GELTRUDE COMENSOLI A 100 ANNI DALLA MORTE

 

INNAMORATA
DELL’EUCARISTIA

 

Fondatrice delle suore sacramentine di Bergamo ha speso tutta la vita nell’amare e nel fare amare Gesù nell’Eucaristia e nella dedizione instancabile ai fratelli più poveri, soprattutto alle giovani derelitte e alle operaie.

 

Cercherò di usare sempre carità e di trattare tutti con dolcezza...»: è uno dei propositi più frequenti nei programmi di vita di madre Geltrude Comensoli. E non poteva essere diversamente per lei che, ogni giorno, passava molto tempo in preghiera di adorazione davanti a Gesù nel tabernacolo e contemplava, nel segno del Pane, la carità divina che si offre all’uomo fino al dono totale della vita. Proprio da questo suo “stare” alla presenza di Gesù scaturiva in lei l’urgenza di essere carità per tutti quelli che avvicinava nel quotidiano.

Sapeva intuire i bisogni degli altri, soprattutto delle giovani, dedicava loro tempo, attenzione e premura e si donava a tutti con un amore fatto di piccoli gesti, di aiuto umile e concreto offerto a tempo opportuno.

 

ESUBERANTE

E RIFLESSIVA

 

Madre Geltrude (Caterina) Comensoli era nata il 18 gennaio 1847 a Bienno in Valcamonica, da una famiglia semplice, permeata di affetto e di fede cristiana, che nutriva con la preghiera comune, con la lettura della storia sacra e coltivava con la regolare partecipazione ai sacramenti e alle funzioni religiose in parrocchia.

Caterina, sesta di 10 figli, univa alla bellezza fisica un’intelligenza pronta e un temperamento vivace, esuberante e tuttavia capace di riflessione, tanto che spesso nel bel mezzo del gioco lasciava tutto e si ritirava a pensare in camera sua.

Ancora molto piccola, avvertiva che Gesù la amava con un amore speciale e faceva di tutto per ricambiarlo: si privava di pane e carne per offrirli ai poveri, dormiva per terra e si vestiva in modo leggero durante l’inverno, cercava di essere docile e obbediente ai genitori e alle sorelle più grandi; era fedele alla preghiera e, poiché voleva che nulla si frapponesse alla sua amicizia con Gesù, si accostava una o più volte alla settimana al sacramento della confessione (cf. G. Comensoli, Gli Scritti, p. 8-9).

Era talmente forte il suo desiderio di essere unita a Gesù che ebbe l’audacia di fare la sua prima comunione all’insaputa dei genitori, contravvenendo le leggi canoniche d’allora, perchè pensava «che Gesù non ne avrebbe avuto a male» e rimase poi per più giorni sotto l’azione sconvolgente di quell’incontro straordinario (ivi, p.10).

Frequentò con profitto la scuola elementare del paese. Al termine cominciò a dare un suo contributo alla famiglia, che non aveva mai navigato nell’abbondanza, applicandosi a lavori di ago che le venivano commissionati e nei quali mostrava una particolare propensione.

Nei tempi liberi andava in parrocchia, visitava i poveri, si rendeva utile in umili servizi in famiglia, raccoglieva le giovani alle quali insegnava a pregare, le istruiva nel catechismo, donava saggi consigli; con loro, faceva gite sul Colle della Maddalena, appena fuori del paese. E proprio a loro confidò il suo sogno di fondare un istituto di suore che avesse per scopo l’adorazione a Gesù presente nell’Eucaristia, dal quale si sentiva attratta in modo irresistibile.

Leggendo le vite dei santi, si rafforzava in lei la volontà di farsi santa; volontà che concretizzava, con il permesso del suo confessore, in un severo programma di vita spirituale e nell’impegno a vivere alcuni voti, tra i quali quello di castità e di obbedienza.

Caterina penetrava così, progressivamente, nel cuore della vita spirituale e cresceva nella consapevolezza della santità alla quale Dio la chiamava, ma poiché ogni suo sforzo le sembrava inutile, si abbandonava in Dio e, riconoscendo la sua povertà, lasciava a Lui la cura della sua santità (ivi p. 14).

 

UNA CRISI

DI BREVE DURATA

 

Sui 18 anni, però, ebbe un momento di crisi spirituale: incominciò a pregare meno, a leggere romanzi ameni, a perdere il tempo in chiacchiere inutili, a vestirsi meglio, a specchiarsi spesso, a godere di essere amata e lodata. Fu una crisi di breve durata. Infatti, mentre era in campagna con i genitori e i parenti per la vendemmia, ad un tratto – è lei stessa che lo racconta nei suoi scritti – si sentì come chiamare internamente e restò come fulminata. Vide come in uno specchio la sua infedeltà al suo Dio, soffrendone terribilmente. Rientrata in se stessa, sentì grande confidenza nell’infinita bontà e misericordia del Signore e dopo essersi confessata e comunicata, rinnovò la sua fedeltà a colui che l’aveva «sempre seguita con particolare amore» e che ora la chiamava a essere crocifissa con lui, e a fare della volontà di Dio il suo cibo quotidiano (cf. Gli Scritti, p. 18).

 

Imparò a valorizzare ogni momento della giornata, che considerava luogo della presenza di Dio, e nulla le era troppo faticoso, perché espressione della bontà di Dio per lei e vissuto nell’amore: «Non mi dà pena – scrive al suo padre spirituale – ciò che viene da Dio, anzi mi porta pace e allegrezza; dico la pura verità, non sono mai così contenta come quando ho da patire, perché non bramo che la croce... sento che la croce mi avvicina a Dio» (p. 205).

Verso il 1868 la tranquillità della famiglia Comensoli fu duramente scossa: le venne meno l’unico sostegno economico, il padre Carlo, fabbro ferraio, colpito da una grave paralisi che lo costrinse all’immobilità.

Caterina, la più giovane delle sorelle sopravvissute, fu costretta ad allontanarsi dalla sua casa e dagli affetti più cari, per andare a Chiari, a servizio della benestante famiglia Rota. Era questa l’unica prospettiva che si offriva alle ragazze di condizione povera. Un anno dopo si portò a S. Gervasio d’Adda presso la contessa Fe’ Vitali in qualità di domestica e istitutrice. Vivendo in un ambiente dal tono e dai rapporti aristocratici, acquisì un certo modo garbato e fine nel trattare le persone.

I suoi padroni si spostavano di frequente e Caterina era costretta a condurre uno stile di vita che non corrispondeva al suo temperamento, incline al raccoglimento, al silenzio e alla preghiera. La sua insofferenza per tale vita non trasparì però mai dal suo atteggiamento esteriore. Serviva con “pazienza finissima” i suoi padroni, cercava di accontentarli anche nelle piccole cose; si mostrava sempre contenta e, anche a costo di grandi sacrifici, li compiaceva in tutto ciò che non era male. Nella cura del bambino che le era affidato usava speciale delicatezza e sapienza educativa.

La sua bellezza, il suo comportamento serio e sereno, la sobrietà e prudenza attirarono l’attenzione del conte Alessandro, che le fece pervenire una proposta di matrimonio tramite la sorella contessa Ippolita, ricevendo in risposta un netto rifiuto di Caterina, che aveva già impegnato il suo cuore a Cristo.

Quando terminava i suoi impegni di lavoro, visitava volentieri i malati e soccorreva i bisognosi sia con le sue scarse risorse, senza risparmio di energie, di tempo, sia con i mezzi che la sua padrona le metteva a disposizione. La contessa Ippolita si fidava di Caterina, ma non mancò qualche voce malevola che la mise in cattiva luce presso la padrona con l’accusa di sperpero delle offerte ricevute. La verità tuttavia non tardò molto a imporsi per il disinteresse e l’equilibrio mostrato da Caterina nello svolgimento di questa delicata missione. Approfittando della fiducia che godeva presso i suoi signori, interveniva a favore dei mezzadri, quando incorrevano in qualche multa o punizione.

Le stavano molto a cuore anche le ragazze, che educava in primo luogo con il suo esempio: partecipava alla santa messa in parrocchia, si comunicava, fermandosi poi a lungo in devoto ringraziamento, recitava il rosario. Il suo atteggiamento raccolto, frutto di un sentimento religioso autentico, non mancava di edificare i presenti. Completava l’apostolato del buon esempio con interventi diretti presso le ragazze: le aiutava ad accostarsi ai sacramenti della confessione e della comunione, faceva loro catechismo, le consigliava e le esortava al bene.

 

IL SUO SOGNO

FONDARE UN ISTITUTO

 

Un viaggio a Roma con i suoi padroni e un’udienza privata del papa le offrirono la possibilità di esporre a Leone XIII il progetto, mai abbandonato, di fondare un istituto di suore dedite all’adorazione perpetua di Gesù sacramentato. Il papa della Rerum novarum approvò il progetto ma le suggerì di unire all’adorazione l’educazione delle giovani, soprattutto delle operaie.

Incoraggiata dalle parole del papa, con il beneplacito del vescovo di Bergamo, licenziatasi dai suoi padroni, Caterina si adoperò per realizzare il suo ideale: nacque così nel 1882 il nuovo istituto, in povere stanze e con pochi mezzi, ma benedetto dal Signore. Gioia e fiducia sono i sentimenti che abitavano il cuore della Comensoli in questo inizio. Scriveva nel suo diario spirituale: «Entrata in religione... Son qui con mia sorella... sola... a sera verrà una mia compagna. Mio Dio, monsignore mi assicura che è volontà di Dio. Sono qui adunque per fare la volontà di Dio... non la mia... Quanto mi dà coraggio questa parola... Non sono più mia, ma vostra interamente senza riserva alcuna... Sì, mio Dio, sì... fate voi quello che mi avete ispirato di fare... Non ho di mira che la vostra gloria... farvi adorare nel ss. Sacramento e poter così riparare a tante offese che vi vengono fatte. Tutti questi patimenti sono un nulla e soffrirò di cuore tutti i tormenti purché vi veda esposto all’adorazione di tante anime...» (p. 41).

L’istituto si arricchì in poco tempo di nuovi membri e di opere a favore delle ragazze orfane e derelitte, ma ben presto, nel 1889, la sua esistenza sembrò compromessa in modo irrimediabile a causa di un fallimento economico. Madre Geltrude trovò, anche in questo momento doloroso, il coraggio di continuare nell’umiltà del pane eucaristico, sacramento della presenza reale di Cristo e non cessò di sperare e di abbandonarsi in lui: «Nessuno può nuocermi se tu non lo permetti... Il giorno è questo della terribile catastrofe... Mio Gesù di qui a qualche minuto saranno qui, vengono a metterci tutto sotto sigillo... Sostenetemi nella dura prova, aiutatemi per carità. Gli uomini sigillano le nostre cose. Voi sigillate il mio cuore nel dolcissimo e amabile vostro cuore, non mi togliete più... tenetemi sempre voi, mio diletto Gesù. Fiat voluntas tua. Amen” (p. 37).

Furono momenti dolorosi per l’istituto: «case, poderi, chiese, arredi sacri, industrie, attrezzi industriali, persino le piccole doti delle suore e delle novizie sfumarono» (p. 339) e le suore, rimaste con madre Geltrude, vissero per due anni in miseria; a volte avevano da mangiare solo un po’ di polenta. La Comensoli, tuttavia, non si perse mai d’animo, certa che le opere del Signore devono passare nel crogiolo della sofferenza e della prova per essere purificate. Incoraggiava le suore ad aver fiducia in momenti migliori. Allo stesso vescovo di Bergamo che le consigliava di sciogliere l’istituto lei, inginocchiatasi davanti a lui, disse: «Ci lasci continuare, monsignore. Verrò io a dirle quando non ce la faremo più».

 

RINASCITA

DOPO LA PROVA

 

E la sua fiducia e la sua speranza non furono deluse: appena due anni dopo l’istituto, dalla croce, rinacque ancora più vigoroso e si diffuse nelle diocesi di Bergamo, Milano, Venezia.

Madre Geltrude governò l’istituto con saggezza, fermezza, equilibrio ed umiltà: «Non alzerò mai la voce – scrive nei suoi propositi – non mi giustificherò mai, né a ragione né a torto. Soffrirò tutto in silenzio, qualsiasi cosa mi venisse fatta» (p. 26). E a tale spirito di umiltà volle educare anche le suore chiedendo: «Diffidenza di sé, umiltà grande, generosità nel patire, e grande carità di comportamento» (pp 792-793), unite alla gioia «segno autentico che lo Spirito Santo abita in un’anima».

Nonostante la sua salute fosse già da tempo minata da un tumore addominale che la costringeva spesso a letto, affrontava viaggi disagevoli per essere vicina a qualche suora particolarmente malata e per rendersi conto di persona della vita spirituale delle comunità.

Raggiungeva le suore, soprattutto quelle che operavano in luoghi più lontani o in situazioni difficili, anche con frequenti scritti, animando tutte a fissarsi in Gesù eucaristico e a riporre nel suo cuore tutta la propria fiducia e ricchezza.

Era quello che aveva sempre fatto lei in tutta la sua esistenza. Infatti si legge nel suo diario spirituale: «Terrò il mio cuore sempre rivolto all’altare dove dimora l’amato Gesù. Stanca ed oppressa, afflitta e desolata, là sarà il mio luogo di riposo, veduta solo dal mio Gesù... La mia vita deve essere sepolta in Dio nel divino suo costato» (p. 60).

Tra le sue molte attività trovava sempre il tempo di giorno e di notte per stare a lungo in preghiera di adorazione davanti a Gesù nel tabernacolo, suo unico amore, sua gioia vera, suo paradiso in terra, «il Re pacifico che unisce i cuori nella carità».

Al termine del suo pellegrinaggio terreno, il suo ultimo sguardo e pensiero furono ancora per Gesù: dopo aver baciato con infinita riconoscenza il crocifisso che il sacerdote presente le offriva, madre Geltrude volse lo sguardo in direzione della cappella e del tabernacolo e chiese: «Continuerà sempre l’adorazione?». Avutane assicurazione, con serenità passò dalla adorazione terrena a quella eterna. Era il 18 febbraio 1903, un mese prima aveva compiuto cinquantasei anni.

Il processo di canonizzazione fu aperto nel lontano 1928 e giunse alla sua conclusione il 1° ottobre del 1989, giorno in cui madre Comensoli fu iscritta da Giovanni Paolo II nell’albo dei beati.

A 100 anni dalla morte la sua ultima domanda, «Continuerà l’adorazione?» è sollecitazione per ogni suora sacramentina e ogni credente, a fare del mistero eucaristico il centro della propria vita. Non ci può essere infatti vita cristiana autentica senza Eucaristia.

 

A cura

delle suore sacramentine