IL SERVIZIO DELL’AUTORITÀ OGGI

 

IL SUPERIORE
SERVO DI CRESCITA

 

Non può essere miope vedendo soltanto ciò che è sotto gli occhi e sfoderando un finto ottimismo per non far trapelare lo smarrimento ed esorcizzare la rassegnazione. Ma non può essere nemmeno presbite: avere cioè la difficoltà a leggere bene il giornale della storia.

 

Nella situazione attuale della vita religiosa la richiesta è quella di vederci bene. Da qui è scaturita la salvezza per Bartimeo: «Rabbunì, che io riabbia la vista!» (Mc 10,51).

Nella prospettiva di questo versetto mi sembra di intravedere il diverso modo di porsi di colui che avendo compiti di autorità (locale, provinciale, generale), dovrebbe fungere da traghettatore verso nuovi approdi.

Colui al quale è richiesto il servizio di autorità dovrebbe avere occhi buoni per cogliere, non superficialmente, la crisi di vitalità, che sta correndo il rischio di sfociare in un blocco evolutivo senza ritorno.

Non può essere miope cioè avere il limite di vedere soltanto ciò che è sotto gli occhi con il pericolo di rinserrarsi in apparenti solidità e sfoderare un finto ottimismo per non far trapelare lo smarrimento ed esorcizzare la rassegnazione.

Non può essere presbite: avere cioè la difficoltà a leggere bene il giornale della storia. Uscendo dalla metafora: il “servizio dell’autorità” deve saper interpretare ciò che è al tramonto e ciò che sta all’orizzonte, sapersi confrontare con la dinamica del cambiamento, e spendere le energie dell’istituto per l’appuntamento con la storia dei tempi nuovi: ad alcuni appuntamenti arrivare in ritardo significa non arrivare.

 

ALCUNI TRATTI

CARATTERISTICI

 

Allora potremmo chiederci: quali dovrebbero essere i tratti di coloro che hanno il ruolo di pilotatori verso l’altra riva?

– Saper apprendere. Dal momento che il cambiamento è diventato elemento strutturale del farsi della realtà in un mondo che cambia, c’è bisogno di persone che sappiano vivere questo come opportunità per nuovi equilibri piuttosto che come minaccia mortale rispetto all’equilibrio raggiunto. Diversamente da ieri, in una società in evoluzione rapida, la vita di un sistema dipende dalla capacità del suo adattamento continuo per cui necessitano persone capaci di apprendimento e servono sempre meno persone in grado semplicemente di tesaurizzare una conoscenza sedimentata negli anni.

– Segnare nuove tracce di senso. Se è insufficiente la capacità di conservare, diventa fondamentale saper creare nuovi assetti. Essere creativi non significa solo fare cose nuove ma anche «vedere problemi antichi in modo inedito o intuire questioni che ancora nessuno vede con chiarezza, per poi trovare soluzioni al di là di tutte le risposte fino a quel momento già acquisite».1 È capace di ciò una persona che abbia fatto il passaggio da una concezione piuttosto statica dell’ordine a una concezione più dinamica ed evolutiva; che lasci alle spalle la cultura premoderna secondo cui «il compito dell’uomo è di riprodurre nel modo più fedele quei modelli di conoscenza e di vita che provengono dalla più veneranda antichità». Per l’uomo premoderno «non è la creatività a porsi al centro della formazione del vero uomo, quanto piuttosto l’obbedienza fedele alle regole e ai principi già dati».2

Per segnare tracce di senso in questa epoca c’è bisogno di religiosi che sappiano scrivere nuove pagine di storia. Per questo compito non bastano i “cronisti”, ci vogliono buoni “redattori”, un “corpo di redattori” (leggi consigli) capaci di prefigurazioni: al giorno d’oggi invece è debole la redazione e forte il settore composizione, vale a dire quel comparto ove si lavora con il metodo “taglia e incolla” e che ha il compito di fornire le foto di repertorio quando mancano “resoconti” di storia corrente.

 

DECIDERE

RISCHIANDO

 

L’attendismo, ricondotto a “prudente” metodo di governo, è un atteggiamento esiziale in questo momento di sistemi bloccati e di esaurimento delle risorse disponibili. Non è possibile «rimanere troppo a lungo sulla riva a studiare il corso della corrente senza mai infilare il piede nell’acqua».3

È necessario non solo saper decidere ma decidere in tempo reale. Questo termine, tanto ricorrente, sembra ben indicare che il vero tempo è quello immediato. Molti si difendono con il dire che ciò è carico di pericoli. È vero, però oggi la possibilità di cogliere o costruire opportunità passa soltanto attraverso il mettersi in relazione con il rischio. Ma una attività di governo, carico di mediazioni e il prevalere di regolamenti e paure, si addice a quanto finora detto?

In questi ultimi anni i capitoli hanno scritto varie pagine di progetti improntati alla sfida (il cui significato è confronto, competizione, scontro) ma senza spendere una parola circa le conseguenti attitudini dello sfidante, per cui ci si trova sovente con persone che lasciano che succeda. Riconducendo a immagine questo stile di governo lo si potrebbe riconoscere nella figura del “vigile urbano”: se posto a un crocevia non gli interessa se il traffico va a destra o a sinistra, avanti o indietro, a lui spetta soltanto dare consenso ora all’uno e ora all’altro. L’unica preoccupazione è che non ci siano incidenti o si blocchi il traffico.

L’incapacità a decidere rischiando ha portato ad assumere il principio di sussidiarietà secondo la concezione liberista del “lasciar fare” inteso come “vedetevela da soli”, piuttosto che secondo la concezione della dottrina sociale della Chiesa sviluppatasi negli anni successivi alla Quadragesimo anno, che induce alla “libertà di fare”, attribuendo all’istituzione il compito di sostenere questa libertà: tra il lasciar fare e il fare direttamente, l’istituzione ha il compito di aiutare a fare.

 

– Far posto a nuove logiche di indirizzo. Si è dissolta l’idea di un mondo oggettivo, che l’uomo dovrebbe solo conoscere dal di fuori per adeguarvisi, per cui l’aver governato, in questi ultimi trent’anni, prevalentemente prendendo le distanze da dinamiche evolutive ha portato al punto critico in cui i fattori di discontinuità superano quelli della continuità. Di conseguenza, oggi, governare unicamente secondo il principio di continuità porta alla crisi di vitalità. «Se la programmazione esistente aveva percorso la strada della continuità, le sfide provenienti dalle nuove situazioni culturali ed ecclesiali, determinatesi negli ultimi anni, inducono a una inversione di tendenza verso la discontinuità. Questo significa, in pratica, sganciarsi dal condizionamento offerto dall’esistente e dalle sue dinamiche tendenzialmente inerziali e configurare nuovi obiettivi apostolici, nei quali investire al meglio le nostre risorse”.4 «In ogni caso, nessuna attività od opera può continuare semplicemente prolungando lo schema di funzionamento precedente, ma è obbligata a riprogettarsi, a volte radicalmente, per il cambiare dei bisogni a cui rispondere e di coloro che operano al suo interno».5

Un’azione di governo che non sia capace di introdurre discontinuità all’interno del sistema, di non perturbare la situazione esistente è un’azione volta più alla conferma degli assetti in atto che al sostegno dell’evoluzione. Deriva da questo il fatto che la conclamata creatività dichiarata in tanti documenti, nei fatti si è espressa prevalentemente in interventi per la sopravvivenza.

 

– Libero dal “proprio personaggio”: quel “personaggio” (superiore) che la storia passata è andata costruendo adeguandosi ai canoni “bellarminiani” di Chiesa (e istituzioni a lei riferentesi), di “società gerarchica”. Oggi c’è l’attesa di chi sappia camminare da fratello piuttosto che da padre o maestro, e conseguentemente c’è presa di distanza dal paternalismo, dottrinarismo, legalismo e ritualismo. Il servizio di autorità è chiamato a passare da un servizio di attribuzione a sé di responsabilità ad «essere un servizio alla libertà dei membri perché possano rispondere con generosità alla loro vocazione».6 C’è l’attesa di chi sappia «responsabilizzare, energizzare, concetto prettamente evangelico: “prendi il letto e vai a casa”. Gesù trasmette energia e volontà di vivere».7

 

– Collocato nella nuova ecclesiologia. La vita religiosa non è “la Chiesa” ma ne è parte integrante che trova quindi il suo compimento nell’insieme delle componenti. È vero che è stato carente il riconoscimento e l’inserimento dei religiosi/e nell’organicità delle diocesi, ma è pur vero d’altra parte che la difficoltà è da imputare anche a una certa autosufficienza a-relazionale della vita religiosa, trovando in sé stessa tutto il necessario per raggiungere i propri fini. «Lo scambio di doni nella reciprocità e nelle complementarietà delle vocazioni ecclesiali», come indicato in Ripartire da Cristo (RC 7), è possibile nella misura in cui i religiosi/e assumono nella chiesa locale una cittadinanza attiva, garantendo stabilità e continuità per progetti condivisi.

 

– Lavorare “per progetti”. Coloro che hanno compiti di autorità, assediati da emergenze, hanno finito con lo sposare la cultura dell’emergenza. Ma una cultura che insegue le emergenze ha un orizzonte limitato, insufficiente capacità di analisi, non sa vedere in profondità. La cultura del lavoro per progetti invece è diversa dalla cultura dell’emergenza. Si propongono degli obiettivi generali, meglio definiti da obiettivi specifici, sono precisate le strategie, le azioni, i tempi, le risorse umane e materiali, gli indicatori di verifica. In termini operativi questo modo di operare si traduce in percorsi più che in corsi: è un apprendimento in azione incorporato alla “pratica”. Un progetto ha garanzia di riuscita se nasce dalla testa, passa al cuore e da qui alle mani evidentemente dello stesso “corpo”: vale a dire che occorre un gruppo di persone che pensi un progetto, lo senta a misura delle proprie possibilità, vi si affezioni e responsabilmente su di esso investa la vita. Richiede un “dove” definito, non troppo esteso che diventa il luogo della “immaginazione” e poi il luogo della sperimentazione: è un dato territorio, comune a più persone (provincia), che dà la possibilità di conoscersi, riconoscersi, costruire alleanze, concordare il “come.” Da qualche anno, invece, il dialogo progettuale all’interno delle province, trova sempre meno interlocutori; la riflessione e il pensiero programmatorio si è trasferito dall’ambito provinciale a nazionale, da nazionale a internazionale e sempre più elitario: da qui la povertà di pensiero e di investimento nel luogo più influente sulle scelte di vita. A livello provinciale sono rimasti gli incontri per età, di preghiera, di celebrazioni di memorie …i funerali.

 

NON SCHIAVO

DI LOGICHE ISTITUZIONALI

 

L’istituzione ha come riferimento la norma, che è data prevalentemente dalla sedimentazione delle consuetudini che sono soddisfatte dalla fedeltà. È il modo di pensare normale (normato) di una cultura stabilizzata quello di ritenere l’identità come un possesso piuttosto che un processo in continua evoluzione. Il carisma così concepito ha solo bisogno, nel ruolo di autorità, di manutentori piuttosto che di ideatori, di persone che camminino “dietro” la storia conosciuta, piuttosto che “dentro” di essa nella dinamica del suo evolversi.

Precedentemente indicavo la necessità del rischio, però l’istituzione e la persona “conformata” difficilmente codifica il rischio, ma soltanto quello che si presenta con il profilo preciso. Anche quando accetta il processo evolutivo, non procede con il criterio, precedentemente invocato, della discontinuità, per cui non sa assumere le rotture perché si fonda su uniformità, concordia, consuetudini, procedere tutti assieme. Ma che «il trapasso verso nuove sintesi possa avvenire senza traumi è illusione: è avvenuto per la Chiesa con il concilio e questo avverrà anche per gli istituiti di vita religiosa. Ogni stagione di cambiamento è stagione di agonie e le agonie in genere provocano bisogni di sicurezza, l’aggrapparsi a tutto pur di non morire».8

Per l’istituzione – ancora – la preoccupazione prevalente è per la “barca” in sé. Se questa è carica di anni, l’attenzione è assorbita dalle manutenzioni. I nuovi approdi vengono dopo.

L’istituzione anche in tempo di rifondazione fa leva su strumenti canonici (capitoli, visite, circolari) ma questi oggi sono inadeguati e improduttivi: possono mettere in luce degli indizi ma sono disattenti o impotenti nell’impiantarli; al più possono dare il consenso a nuove esperienze, a patto, implicito, che siano similari, a norma, riproducibili ovunque. Mal sopporta il detto di Paulo Freire: «Le esperienze non si trapiantano, si reinvestono»

Tratto irrinunciabile di chi ha un  compito di autorità è di essere un buon mediatore. Tutti d’accordo verrebbe da dire, ma è il modo di intenderlo che fa la differenza tra una mentalità istituzionale e una no. Mediare significa saper trovare il punto di equilibrio, ma bisogna vedere se la scala valoriale della bilancia è la stessa e se nel definire la “medianità” l’ago è tarato sullo standard della “storia” o sul “progetto”. In un incontro di ricerca9 un provinciale disse: «Le posizioni stanno talmente e necessariamente divaricando che varie divergenze non sono più negoziabili. Prendere la via media era possibile un tempo in cui le posizioni non variavano eccessivamente, oggi la scelta della via media si chiama scelta della mediocrità. Un tempo il responsabile di provincia o comunità che non prendeva posizione poteva interloquire con una parte e con l’altra ora così agendo si trova ad essere rifiutato da tutte e due».

 

Concludendo: in queste righe ho cercato di rendere ragione di quanto si va dicendo e scrivendo: «Rispetto all’odierna situazione della vita consacrata, il ruolo – con riferimento al provinciale – non è più adeguato al cambiamento in atto, per tanti aspetti complesso e sfuggente».10

Il giudizio trova molti autorevoli consensi non soltanto in riferimento al livello provinciale ma anche generale e locale. Si tratta allora di ricostruire questi ruoli secondo l’ipotesi di “servo della crescita” con capacità di attraversare nuove frontiere di pensiero e di azione.

 

Rino Cozza csj

 

1 M. Guzzi, Religiosi in Italia, n. 4, luglio-agosto 2002, 166.

2 Ib.

3 P. Liberti in “Essere sup. Provinciale oggi”, testimoni 15.2.02, n. 3)

4 Ib.

5 Ib.

6 Vivere secondo lo spirito, strumento di lavoro per l’assemblea generale CISM, Palermo, novembre 2002, 11.

7 Consacrazione e Servizio, marzo 2001.

8 B. Secondin, Problemi e prospettive di spiritualità, 391, Queriniana.

9 Agitef-Verona 23/11/02

10 P. Pierluigi Nava, Religiosi in Italia, n. 11, marzo-aprile 2001, 108.