla religione altrui, in particolare nei confronti dell’Islam.

Occorre formarsi e sviluppare una reale stima del dialogo interreligioso, quello che è universalmente conosciuto come spirito di Assisi e da cui dovremmo sentirci interpellati e provocati in modo prioritario. Ogni persona, ogni religione partecipa, in qualche modo, all’unica missione dell’unico Dio nella storia. L’incontro e il dialogo aiutano ciascuno a vedere e riconoscere nell’altro le vestigia Dei, ad ascoltare i semina Verbi nelle parole che esprimono la fede dell’altro: siamo, tutti, immagine del creatore. A noi, che crediamo nel Dio della vita che ha mandato il suo Figlio per noi morto e risorto, tocca il compito – ed è urgente – di promuovere luoghi comuni di vita, di preghiera, di solidarietà, dove si instaurino e si apprenda a instaurare relazioni basate sulla reciprocità, sul dialogo, sul rispetto, sull’ascolto. Ci è chiesta una doppia fedeltà: al messaggio evangelico e ai valori delle religioni. Così si potranno articolare con particolare fecondità la comunione della fede e la pluralità delle manifestazioni della fede. Intanto, credo che siamo chiamati a sostenere e far conoscere le iniziative esistenti quali, per citarne alcune svoltesi recentemente, l’incontro organizzato dalla Comunità di sant’Egidio a Palermo nel settembre scorso, in cui persone di fede cristiana, musulmana, ebraica hanno avuto la possibilità di parlare e ascoltarsi; o la 39a sessione di formazione ecumenica promossa dal SAE (Segretariato attività ecumeniche), il cui tema era Abitare insieme la terra. Comunità ecumenica e giustizia, a cui hanno partecipato attivamente anche membri della comunità ebraica e di quella islamica.

Non prevalgano stili di vita e di pensiero che avvalorano i concetti di guerra santa e di guerra giusta, poiché l’unica giustizia e santità è quella della pace. Occorre essere attenti e forse anche aiutare gli altri a smascherare intenti di soppressione dell’altro nascosti sotto proclami dal sapore biblico e in generale religioso, che strumentalizzano il nome di Dio asservendolo ad una religione laica che cerca solo l’affermazione di chi la professa su tutti gli altri. È quanto sta accadendo in occidente (vedi le dichiarazioni di Bush nel promuovere la guerra al terrorismo), che così ricopia ideologicamente gli atteggiamenti del fanatismo islamico. Il dialogo al contrario, e quello interreligioso in particolare, facilita l’emergere delle forze positive che ciascuno ha al suo interno. Ritengo necessario, per esempio, che il mondo musulmano esprima le sue potenzialità di pace e pacificazione: saranno più determinanti, un giorno, delle tendenze alla violenza.

Francesco suggerisce ai frati di portare del cibo ai ladroni. La loro concreta necessità era quella di sfamarsi, e i frati sono invitati a provvedervi con dignità, non dando gli avanzi: buon pane, buon vino, uova, formaggio, serviti su una tovaglia. I frati devono mettere sulla mensa dei “ladroni” più di quanto non ci fosse sulla loro stessa mensa!

 

ASCOLTARE L’ALTRO

È FARSENE CARICO

 

Possiamo chiederci quali necessità stiano alla base di tanti conflitti e se, molte volte, non ci limitiamo alla denuncia degli effetti senza considerarne le cause.

«Serve la causa della pace non colui che conta sulla bonarietà dei violenti, ma colui che difende i diritti degli oppressi, degli sconfitti, di coloro che vengono uccisi. Colui che li difende senza stancarsi, senza cedere e senza lasciarsi corrompere», scriveva alcuni anni fa Alexandr Solzenicyn. E l’ex arcivescovo di San Salvador, Arturo Rivera y Damas, partendo dalla situazione concreta che il suo paese viveva, testimoniava come la causa principale della guerra fosse «la situazione di ingiustizia, frutto di peccati personali profondamente radicati nelle strutture che negano il piano del creatore, che esigono dal nostro popolo una profonda conversione personale e sociale». E prospettava un concetto dinamico di pace: «essa non è soltanto la fine della guerra, ma il cambiamento della nostra situazione di ingiustizia. Per questo operiamo soprattutto sulle cause profonde, specie per la conversione e riconciliazione dei cuori, nostro campo specifico, e nella ricerca anche di una pace sociale, secondo lo spirito della dottrina sociale cristiana».

Essere uomini di pace non è diverso da essere uomini che hanno a cuore l’integrità e la qualità della vita, e quindi che si impegnano affinché sia eliminato lo spettro degli attentati alla vita. Oggi questo si diffonde attraverso l’esclusione dei più poveri, la dominazione sui più deboli e si radicalizza nella pratica del terrorismo, dei fondamentalismi radicali e in molteplici forme di violenza, sia personali che strutturali. Ed è la violenza il contrario della pace. Siamo chiamati a contrapporci ad ogni forma di ingiustizia, prendendo coscienza dei sistemi di esclusione e dell’attuale ordine internazionale, che sacrifica vie umane secondo una logica propria.

Occorre che siamo disposti ad aprire gli occhi, a conoscere la realtà così com’è nella sua complessità, a non accontentarci di informazioni superficiali e, tutto sommato, innocue per la nostra tranquilla routine, anche religiosa. Un cristiano di Beirut ha reso questa testimonianza significativa: «La maggioranza silenziosa dei libanesi, musulmani, cristiani o atei, ha finito per comprendere – e questa è la prima forza degli artigiani di pace: l’essere veri – che una delle radici nascoste della violenza è la menzogna, particolarmente nella sua forma moderna, che è la disinformazione».

Disinformazione e informazione parziale o falsata è violenza che si subisce in misura crescente, se non si opera un discernimento, una lettura attenta e critica. Il mondo globalizzato ha nello scambio rapido di informazioni un punto essenziale di forza e i mezzi di informazione sono un centro di potere il cui controllo diviene determinante per la tutela o la limitazione della libertà e della democrazia.

 

LA VIA DELLA PACE

È LA PACE

 

Anche nei nostri paesi europei si è accresciuto enormemente in questi anni il fenomeno della criminalità nei quartieri, nelle scuole, là dove vivono famiglie come tanti, contro giovani o adulti come tanti. Mi chiedo se la famiglia francescana, con le sue istituzioni educative presenti in tutti i continenti, con fratelli e sorelle impegnati nella gestione di scuole, collegi, università, non abbiano una responsabilità e un’opportunità preziosa in questo tempo. Si potrebbero, ad esempio, programmare corsi di educazione alla non-violenza, così da offrire un contributo significativo ai ragazzi e ai giovani per formarsi ai valori evangelici e quindi squisitamente umani della tolleranza, del rispetto, della solidarietà, del rifiuto di ogni forma e mezzo di violenza nei rapporti con gli altri. Albert Einstein aveva detto: «Il mondo sarebbe differente se finalmente si facessero tanti investimenti in favore della pedagogia e della ricerca della pace e della non-violenza, quanti finora ne sono stati fatti per preparare e per condurre le guerre».

È un dato di fatto: la famiglia francescana ha messo ha disposizione delle forze armate non pochi sacerdoti. Non dico che ciò non sia possibile, o che sia contrario alla nostra indole carismatica. Almeno, però, credo che dovrebbero essere ugualmente numerosi i “cappellani della pace”, per usare un’espressione con cui Luigi Santucci qualificava don Primo Mazzolari. Quanti sono i nostri specialisti, a livello di università e di istituti di ricerca, che lavorano in programmi di misure preventive dei conflitti bellici, di civil conflict resolution? Quanti sono i nostri rappresentanti nelle varie organizzazioni che lavorano localmente nel campo della non-violenza attiva? Quanti nostri fratelli e sorelle partecipano ad iniziative in tal senso? Una partecipazione visibile nei luoghi caldi del mondo di uomini e donne francescani specificamente formati in conflict resolution, o impegnati con competenza nella costruzione di una civil society con prospettive di una pace durevole garantita non solo dalla logica militare, sarebbe importante, io credo, al fine di dare un contributo concreto per una pace che sia tale, e non solo di facciata.

Senza sminuire il valore della presenza pacifica e pacificatrice delle nostre fraternità maschili e femminili, contemplative e apostoliche, vive e operanti nelle diverse culture, mi pare che il nostro tempo ci provochi e ci stimoli ad acquisire competenze adeguate così che il carisma e la spiritualità di cui viviamo possano dare un impulso positivo ai desideri e alle grida di pace che si levano dai Balcani, dal Congo, dal Rwanda, dall’Afghanistan, dal Medio Oriente... dalle nostre città impaurite.

Il mio sogno, o meglio la mia proposta, è che tutti i membri della famiglia francescano-clariana si compromettano in maniera visibile, pubblica – con una sorta di promessa solenne, o forme analoghe – in favore della non-violenza attiva come è stata vissuta da Gesù e anche da Francesco. Dobbiamo comprometterci divenendo strumenti effettivi di giustizia, di pace, di dialogo; e questo prima e più con lo stile di vita che con le parole; poiché l’opzione fondamentale per la giustizia e la pace, unita alla tutela del creato e alla promozione della vita in ogni sua manifestazione, non è un elemento accessorio, bensì costitutivo della nostra risposta di fede all’amore donatoci dal Padre in Cristo. Non possiamo mettere tra parentesi ciò che è parte della nostra promessa essenziale: osservare il santo vangelo del Signore Gesù.

 

LA PACE

FRUTTO DELLA GIUSTIZIA.

 

Non si può dimenticare che la pace è frutto della giustizia e che «per costruire la pace si richiede anzitutto che vengano sradicate le cause di discordia tra gli uomini e in modo speciale le ingiustizie» (GS 83). L’economia globalizzata ha già offerto chiari segnali di ingiustizie globalizzate, piuttosto che di possibilità di maggiore ricchezza per tutti, come aveva promesso. Le risorse ci sono, ma sono mal distribuite, e il meccanismo del cosiddetto neo-liberismo è tale per cui i ricchi si arricchiscono e i poveri sono sempre più poveri e in numero crescente. Qui la questione è politica, oltre che economica. E tocca la visione stessa dell’uomo. Le discussioni sulla riduzione del debito internazionale o la sua cancellazione per i paesi più poveri non hanno ancora offerto soluzioni e azioni determinanti. Spesso le oligarchie al potere nei paesi del sud tutelano gli interessi dei paesi ricchi, dai quali sono sostenute. Come percorrere una strada comune se non si parte dalla consapevolezza che i beni della creazione sono a disposizione di tutti e non appannaggio di alcuni? In un’omelia quaresimale del 1997, così si esprimeva il vescovo di Algeri, Henri Teissier: «Nella violenza criminale che tocca tante famiglie, è chiaro che la conversione di ciascuno è necessaria alla felicità di tutti. Certo, i disordini che lacerano la società intera non sono dovuti al caso. Per troppo tempo abbiamo parlato al popolo di pari opportunità e di giustizia sociale, mentre alcuni si accaparravano una parte del reddito nazionale per costruirsi la propria fortuna familiare. E, sul piano internazionale, conosciamo la grande distanza che separa gli ideali dei diritti dell’uomo, proclamati da tutte le assisi ufficiali, e la prassi che di fatto regola la concorrenza commerciale o i rapporti nord-sud. Ma queste ragioni addotte per spiegare lo scoppio della crisi non giustificheranno mai i crimini commessi contro tanti innocenti».

Come figli di Francesco abbiamo qualcosa da dire e da proporre. Francesco ci ricorda che ogni bene viene dal Signore Iddio e che a lui va restituito con rendimento di grazie. Il rapporto con i beni è un rapporto di gratuità e di gratitudine, aperto perciò alla condivisione. Noi, lo riconosciamo, siamo indubbiamente un po’ pervasi dalla prevalenza dell’avere sull’essere, del dover fare e produrre, spesso a scapito dei valori umani e spirituali sui quali si basa la fraternità. Ma in un mondo segnato dal consumismo – solo per alcuni, ben inteso, a spese della maggior parte dell’umanità! – non ci può essere nei confronti del consumismo, da parte nostra, altro atteggiamento che il contro segno, una vera specie di controcultura evangelica frutto dell’ascolto della Parola e della sequela del Signore Gesù, il quale per noi si fece povero per farci ricchi per mezzo della sua povertà (cf. 2Cor 8,9). Ciò significa avere uno stile di vita sobrio, semplice, che eviti ogni tipo di superfluità; significa condivisione delle risorse e dei mezzi tra noi frati e con altri; significa lavoro assiduo in tutti gli aspetti, non tanto per noi, ma per gli altri, per i poveri e, se necessario, anche gratuitamente; significa un tipo di inserimento delle nostre fraternità che possa creare prossimità e fratellanza con la gente; significa esprimerci con un linguaggio che non sia di élite, ma rispecchi le ansie dei poveri; e ancora, significa formare i nostri giovani ai valori della solidarietà, dell’accoglienza, dell’incontro, della missionarietà. Il voto di povertà è anche – o forse soprattutto – un processo doloroso di continua formazione alla solidarietà e alla compassione verso coloro che sono i veri poveri: sono loro i nostri maestri, e non viceversa. Di fatto, possiamo chiederci: siamo disposti a mettere le nostre risorse a disposizione delle grandi sfide del mondo di oggi: i diritti delle minoranze etniche-culturali-religiose (e non solo di quelle cristiane), la distribuzione più equa dei beni della creazione e la tutela del creato, l’impostazione di un ordine mondiale più umano, in cui il processo di globalizzazione sia realmente a servizio dell’uomo, e in particolare di coloro che non contano?

 

PERCHÉ TUTTI

VIVANO IN PIENEZZA

 

In sintesi, credo che il nostro servizio alla pace, alla giustizia, alla salvaguardia del creato rappresenti un aspetto vitale del nostro essere una fraternità chiamata a vivere ed annunciare il Vangelo nella nostra epoca. Dinanzi a un mondo diviso e violento, dobbiamo essere i testimoni visibili, di essere una immagine e parabola di una fraternità che è internazionale, la cui missione dia un contributo al superamento delle differenze e dei conflitti tra le persone e tra i gruppi, operando per l’unità. Ciò troverà forma se restiamo ancorati e rinnoviamo ogni giorno l’opzione per il Dio vivente. Noi crediamo e “abbiamo conosciuto” colui che è il Dio della vita, che ha mandato il suo Figlio nel mondo «perché gli uomini abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Di conseguenza, il nostro agire sarà tale da promuovere la vita e da creare le condizione affinché tutti possano vivere pienamente.

La prima delle priorità francescane consiste, biblicamente parlando, nel cercare il regno di Dio. E secondo le parole di Francesco, la cosa più importante che noi dobbiamo fare è quella di possedere «lo Spirito del Signore e le sue opere». Ciò include l’esperienza di Dio, così come ci si manifesta nella Scrittura, nella preghiera, nei sacramenti e nella storia. E include anche, e fin dall’inizio, la guarigione dei malati, la liberazione dei prigionieri, la ricerca della pace, della giustizia, della pienezza di vita per tutti, così come il Signore stesso l’ha promessa. Sono indicazioni chiare per una spiritualità globale e per un servizio globale. Come Francesco, dobbiamo incominciare a servire il Signore andando incontro a Gesù povero e oppresso nella nostra storia, ai “ladroni” del nostro mondo. Allora il nostro servizio alla pace sarà realmente espressione della relazione vitale con Dio, che ci educa quotidianamente a una spiritualità incarnata, in cui l’aspetto interiore e quello socio-politico sono i due volti dell’amore.

La mia conclusione la vorrei formulare con le parole di una preghiera francescanamente ecumenica e ecumenicamente francescana. L’ho composta nel mese di Aprile 2002, nel momento doloroso dell’assedio della basilica della Natività a Betlemme.

 

Signore, Dio unico,

Dio della vita, dell’universo, del nostro futuro comune.

Con i fratelli e le sorelle di tutte le religioni

ti eleviamo la nostra preghiera.

Tutti tu hai creato a tua immagine e somiglianza:

tutti siamo tua viva immagine.

In coloro che ti cercano nella verità

hai infuso fame e sete di giustizia

e un anelito profondo alla pace.

A tutti – musulmani, ebrei e cristiani –

reca afflizione la morte delle vittime dell’odio e della violenza.

E tutti sono anche chiamati, nel tuo disegno,

a edificare un mondo nuovo

e a essere strumenti di dialogo e di pace.

Per questo, ti chiediamo:

fa’ che le forze del perdono vincano

le forze dell’odio e della vendetta.

Fa’ che i cuori si aprano e si fermino le armi.

Fa’ che sorga una patria sicura per tutti.

Fa’ che tutti gli uomini di buona volontà di ogni religione

abbattano le montagne dei pregiudizi,

colmino le fosse dell’odio

e spianino i cammini che conducono a un futuro comune.

Fa’ che la giustizia generi la pace:

Shalom senza differenza per tutti!

E fa’ che possiamo iniziare da noi stessi.

 

Hermann Schalueck

 

 

1 Il testo è tratto da una conferenza, che riprendiamo in forma un po’ abbreviata, tenuta a Padova il 23.11.2002, presso l’Istituto teologico di sant’Antonio.