IN UN MONDO CHE PARLA DI GUERRA
PACE IMPEGNO
PRIORITARIO
Oggi la guerra torna
prepotentemente ad abitare la storia col suo potenziale di morte e di
sofferenza, di distruzione e di odi, destinati a rincorrersi ancora lungo il
corso dei secoli. In questo scenario l’impegno per la pace è un imperativo
etico per ogni credente.
L’impegno a favore della pace non è una possibilità accanto alle altre ma un vero e proprio compito morale per ciascun credente e un imperativo etico per ogni persona di buona volontà. Ne prendiamo coscienza ogni qualvolta i rumori di guerra si fanno particolarmente minacciosi e coinvolgono più da vicino l’occidente o la nostra nazione. Eppure il Vangelo di Luca era stato preciso su questo punto: «In qualunque casa entriate, prima dite: pace a questa casa» (Lc 10,5). Si tratta delle parole che accompagnano il solenne invio da parte del Maestro dei settantadue discepoli. È la loro “missione”. Essi avranno, come primo e imprescindibile compito, quello di annunciare la pace.
Pertanto un impegno prioritario per chiunque voglia mettersi sui passi del Cristo e per coloro che hanno semplicemente a cuore il destino dell’umanità. D’altra parte il concilio Vaticano II al n. 78 della Gaudium et spes ci aveva insegnato che «la pace non è assenza di guerra, né solo equilibrio di forze, ma può con tutta esattezza essere definita opera di giustizia». Con questo significato viene fugata ogni ombra di dubbio sull’attenzione che i credenti nel Risorto devono porre non soltanto nel concorrere a dirimere i conflitti o a prevenirne gli effetti tragici e disastrosi, quanto a impegnarsi per la realizzazione della giustizia e per vedere affermata la cultura dei diritti e della legalità. La pace – sembra dire il concilio – si costruisce stando accanto ai poveri della terra e facendo giungere a tutti il loro grido e non soltanto contrastando il disegno di morte di coloro che ancora credono nella guerra. Un impegno che abbia questa direzione e questo stile riesce a scrutare quanta poca pace vi sia nella vita precaria cui è condannato il profugo o il contadino africano, il cassintegrato del nostro paese e coloro che vivono l’incubo della minaccia della guerra. In tutti questi casi l’annuncio non può non assumere anche i toni della denuncia e della difesa delle vittime. La sensibilità dei credenti e delle comunità cristiane dovrebbe essere tale da farsi vicina alle situazioni di guerra e di fame che si consumano tragicamente in tante zone del pianeta lontano dai riflettori dell’informazione di massa. Le prese di posizione, numerose e decise, contro la minaccia di un altro conflitto ai danni della popolazione irachena è un segno importantissimo della più diffusa sensibilità contro la guerra e i suoi effetti tragici.
SI TORNA
A PARLARE DI GUERRA
Gli analisti e gli studiosi, anche di diverse sensibilità culturali, concordano nel considerare che la guerra è tornata prepotentemente ad abitare la storia. Non che se ne fosse mai allontanata totalmente, ma negli anni della guerra fredda sembrava come paralizzata dalla catastrofe che veniva minacciata dal potenziale distruttivo delle testate nucleari. Anche le guerre cosiddette di bassa intensità erano tutte combattute nella prospettiva “ghiotta” di allargare le rispettive zone di influenza e di controllare la politica e l’economia di aree sempre più vaste.
Oggi la guerra è diventata uno strumento a portata di mano per poter dirimere contenziosi, affermare le proprie ragioni, riscattarsi da vecchi e presunti torti storici, rispondere alle minacce di gruppi terroristici o di eserciti nazionali. Oggi la guerra torna prepotentemente ad abitare la storia col suo potenziale di morte e di sofferenza, di distruzione e di odi... destinati a rincorrersi ancora lungo il corso dei secoli. Persino il nostro stesso paese che aveva avuto più di quarant’anni di pace (intesa come assenza di conflitti armati) ha partecipato attivamente a ben tre guerre negli ultimi dieci anni (Golfo 1991, Kossovo / Serbia 1998, Afghanistan 2001). In questo scenario preoccupa sì il numero delle vittime e le distruzioni che si generano, ma anche la cultura della guerra che va recuperando terreno e impiantandosi nella coscienza delle persone e soprattutto delle giovani generazioni. Questo scenario preesistente all’11 settembre 2001 si è aggravato con l’entrata in azione in modo prepotente e drammatico del terrorismo e delle risposte che si è inteso dare estendendo il raggio del conflitto.
Anche come Pax Christi avevamo prontamente preso posizione all’indomani della risposta degli Stati Uniti dicendo: «L’11 settembre l’umanità aveva fatto un balzo indietro. Il 7 ottobre ne ha fatto un altro. Non possiamo esimerci dalla condanna dell’attacco militare sferrato dagli Usa e dai suoi alleati contro l’Afghanistan perché ancora una volta si fa affidamento sulla forza delle armi piuttosto che sulla forza della ragione, sulla violenza dei missili piuttosto che sul diritto internazionale, sulla potenza di fuoco invece che sul dialogo e sulla capacità di estirpare alla radice le motivazioni che portano tanti ad aderire al terrorismo. L’umanità avrebbe potuto meglio rialzarsi dall’orrore provocato a Washington e New York dimostrando di aver compreso che la sofferenza ha lo stesso colore a tutte le latitudini e che la lezione della storia mostra come la violenza non ha mai aiutato la ricerca della verità, il trionfo della giustizia e il godimento della pace piena. Per questo motivo abbiamo coscienza che gli attacchi missilistici ed aerei servano a prolungare il lutto della ragione inaugurato tragicamente con le stragi dell’11 settembre» (Pax Christi Italia, 8 ottobre 2001). La guerra preventiva così come è stata pianificata dal sottosegretario alla difesa statunitense Paul D. Wolfowitz e accettata dal presidente George W. Bush (vedi il The National Security Strategy of United States of America, settembre 2002) rappresenta una svolta pericolosissima nel disegno delle strategie politico-militari.
È severo e preoccupato il giudizio che di questo modello di guerra si è sollevato in diverse occasioni da autorevoli esponenti della gerarchia cattolica come il presidente della CEI: «È senza dubbio necessaria la vigilanza più attenta e rigorosa, per prevenire il rischio di nuove e maggiori tragedie, i cui sviluppi sarebbero poi ben difficili da controllare. Ma ciò non significa che possa essere intrapresa la strada di una guerra preventiva, che avrebbe inaccettabili costi umani e gravissimi effetti destabilizzanti sull’intera area medio-orientale, e probabilmente su tutti i rapporti internazionali. L’arma della dissuasione, esercitata nell’ambito dell’ONU con la più forte determinazione e con il sincero e solidale impegno di tutti i paesi capaci di esercitare un’influenza concreta, può rappresentare, anche in questa difficile situazione, un’alternativa in grado di garantire la sicurezza e la pace» (card. Camillo Ruini, prolusione al Consiglio permanente della CEI, 16 settembre 2002). Così come mons. Renato Martino nel corso della conferenza stampa di presentazione del messaggio di Giovanni Paolo II per la 36a Giornata mondiale della pace: «Le armi atomiche non fanno parte del bagaglio che dobbiamo portarci nel XXI secolo», e «la guerra preventiva è una guerra di aggressione», che «non rientra nella categoria di guerra giusta», fatta cioè sulla base del «diritto di difendersi contro l’ingiusto aggressore». In questo senso il parere più argomentato mi è parso quello ben espresso nell’editoriale di Civiltà Cattolica del 2 novembre scorso: «È una teoria – questa, della “guerra preventiva” – che non può essere accettata, perché terrebbe l’intero pianeta in uno stato di guerra permanente.[...] Che gli Stati Uniti pensino di divenire guardiani della pace, minacciando di intervenire in ogni parte del mondo in cui ci sia uno stato che prepari la guerra, sarebbe una pericolosa illusione, destinata non soltanto all’insuccesso, ma alla proliferazione di guerre senza fine. In altre parole, la “guerra preventiva” non serve alla pace, ma a porre l’umanità in uno stato di guerra permanente, oltre al fatto gravissimo che la teoria della “guerra preventiva” si pone al di sopra delle regole più eticamente sicure e più universalmente accettate dal diritto internazionale».1
IL MESSAGGIO
DEL PAPA
In questo nuovo contesto Giovanni Paolo II ha scelto e commentato l’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris per celebrare la 36ma Giornata mondiale della pace dal titolo significativo: Pacem in terris: un impegno permanente. È il modo con cui l’attuale pontefice riconosce la Pacem in terris come la Magna Charta del pensiero moderno della cattolicità sulla pace e ne rilancia i valori ivi contenuti perché possano essere adattati alle diverse condizioni del mondo. Pertanto non solo la memoria dei quarant’anni (11 aprile 1963) dalla firma dell’importante documento ma la sua riattualizzazione. Infatti il papa non si premura di ricordare il contesto storico e politico in cui (o da cui?) era generata quella riflessione del beato Giovanni XXIII ma nello stesso tempo evidenzia che se il muro di Berlino che era stato costruito solo due anni prima dell’enciclica è stato distrutto e la crisi dei missili a Cuba superata, i quattro pilastri su cui si basa la visione cristiana della pace sono tuttora validi e attuali. La verità, la giustizia, l’amore e la libertà che nel messaggio vengono rilanciati con espressioni che sembrano altrettante sfide: «La verità sarà fondamento della pace, se ogni individuo con onestà prenderà coscienza, oltre che dei propri diritti, anche dei propri doveri verso gli altri. La giustizia edificherà la pace, se ciascuno concretamente rispetterà i diritti altrui e si sforzerà di adempiere pienamente i propri doveri verso gli altri. L’amore sarà fermento di pace, se la gente sentirà i bisogni degli altri come propri e condividerà con gli altri ciò che possiede, a cominciare dai valori dello spirito. La libertà infine alimenterà la pace e la farà fruttificare se, nella scelta dei mezzi per raggiungerla, gli individui seguiranno la ragione e si assumeranno con coraggio la responsabilità delle proprie azioni».
Importante aver sottolineato anche quell’aspetto di particolare apertura alla speranza che in Giovanni XXIII si respirava appieno e che troppo spesso è stato frainteso come una sorta di ottimismo. Si tratta invece di una atteggiamento che lo Spirito suscita in coloro che sanno accoglierlo: intravedere i segni dei tempi, leggere le impronte della speranza nella storia, cogliere il nuovo all’orizzonte. Con impareggiabile sapienza Giovanni Paolo II nel messaggio fa cogliere bene come certe intuizioni abbiano rispettato l’appuntamento con la storia e siano giunte a maturazione e altre, pur avendo compiuto un notevole cammino, attendono di ottenere pieno compimento. L’importanza del messaggio è data soprattutto dall’aver riproposto in modo perentorio la necessità di un organismo sovranazionale che funga da arbitro tra i popoli con mezzi democratici e nel rispetto delle conquiste del diritto internazionale: «Non è forse questo il tempo nel quale tutti devono collaborare alla costituzione di una nuova organizzazione dell’intera famiglia umana, per assicurare la pace e l’armonia tra i popoli, ed insieme promuovere il loro progresso integrale?
È importante evitare fraintendimenti: non si vuol qui alludere alla costituzione di un super-stato globale. Si intende piuttosto sottolineare l’urgenza di accelerare i processi già in corso per rispondere alla pressoché universale domanda di modi democratici nell’esercizio dell’autorità politica, sia nazionale che internazionale, come anche alla richiesta di trasparenza e di credibilità ad ogni livello della vita pubblica».2
In conclusione, il messaggio di Giovanni Paolo II ci aiuta a cogliere la profonda attualità della Pacem in terris e getta una luce sul mondo guardandolo dalla parte degli ultimi e delle vittime delle guerre e della fame. «Le comunità ecclesiali studieranno come celebrare questo anniversario in modo appropriato durante l’anno, con iniziative che non mancheranno di avere carattere ecumenico e interreligioso, aprendosi a tutti coloro che hanno un profondo anelito a superare le barriere che dividono, ad accrescere i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri, a perdonare coloro che hanno recato ingiurie».3 La speranza è che le comunità si sentano provocate a celebrazioni non solo simboliche o liturgiche: il bene sommo della pace merita che ognuno scelga la nonviolenza e spenda la propria vita.
Tonio Dell’Olio
coordinatore nazionale di Pax Christi
1 La Civiltà Cattolica, 2002 IV 213-219, quaderno 3657.
2 Messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2003, 6).
3 Ib. 10.